Con la tempestività e la velocità degli instant book, Paolo Armaroli ha scritto un libro che è insieme di storia e di cronaca parlamentare, con il suo stile ormai noto, in cui l’acribia dello storico si coniuga in un mix felice con la brillantezza e la leggibilità del giornalista.
Siamo in presenza di un libro documentato e ricco di fatti inediti. Armaroli, professore ordinario di Diritto pubblico comparato, docente di Diritto parlamentare, di Storia delle Costituzioni, con una esperienza anche di deputato, ha preso spunto dalla rielezione di Mattarella per fare un viaggio a ritroso raccontando le elezioni dei predecessori. Un appassionante film istituzionale.
Ne sono usciti 12 ritratti a matita, una formula per indicarne la tecnica impressionistica che nulla toglie alla nitidezza delle figure di questa galleria dei supremi Reggitori della Repubblica.
Di cui solo 11 furono eletti dal Parlamento in seduta comune. E chi era l’altro? Enrico De Nicola. Già capo provvisorio dello Stato, in virtù della prima delle disposizioni transitorie e finali diventò primo presidente della Repubblica.
Quindi non fu eletto ma diventò presidente per una disposizione costituzionale, “per grazia ricevuta”, scrive Armaroli. E già questa annotazione è la prima di una serie di “spie linguistiche” che svelano e anticipano lo stile dell’autore: rigoroso ed esatto nella documentazione e nella ricostruzione, ma, montanellianamente, incline alla battuta a volte scherzosa, più spesso graffiante. E come Montanelli, di cui orgogliosamente si ritiene un seguace, Armaroli, da onorario “maledetto toscano” ( è romano di nascita), sarebbe disposto a perdere un amico che a rinunciare a una battuta, secondo un noto motto di Quintiliano.
Che cosa racconta questo libro?
Lo svolgimento delle varie elezioni presidenziali, vari psicodrammi tra franchi tiratori, aspirazioni deluse, scrutini defatiganti (ce ne vollero 23 per Leone e 21 per Saragat) ma anche elezioni lampo, come per Cossiga e Ciampi. Degli illustri inquilini del Quirinale, l’autore in rapidi ma efficaci scorci delinea i comportamenti istituzionali seguendo alcuni parametri di giudizio: i discorsi d’insediamento, le nomine fatte, l’atteggiamento verso la Costituzione. Valga questo telegrafico excursus su alcuni “tratti” dei vari presidenti.
De Nicola
Armaroli ricorda il carattere bizzoso e il suo essere “abbonato” alle dimissioni, con questo acuto rilievo: “L’uomo si offende per un nonnulla e le dimissioni non le minaccia, no, lui le rassegna. Tanto per vedere l’effetto che fanno”. De Nicola dalla mattina alla sera indeciso a tutto, non si può dire che fosse un uomo di carattere. Ma un brutto carattere di sicuro lo aveva. Un gran peccato, perché era uomo di specchiata onestà, avvocato e giurista di gran fama che dette lustro ai tanti incarichi ricoperti nella sua lunga esistenza. De Nicola non metterà mai piede al Quirinale, timoroso, da buon napoletano, della maledizione di Pio IX, e preferirà il più discreto Palazzo Giustiniani.
Luigi Einaudi
“Viva vox constitutionis”, così sul “Ponte” Piero Calamandrei salutò il messaggio d’insediamento di Giovanni Gronchi nel 1955. Nossignore, obietta Armaroli a Calamandrei, definito più che il padre la suocera della Costituzione, per le critiche corrosive che ne fece. Nossignore, perché “la prima vera voce della Costituzione è stata quella di Luigi Einaudi”. Infatti fu il primo a far cantare a dovere la legge fondamentale della Repubblica e a lasciare intatte ai suoi successori le prerogative proprie della suprema magistratura dello Stato. Einaudi fu il primo a esercitare quella che i britannici chiamano moral suasion. Non solo sussurra all’orecchio dei ministri, ma invia loro delle letterine dove senza enfasi espone il suo punto di vista.
Giovanni Gronchi
De Gasperi – scrive Armaroli senza peli sulla lingua – non sottovalutava affatto Giovanni Gronchi ma lo considerava una fastidiosa mosca tze-tze. Professore di storia e filosofia, abile dialettico, un Machiavelli in sedicesimo, la volpe di Montecitorio ( fu presidente della Camera). Nella nomina dei senatori a vita ha mano felice: bastino i nomi di Tomaso Perassi, Enrico De Nicola, Aldo M.Sandulli e Costantino Mortati.
