Russia: lo Zar Vladimir che fa rimpiangere il mondo bipolare

Curiosità: il "pluridecorato" autocrate russo Brezhnev era di origini ucraine. E così anche Podgorny

Dopo una overdose di notizie che, come certe spie, vengono dal freddo, ho avuto una visione che, a raccontarla, potrebbe sembrare un incubo, ma che forse non lo è: mentre nelle orecchie mi risuonavano ancora le sirene di Kiev, Kharkiv, Kherson, Mariupol, Okthyrka, Sumy… davanti agli occhi feriti dalle terribili immagini di sofferenza, stragi e violenze che vengono dall’Ucraina e che le televisioni di tutto il mondo (meno che in Russia) ci mostrano, mi si sono materializzate tre mummie.

Tre figuri atticciati e ancora più ingoffiti dai pesanti pastrani, che al centro della tribuna d’onore montata sulla Piazza Rossa di Mosca assistono, muti, alla parata per la rivoluzione d’Ottobre. Non fosse stato per il ritmico oscillare degli avambracci in segno di saluto e per il lento battito delle palme, qualcuno avrebbe anche potuto pensare che fossero congelati, come quei poveri fantaccini caduti in battaglia al tempo delle “gavette di ghiaccio”. Ipotesi invece del tutto campata in aria, visto che l’alcol non gela e che nelle vene dei tre scorreva essenzialmente vodka mista a qualche traccia di sangue.

Ho rivissuto, prima bambino e poi ragazzo, qualcosa che era rimasto impantanato nella memoria. I tre si chiamavano Leonid Brezhnev, Aleksej Kossigyn e Alexandr Podgornyj, rispettivamente Segretario del Pcus, capo del governo e capo del Soviet supremo dell’Urss e formavano la trojka sovietica; che qualcuno si divertiva a chiamare Trimurti e altri ancora Triunvirato, anche se, a scavare nei segreti penetrali del potere, si sarebbe scoperto che in realtà si trattava di “Unvirato”, nella persona del sopraccigliuto Brezhnev. 

L’incubo, comunque, non è rappresentato dal pericolo che le tre mummie fossero altrettanti “révenant”, ché ai fantasmi non credo più da parecchio tempo. Se proprio devo dirlo, il vero incubo sarebbe stato essere riconosciuto (certe cose nelle visioni allucinatorie possono accadere) dal tovarisch Brezhnev e ricevere da lui, còlto da un empito di fratellanza, un bel bacio sulla bocca. Roba da destarsi di colpo e non prendere più sonno per almeno un mese. 

Perché, per il resto, il vertice della tanto deprecata nomenklatura sovietica, con quell’aria paludata e insieme sorniona soprattutto degli ultimi tempi, in fin dei conti non era peggio della nomenklatura di oggi. Né meglio né peggio, probabilmente; benché, a contestualizzare, magari si scopre che forse si stava meglio quando si stava peggio. Che nel 1968 –  quando i fuochi della rivoluzione studentesca si andavano propagando dalla Francia al resto dell’Europa democratica – l’Unione sovietica avesse usato la mano d’acciaio per soffocare la “primavera di Praga”, così come dodici anni prima aveva fatto con la rivolta in Ungheria, era stato nell’ordine delle cose. 

La stessa “dottrina Brezhnev”, che dettava il diritto di Mosca di imporre se necessario militarmente una sovranità limitata a quei Paesi che essendo nell’orbita dell’Urss tentassero una strada autonoma o, peggio, di avvicinamento all’Europa al di qua della “cortina di ferro”, era accettata di buon grado anche dagli stessi Stati Uniti. A dimostrazione di ciò, se ce ne fosse stato bisogno, c’era stata l’immobilità di Washington prima di fronte ai fatti di Ungheria (probabilmente per non aggravare il clima già tesissimo nella fase più rischiosa della “guerra fredda” tra i rappresentanti dei due blocchi contrapposti) e poi di quelli della Cecoslovacchia. 

E in questo caso, al contrario, per non rischiare di compromettere il clima politicamente più disteso tra le due superpotenze, clima che caratterizzerà in buona parte la decade dei ’70. Di tale maggior libertà di manovra approfitterà la dirigenza sovietica, e in particolare il “numero uno” Brezhnev, che ribadirà la sua politica espansionistica con l’invasione dell’Afghanistan e con una maggiore presenza in quadranti sinora nuovi per l’Urss, come il Medio Oriente, l’Africa (Angola ed Etiopia) e la Cambogia. 

