Pisicchio: un’assemblea costituente per riorganizzare lo Stato

Da eleggere nel 2023 insieme con il nuovo Parlamento. Durata di un anno, un anno e mezzo, eletta con il proporzionale. Chi ne fa parte non deve avere altri mandati elettivi. Basta  dunque con le riforme a “spizzichi e molliche”. “Necessario avviare un importante percorso di riforma costituzionale e una riflessione radicale sull’ordinamento (bicameralismo o monocameralismo, decentramento o federalismo, presidenzialismo o parlamentarismo, assetto dell’ordine giudiziario, diritto all’informazione).

 

 

Il quattordicesimo allestimento del seggio per l’elezione del tredicesimo presidente della Repubblica, dunque, si è guadagnato un rimarchevole primato storico facendosi ricordare come l’ultima volta in cui si sono schierati 945 parlamentari tra i grandi elettori. 

Dalla prossima legislatura, infatti, per volere di quei 945 impavidi e con l’imprimatur del popolo sovrano, il 36,5% dei deputati e dei senatori sarà cancellato. A parte il giovamento logistico per i parlamentari dovuto all’allargamento degli spazi nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama (utile in occasione di distanziamenti comunque motivati…), il trapasso da un Parlamento all’altro non sarà né facile né di immediata applicazione.

Occorrerà mettere mano a vari interventi di riforma costituzionale, legislativa e di regolamentazione parlamentare di cui ancora non si intravede convincente traccia. È l’effetto di una modalità d’intervento sul corpo della Costituzione, poggiata totalmente su ciò che si presume possa essere il “sentiment” del popolo (“cancelliamone un bel po’ così risparmiamo”…), piuttosto che un’impostazione coerente con la stessa architettura costituzionale.

È il riformismo “spizzichi e molliche”, che non guarda al contesto ma solo al lucro elettorale (immediato e presunto). Forse è arrivato il momento di cambiare registro e di riflettere sulla “visione” piuttosto che sull’”emozione”.

D’altro canto non è solo da oggi che si avverte la necessità di un aggiornamento della Costituzione nella parte relativa all’organizzazione dello Stato. Ci provò Berlusconi con una riforma organica che risentiva anche di suggestioni presidenzialistiche, bocciata dal referendum nel 2006. Ci ha riprovato Renzi, con una vasta riforma che, tra l’altro, toglieva l’ingombro delle Province, del CNEL e del bicameralismo paritario, ma subì la stessa sorte nel 2016, rimettendoci palazzo Chigi e, sostanzialmente, anche il PD.

La verità e che si cominciò a parlare di riforma organica della Costituzione fin dall’inizio degli anni ’80 con la catena di Sant’Antonio delle Commissioni bicamerali per le riforme costituzionali che, a partire dalla Bozzi, attraversando la Iotti-De Mita, per finire alla D’Alema, svilupparono un’importante mole di lavoro sul piano dell’accumulazione documentale e della prospettazione delle ipotesi di riforma, senza, tuttavia, riuscire a determinare un plausibile percorso riformatore sostenuto, come prescrive la stessa Costituzione, dalle ampie maggioranze e dalle procedure previste dall’articolo 138.

Ben presto si rivelò poco adeguato, almeno dal punto di vista politico, anche lo strumento predisposto dall’articolo 138 per una revisione costituzionale che non fosse di mera e limitata correzione dell’impianto attuale: gli stessi Costituenti immaginarono, infatti, l’inserimento dell’articolo 138 non come mezzo per ridisegnare l’intero ordinamento dello Stato. 

La questione, allora, è oggi la seguente: siamo di fronte alla necessità di un impegno riformatore limitato a un modesto intervento costituzionale che non metta in dubbio l’intima coerenza dell’impianto, come può essere, per esempio, l’allineamento dell’età dell’elettorato attivo e passivo nei due rami del Parlamento, oppure si rende necessaria una revisione più ampia, tale da modificare in modo sensibile la filosofia dell’ordinamento dello Stato?