“Come l’Elena di Troia di Goethe, Gronchi è stato lodato dai suoi amici e molto biasimato dai suoi avversari”, ricorda Armaroli, che accenna appena, e la cosa un po’ ci meraviglia, a un altro tratto biografico di Gronchi: la sua chiacchierata sensibilità al fascino femminile, per dirla in modo elegante. Comune anche a De Nicola, ma il grande partenopeo era scapolo!
Antonio Segni
Il primo presidente della Repubblica democristiano ( I primi due, De Nicola e Einaudi, erano laici e addirittura monarchici!). Il cosiddetto “Piano Solo”( solo carabinieri), ideato dal generale Giovanni de Lorenzo, è sfruttato da Segni, non entusiasta del centrosinistra, per ridurre il Psi a più miti consigli. Pietro Nenni che sente un tintinnar di sciabole ( si temette un colpo di Stato) non si oppose alla nascita del secondo governo Moro.
Una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti del giugno-luglio 1964 escluse che Segni avesse progetti golpisti. La presidenza Segni è stata la più breve della storia repubblicana (a parte quella di De Nicola): durò due anni. Il 7 agosto 1964 ( lo stesso mese e anno in cui Togliatti morì durante le vacanze a Jalta, nella Crimea oggi annessa da Putin), fu colpito da ictus; per alcuni mesi fu sostituito dal presidente del Senato Merzagora, poi si dimise nel dicembre e nello stesso mese fu eletto Saragat.
Armaroli si diverte a fare i conti con la cabala. Ed elenca le vittime della maledizione di Pio IX scagliata contro gli usurpatori che entrarono a Roma a Porta Pia e ne fecero la Capitale. Dopo Umberto I, assassinato, Vittorio Emanuele III che dovette cedere la Luogotenenza al figlio, dopo Umberto II che dovette sloggiare dopo il referendum del ’46. All’elenco, oltre a Segni, Armaroli aggiunge Leone, che fu costretto alle dimissioni anticipate.
Giuseppe Saragat
Una “marcialonga verso il Quirinale”. Ci vollero 21 scrutini, due in meno di quelli che nel ’71 occorsero per eleggere Leone: 23 votazioni, un Everest che non è stato mai superato, osserva l’autore. La Dc aveva come candidato ufficiale Leone, ma si era arrivati a Natale e il Parlamento era spaccato tra Leone e Nenni. La Dc ritira la candidatura. E al sedicesimo scrutinio, alla chiama di Leone, vivi applausi si levano dal centro (è scritto nei resoconti d’aula). Armaroli commenta:”Un funerale, ma un funerale di prima classe. A destra si contesta il presidente del Consiglio Moro, considerato il dominus della resa”.
Alla fine il Pci si vede costretto a votare per il protagonista della scissione di Palazzo Barberini (gennaio 1947). Armaroli, citando Milton Friedman ( nessun pasto è gratis) commenta: “Saragat si vede costretto a fare l’occhio di triglia al Pci, la sua bestia nera. Tuttavia Parigi val bene una messa”. Uomo colto, era solito leggere Goethe in tedesco e ne conosceva le opere quasi a memoria. Inclinava ai buoni vini, al punto da suscitare la battutaccia che come confessore avesse Don Perignon, nota marca di champagne. Malvagità gratuita, corregge Armaroli, era solo un buon intenditore. Per la sua abitudine di mandare telegrammi per ogni occasione, i napoletani gli affibbiarono l’appellativo di don Peppino ‘o telegramma.
Giovanni Leone
Sulle candidature alle presidenziali, scrive Armaroli, la Dc non le indovina tutte. Nel 1964 aveva puntato su Leone e fu eletto Saragat. Nel 1971 punta su Fanfani, ma l’aretino ci lascia le penne. La vigilia di Natale al 23/mo scrutinio Leone viene eletto di misura anche grazie al voto del Msi. Risultato: la formula del centrosinistra è alle corde. Leone nomina senatore a vita Fanfani, che in quel momento è presidente del Senato.
Una sorta di premio di consolazione, come aveva fatto Saragat con Nenni e Leone. Il 15 giugno 1978 Leone si dimette. Non tanto- precisa Armaroli – per le accuse contenute nel libro di Camilla Cederna, non tanto per le denunce fuori misura di Pannella e Bonino, o per il suo presunto coinvolgimento nello scandalo Lochkeed .Si dimette, o è costretto alle dimissioni perché il segretario del Pci pretende la sua testa per dimostrare al suo popolo che il partito conta pur non essendo nella stanza dei bottoni. “E il segretario della Dc, il mite Zaccagnini, gliela offre – vergogna – su un piatto d’argento”.