Quanto all’Ucraina, di cui erano originari gli stessi Brezhnev e Podgornyj (Kossigyn invece era di San Pietroburgo, dei tre l’unico russo purosangue) da tempo faceva parte dell’Urss e, assieme alla Bielorussia, era il Paese che per i russi era una semplice estensione del proprio territorio, anche per la grande prossimità delle due lingue locali con il russo. 

Quella però era la realtà bipolare venutasi a creare dopo la sconfitta del nazismo e del fascismo; la stessa realtà in cui il mondo conosce un avanzamento delle condizioni economiche globali che non aveva avuto precedenti e, nel complesso una altrettanto inedita promozione sociale anche in paesi con fortissime arretratezze. 

Delle aberrazioni innestatesi sulla concezione più integralista dell’Islam non c’erano che pallide (e al tempo non prevedibili negli sviluppi) avvisaglie. I due giganti asiatici che da soli rappresentano un terzo di tutta la popolazione mondiale, la Cina e l’India, non concepivano ancora neppure in ipotesi l’espansionismo economico che oggi è favorito, in forma però sperequativa, dalla globalizzazione.

Tornando all’Unione sovietica e alle altre nazioni parte del Patto di Varsavia e del Comecon – rispettivamente l’alleanza militare e quella economica tra le nazioni nell’orbita dell’Urss – il tenore di vita era sicuramente modesto, ma non c’era una forbice socio economica divaricata come oggi. 

A Mosca e nelle altre metropoli, le uniche fuoriserie straniere che giravano erano quelle della celebre collezione del compagno Brezhnev, che come hobby senili aveva preso a collezionare onorificenze di ogni sorta, che gli venivano conferite da ogni parte del pianeta, e lussuose berline delle più importanti Case europee, tra cui non potevano mancare quelle inglesi e le italiane.

C’era sì la nomenklatura, che si spostava in luccicanti e monumentali Zil nere dai vetri oscurati, ma salvo rarissime eccezioni non risulta che avesse accumulato proprietà dal valore astronomico all’estero e, soprattutto, nel vituperato Occidente. Oggi, al contrario di ieri, tutto l’apparato ruota intorno a una persona sola, lo “zar” Vladimir Putin, al quale fa corona una corte di moderni boiardi, i cosiddetti oligarchi. Le cui fortune, però, possono essere tanto smisurate quanto periclitanti, a seconda dei giochi dei venti politici, degli “umori” del capo, dei consiglieri in auge in quella fase storica. 

A differenza di Brezhnev e degli altri gerarchi del Soviet, Putin sembra un leader moderno, anche se è abbastanza dissimile da certi politici occidentali, che hanno scoperto l’ebbrezza del potere e del tornaconto personale attraverso un’attività di legislatori o di amministratori pubblici cominciata nella piena maturità. 

Gente come Donald Trump o Silvio Berlusconi, che dello “zar” avevano dichiarato di essere grandi estimatori e amici; anzi, prendendolo a modello da imitare e venerare, come aveva fatto Matteo Salvini, o addirittura considerandolo “un fratello minore”, come lo aveva definito l’ex Cavaliere; che nel magnificare la sua relazione con lo “zar” non aveva mancato neanche di far vedere, allusivamente, un gigantesco lettone ricevuto da lui in dono. Regalo che non sarebbe strano se adesso il tycoon italiano smentisse, affermando (ipotizzo) che si era trattato di un collaboratore lèttone presentatogli da Putin.

Certo, meglio della vecchia mummia, dal cespuglioso e nero cipiglio, Putin ha che non distribuisce baci sulla bocca di incolpevoli sodali politici. Ma per il resto, alla luce degli ultimi terribili sviluppi in Ucraina e non solo, gli si attagliano benissimo tre righe che tanti anni fa scrisse un noto letterato, Giulio Natali, che tra un libro e l’altro amava comporre epigrammi. Era il mio nonno materno e qualcosa dei suoi versicoli mi è rimasta in mente sin da piccolo, quando glieli sentivo recitare in famiglia. Questo mini dialogo risale ai tempi della “guerra fredda”:

– Un noto cremlinologo ha rivelato che

– Hai detto, criminologo?

– Ma sì tant’è, tant’è…

 

Carlo Giacobbe –  Giornalista, scrittore, a lungo corrispondente da varie Capitali (Lisbona, Città del Messico, Tel Aviv, Ottawa)

 

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