In realtà i fatti si sono spesso incaricati di dimostrare che la struttura dello Stato-organizzazione reclama una manutenzione intelligente, fedele ai principi ma attenta anche a cogliere i percorsi evolutivi del nuovo tempo, caratterizzati dall’impatto con le tecnologie informatiche – non è stato possibile votare da remoto in Parlamento neanche nella crisi pandemica perché la Costituzione reclama la “presenza fisica” dei parlamentari – dall’obsolescenza di alcune istituzioni tenute in vita in modo artificiale (citavamo province e Cnel), all’anacronismo, che ci fa ormai reperto unico negli ordinamenti democratici, di un bicameralismo perfetto.

Ma c’è anche di più.

Con l’avvento dei grandi (e in continua compulsiva evoluzione) processi di riforma dei sistemi elettorali partiti dalle spinte referendarie all’inizio degli anni ’90, si è modificata in modo profondo la logica che animava l’intero assetto costituzionale.

È forse il caso di ricordare, infatti, che alla Costituente solo per ragioni di opportunità politica si ritenne di non rendere esplicita la costituzionalizzazione del principio proporzionalista secondo la proposta Mortati che fu, tuttavia, recepita come ordine del giorno. Cionondimeno la logica proporzionalista che ha intriso l’intero impianto costituzionale al punto da rappresentare il fulcro dell’equilibrio tra pesi e contrappesi su cui poggia la Repubblica, entrò in collisione con il principio maggioritario scaturito dalle riforme elettorali del 1993. 

Se dunque non si vuol dar vita alla modalità “spizzichi e molliche” di interventi parziali e decontestualizzati che provocano più problemi di quanti intendano risolvere, si dovrà necessariamente avviare un importante percorso di riforma costituzionale che implichi una riflessione radicale sull’ordinamento (bicameralismo o monocameralismo, decentramento o federalismo, presidenzialismo o parlamentarismo, assetto dell’ordine giudiziario, diritto all’informazione eccetera), dando voce all’articolato pluralismo della politica e delle culture presenti nel Paese.

È necessario allora uscire dall’impasse denunciato dalle numerose bicamerali e dalle riforme organiche prodotte da maggioranze politiche in un Parlamento legislatore, condizionato necessariamente dalle maggioranze di governo, dunque non in grado di consentire la necessaria autonomia di giudizio su tematiche cruciali come quelle della riforma della Costituzione. 

Entrambe le modalità, peraltro, sono state sperimentate con esiti non felici. 

Diversa potrebbe essere l’esperienza di un’Assemblea dedicata alla revisione della seconda parte della Costituzione, eletta parallelamente alle assemblee legislative con il compito di definire un nuovo assetto generale del “patto” tra governanti e governati, avvalendosi, nella fase della selezione dei suoi componenti, del pieno concorso di tutte le istanze politiche, economiche e sociali presenti nel Paese.

Ciò, in particolare, al fine di garantire che la nuova forma di Stato e la nuova forma di Governo siano determinate – sotto ogni profilo – nel segno del più alto concorso democratico, e dunque attraverso l’azione di un soggetto istituzionale che sia la proiezione più “fedele” possibile della composizione del tessuto sociale e produttivo del Paese.

Un’assemblea che abbia un anno, un anno e mezzo di lavoro davanti a sé, eletta con un sistema proporzionale con voto di preferenza e con un regime di incompatibilità assoluta con altri mandati elettivi. Il prodotto del suo lavoro, potrebbe essere sottoposto al voto parlamentare solo per accogliere o rigettare la riforma, senza possibilità manomissive, lasciando il giudizio finale al corpo elettorale chiamato a pronunciarsi attraverso un referendum popolare entro tre mesi dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Avremmo così, attraverso il giudizio finale del popolo sovrano, il pieno riconoscimento della qualità democratica della riforma istituzionale contenuta nella «decisione costituente». E, alla fine, un impianto di riforma che risponde a criteri finalmente coerenti e non a “spizzichi e molliche”

 

Pino Pisicchio – Professore di Diritto comparato. Deputato in varie legislature

 

 

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