Sandro Pertini
Alla vigilia delle elezioni presidenziali del giugno-luglio 1978 nessuno avrebbe scommesso una lira, una sola, su un Sandro Pertini vincente. Il segretario del partito, Bettino Craxi, avrebbe voluto Antonio Giolitti, osteggiato però dal Pci perché era un transfuga, avendo lasciato il partito dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956.
A dispetto delle due lauree, una in Giurisprudenza a Genova e l’altra al fiorentino “Cesare Alfieri”, Nenni scherzosamente diceva che Pertini leggeva soprattutto gli albi dell’Intrepido. “Una malignità detta senza cattiveria… Pertini non è un elegante oratore come Palmiro Togliatti, Giovanni Malagodi, Giorgio Almirante, Stefano Rodotà. Ma è un formidabile comunicatore. Usa frasi a effetto che colpiscono il grande pubblico”.
Un tribuno che non ha nulla da invidiare a Nenni, il quale, a un compagno di partito – racconta Armaroli, ed è una vera chicca – che, entrato nel suo studio, gli domanda che cosa faccia, tutto intento a scrivere pagine su pagine. Non lo vedi? Risponde Nenni. Sto scrivendo il discorso che improvviserò domani in piazza. A causa della P2 il governo Forlani è quasi messo alla porta e per la prima volta nella storia della Repubblica Pertini manda in pista un laico, Giovanni Spadolini, come presidente del Consiglio.
Pretende di nominare due senatori a vita ( Bo e Bobbio) sebbene ne siano in carica già 5 . Ma Pertini sostiene che la norma voglia dire che ogni presidente ne possa nominare cinque senatori a vita, lo attaccano diversi costituzionalisti, allora egli pretende che l’iniziativa sia presa dall’allora presidente del Senato Cossiga, che non ci sta e minaccia di dimettersi.
Fa sempre spettacolo Pertini, sia negli eventi lieti, come i mondiali di Spagna, sia durante eventi tristi come il fallito salvataggio del bambino di Vermicino, caduto nel pozzo. L’autore, dopo aver raccontato un episodio personale quando fu ricevuto da Pertini, che aveva già lasciato il Quirinale, ne conclude così il ritratto: “Capii allora che negli ultimi tempi del settennato senza una ‘badante’ come Antonio Maccanico (segretario generale del Quirinale, NdR), Pertini non sarebbe stato in grado di andare avanti”.
Francesco Cossiga
Pertini teneva moltissimo al bis ma il segretario della Dc De Mita ha buone ragioni per escludere una simile ipotesi. Alla vigilia delle elezioni De Mita dice al segretario del Pci Natta: i candidati sono tanti, ma il mio vero candidato è Leopoldo Elia, illustre cattedratico, già presidente della Corte costituzionale e appartenente alla sinistra Dc. Ma Natta ribatte: No, Elia no, è troppo intelligente. Meglio Cossiga, che è meno impegnativo.
Mai previsione fu meno azzeccata. Perché Cossiga, eletto al primo scrutinio, per cinque anni restò silente come un monaco trappista ma negli ultimi due anni si scatenò picconando partiti, governo, uomini politici, giornalisti.
Armaroli riporta un giudizio di Giuliano Amato: “Cossiga fu, a dir poco un personaggio controverso.. Quelli che gli furono amici – ed io sono tra loro – tendono a recuperarne la cultura, la lungimiranza, la visione che lo portò prima e più di tanti altri ad antivedere le svolte cruciali che sarebbero intervenute nella vita internazionale e interna”.
Ma Cossiga- aggiunge Amato – non fu solo questo, fu anche un misto di carattere ombroso e di soggezione agli alti e bassi tipici dei disturbi depressivi.
Ma chi era Cossiga? Armaroli taglia corto: per cominciare era un enfant prodige. Maturità classica a 16 anni, laurea in legge a 20, diventa assistente di un mostro sacro del diritto come Giuseppe Guarino. Non partecipa a concorsi per ordinario perché ritiene che un uomo con responsabilità politiche debba astenersene per correttezza.
“Alla fine Cossiga, anche a causa delle due facce, rimane un mistero avvolto in un enigma. Come il Cremlino del tempo che fu, e anche dei tempi nostri. Un uomo solo. Sempre. Solo nella Dc. Solo anche a casa sua. La moglie Giuseppa Sigurani, detta Peppa, incupisce ogni volta che il marito sale la scala del potere politico”.
Oscar Luigi Scalfaro
Appena eletto, di lui Indro Montanelli scrive: “Se non è l’uomo della provvidenza, certo l’uomo dell’emergenza: un presidente per disgrazia ricevuta”. Conoscendo Montanelli, scrive Armaroli, la battuta al vetriolo ha una duplice spiegazione. La prima: a un toscanaccio senza peli sulla lingua come Indro non poteva andare a genio un personaggio come Scalfaro, un quadro antico cerimonioso, logorroico e baciapile. La seconda: di sicuro Montanelli non avrà digerito il fatto che Scalfaro sia riuscito dove il suo amico Spadolini, un fuoriclasse, aveva fallito.
Come Cossiga, anche Scalfaro, che non perde occasione per criticarlo, si presenta come un Giano bifronte. Infatti l’uomo di Montecitorio e l’uomo del Quirinale sono sì la stessa persona, ma sono come il giorno e la notte. Pieno di verve, di battute più o meno indovinate che servono a stemperare umori e malumori dell’assemblea che presiede. E si vede che si compiace delle sue boutade. Di Scalfaro – dice Armaroli – si potrebbe ripetere quello che per celia si è sempre detto di Spadolini: si ama e si contraccambia. Si dice che se non si è progressisti a 20 anni non si ha cuore ma se non si è conservatori a 50 non si ha cervello.
Scalfaro fece tutto al contrario. Conservatore per una vita, ai tempi del primo governo Berlusconi si buttò a sinistra come soleva dire Totò. E a proposito del famoso ‘’non ci sto’’ urlato a schermi televisivi unificati, per timore di essere trascinato nello scandalo dei fondi del Sisde, Armaroli ci regala una delle sue tante chicche, di cui avrà un repertorio pieno: quel non ci sto senza motivazione fu una nota stonata, osserva l’autore. Quelle tre parole ricordano altre tre parole che fecero epoca. Durante una partita di poker a Roma, l’ex re d’Egitto Faruk dichiara: ho un poker d’assi. E a chi gliene chiede conto, replica: parola di re, e mischia le sue carte con quelle del mazzo.
Carlo Azeglio Ciampi
Il Cantore della Patria. Parafrasando Quasimodo, Armaroli scrive: “Ed è subito Ciampi”. Che infatti fu eletto al primo scrutinio, con 707 voti su 990. Non lo votarono i leghisti e Rifondazione comunista. Ciampi fu il presidente di tutti. Ma nei fatti – sottolinea Armaroli – guarderà più a manca che a dritta. Basti fare l’esempio delle sue nomine. Come giudici costituzionali: Giovanni Maria Flick, Franco Gallo, Sabino Cassese, Maria Rita Saulle e Giuseppe Tesauro, personalità di indubbio prestigio ma non ascrivibili al centrodestra. E così anche per i senatori a vita: Rita Levi Montalcini e Mario Luzi, che Armaroli, applicando una battuta di Flaiano sul poeta Vincenzo Cardarelli, definisce il più grande poeta ermetico morente.
Ma ermetico, precisa l’autore, solo in poesia. Perché in prosa Luzi è ciarliero e ne dice di cotte e di crude, va all’assalto di Berlusconi presidente del Consiglio con il pugnale tra i denti. Sicché sarà la disperazione di Ciampi, che gli telefona per indurlo alla prudenza. Ma Luzi, niente. Degli altri senatori a vita, Ciampi nomina Napolitano, chiamato a Napoli ‘o sicco per contrapporlo a Giorgio Amendola ‘o chiatto.
Ciampi è definito un introverso, rende più nello scritto che nell’orale. Un livornese anomalo perché i livornesi hanno il fuoco nelle vene, mentre lui è un anglolivornese. Ciampi è stato un grande italiano perché l’amor di Patria, un amor di Patria non retorico, sprizza da tutti i pori. Ciampi rifiuta l’idea della morte della Patria coltivata da alcuni storici dopo l’8 settembre e preferisce porre l’accento sulla rinascita. Ciampi ha il grande merito di aver riscoperto i simboli della Patria: il Tricolore, l’Inno di Mameli.
Giorgio Napolitano
Il presidente del doppio mandato. Persona garbata e dai modi signorili, è stato ribattezzato King George, non solo perché dall’alto del Quirinale si fa sentire, eccome, ma per una certa somiglianza con Umberto di Savoia. Come per Cossiga e Scalfaro, anche per Napolitano l’autore vede pirandellianamente una figura doppia: c’è il comunista e, se non proprio un liberale, un simil-liberale. Affetto fin da giovane dal tarlo dell’antitesi.
E nel libro sono citati tanti esempi. Plaudì all’invasione dell’Ungheria ma anni dopo, a babbo morto, come si dice in Toscana, disse di comprendere le ragioni per cui Giolitti aveva sbattuto la porta e se n’era andato dal Pci per protesta contro i carri armati a Budapest.
Berlinguer chiede la testa di Leone? Zaccagnini gliela concede, e Napolitano, stretto collaboratore di Berlinguer che fa? Non ha nulla da dire. Ma poi, anche qui come per Giolitti, molto tempo dopo riconoscerà a Leone di aver operato in modo “corretto e rigoroso”.
La presidenza di Napolitano sarà una presidenza interventista, tutt’altro che notarile. Dopo essersi dichiarato indisponibile a un bis: finirei il settennato a 95 anni!, disse, poi cambiò idea. Ma nel discorso d’insediamento usò toni di una severità inusitata verso i parlamentari che lo avevano appena rieletto. Ma il paradosso fu che più Napolitano scudisciava e più deputati e senatori applaudivano. Un raro quanto irripetibile caso di masochismo parlamentare.
È un libro di storia
Con un filo di modestia signorile, l’autore avverte che questo non è un libro di storia. Ma la documentazione, familiare a chi maneggia come pochi gli stenografici delle sedute parlamentari, il taglio quasi cinematografico con cui sono narrate le elezioni presidenziali con i loro colpi di scena e le situazioni più curiose, ne fanno un libro da studiare nelle scuole. E la ricchezza di aneddoti e retroscena, lo rendono interessante per un pubblico più vasto di quello degli addetti ai lavori, poiché chi ama la storia, secondo una famosa polemica di Montanelli con gli storici di professione, vuole leggere libri documentati ma anche leggibili, e non scritti in modo professorale e astruso. Essere esatti non deve significare essere noiosi, sosteneva il grande giornalista.
Mattarella, quei no al bis, quel sì al bis
È la conclusione ideale del libro, anche se le pagine dedicate all’attuale Capo dello Stato sono collocate all’inizio. Su Mattarella l’autore usa tutte le corde della stima e dell’apprezzamento per il suo alto senso dello Stato e il supremo rispetto della Costituzione.
Mattarella, scrive Armaroli, è l’uomo che con il suo sì al bis ha tolto dalle pesti una classe politica incapace di trovare una diversa via d’uscita. L’uomo che ha ridato stabilità al governo, tanto che Draghi, pur tra tante difficoltà, ha potuto mettere le ali ai piedi a ministri che negli ultimi tempi avevano dato l’impressione di sonnecchiare. Un robusto ombrello per Draghi, Mattarella. L’uomo che gode di una robusta popolarità sia nel Paese reale sia nel Paese legale.
Sono bastati questi cenni sui vari Presidenti, per rendersi conto che Il libro di Armaroli, come altri suoi del resto, informa, documenta e diverte. E speriamo che questa parola non venga considerata da una certa polverosa cultura accademica come una deminutio.
Dopo le varie “rappresentazioni” delle elezioni presidenziali, Armaroli ci consegna questa conclusione: Ma poi la Repubblica si moltiplica per tre: la prima, dei partiti; la seconda, del bipolarismo, che è anche il periodo che l’autore ha vissuto da parlamentare, pronunciando oltre mille discorsi; la terza, dai caratteri indistinti. Ce ne sarà un’altra ancora? Non mettiamo limiti alla Provvidenza, risponde l’autore, con un velo di scetticismo.
Anche se Armaroli sa bene, e ce lo potrebbe insegnare, che la numerazione della Repubblica (Prima, Seconda, ecc.) e il deprecato vezzo di usarla nella pubblicistica politica è solo una formula convenzionale. Finché la Costituzione non sarà cambiata nel suo impianto ( forma di Stato, forma di Governo) parlare di prima, seconda, terza Repubblica è solo un esercizio convenzionale.
Questi non sono che alcuni assaggi di un libro, che va letto e riletto perché contiene molto altro. Ora lasciamo al lettore il piacere di scoprirlo.
Mario Nanni – Direttore editoriale