25 Aprile anche in Portogallo: 50 anni fa la Rivoluzione dei Garofani

Che la storia si ripeta due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa, è una massima che probabilmente contiene due falsità: l’attribuzione a Carl Marx e l’enunciato in sé stesso. Talvolta, però, per una bizzarria combinatoria che farebbe impazzire uno statistico (e qualche volta, chissà, anche uno statista), la storia si ripete in luoghi diversi. Succede, per esempio, che il 25 aprile sia una data densa di significato per l’Italia e per il Portogallo. Due nazioni europee non propriamente vicine fisicamente, circa 2.000 chilometri facendo una media tra aria e terra, ma molto meno lontane per altre ragioni, oltre al fatto di essere oggi in rapporti che si possono definire più che amichevoli pur nelle sostanziali differenze.

Tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento il piccolo paese lusitano – che nei secoli XIV e XV, al tempo delle grandi scoperte geografiche, era stato alla testa dell’impero più vasto e potente del mondo – instaurò nel 1926 una dittatura militare, nel tentativo di risollevarsi da una serie di crisi politiche ed economiche che perduravano dalle ultime due decadi dell’Ottocento e si erano acuite con l’instaurazione della repubblica, nel 1910, e la partecipazione alla Prima guerra mondiale. Lo fece per mettere fine al susseguirsi di leader militari e non, che talvolta restavano alla guida dei rispettivi esecutivi per pochi mesi appena, con una alternanza media di tre Primi ministri l’anno. Nel 1928, però, dato il perdurare della crisi economica fu chiamato come ministro delle Finanze l’economista (giurista però di formazione) António de Oliveira Salazar, con totale autonomia operativa. In soli quattro anni Salazar, un borghese passato dalla prestigiosa cattedra nell’Università di Coimbra alle sale ministeriali di Lisbona, riuscì a portare in attivo il bilancio, mediante una draconiana politica di risparmio sull’import e un controllo pervasivo dei salari e dei prezzi. Nel 1932, licenziato l’ultimo dei generali ancora facente parte del governo, Salazar fu nominato Presidente del consiglio dei ministri, dando vita a quello che da allora, per quasi 42 anni ma di fatto già da quattro, sarebbe stato un regime dittatoriale. Poco dopo l’avvento del nuovo capo dell’esecutivo, nel 1933 nasce formalmente lo Estado Novo.

Salazar, che da giovane ha studiato in seminario ed è profondamente religioso al limite del bigottismo, è un uomo sostanzialmente schivo e poco incline alla vita di società. Iscritto alla massoneria dal tempo dell’Università, nondimeno resta su posizioni cattoliche fortemente conservatrici, combattendo le idee laiche che contrassegnano la Prima repubblica anche attraverso la collaborazione alla stampa cattolica e la partecipazione alla Gioventù cattolica portoghese. Divenuto capo del governo (non fu mai Presidente della repubblica, a parte quattro mesi ad interim nel 1951) Salazar trovò nel fascismo di Mussolini il modello ideale, sebbene, ufficialmente, l’Unione nazionale, il partito unico da lui fondato, fosse ispirato alla dottrina sociale della Chiesa. Nei fatti adottò gli stessi principi corporativi, autoritari, egemonici e sostanzialmente liberticidi del fascismo. Forte dell’appoggio della Chiesa e dei proprietari terrieri nonché della corporazione degli agrari, abolì del tutto ogni forma di organizzazione sindacale e di libertà di stampa. Creò istituzioni pure copiate dal fascismo italiano, analoghe al Ministero della Cultura popolare (Minculpop) e alle organizzazioni dei bambini e dei ragazzi come la “Mocidade (gioventù) portuguesa”, ricalcate dai “figli della lupa” e dai “balilla”. Impedì il libero insegnamento universitario, diede alle forze di polizia e alla magistratura libertà di azione quasi totale nel “supremo interesse della collettività e dello Stato”, creò la Pide, una polizia segreta che ricorreva alla tortura, alla delazione e all’internamento dei dissidenti in lager, alcuni dei quali erano dislocati in località remote dei “territori d’oltremare”, come il regime chiamava le colonie. Durante la guerra civile spagnola Salazar – che pure non aveva simpatie per il generale Francisco Franco e per il mondo militare – benché a differenza di Mussolini si fosse dichiarato neutrale, appoggia ufficiosamente gli spagnoli e consente che alcuni portoghesi, uniti ai franchisti dalla comune avversione al comunismo, passino il confine per combattere a fianco dei nazionalisti. Erano i “Viriatos”, dal nome di un ribelle lusitano contro la dominazione romana, che in Spagna si incorporarono con i nazionalisti.

Salazar, che dal 1936 aveva assunto su di sé anche la carica di ministro degli Esteri, allo scoppio della Seconda guerra mondiale scelse di restare neutrale. Troppo pesava, evidentemente, il ricordo delle ferite lasciate sul corpo sociale del Paese dalla Grande guerra. Anche per le pressioni ricevute da Lisbona, che paventava l’allargamento del teatro bellico alla penisola iberica e quindi alla più occidentale delle nazioni europee, la stessa linea di neutralità fu decisa dalla Spagna franchista, nonostante gli aiuti fondamentali ricevuti da Berlino e da Roma. Salazar temeva, infatti, che per la sua posizione cruciale per il controllo dell’Atlantico la Germania potesse occupare il Portogallo, probabilmente anche grazie a qualche intesa segreta con la Spagna, da sempre desiderosa di diventare l’unica potenza egemonica della penisola iberica. Nell’ultima fase del conflitto, dal 1943 al 1945, Salazar dimenticò quindi i rapporti e la contiguità ideologica avuta col fascismo e la sostanziale indifferenza verso il nazismo, dichiarando ufficialmente di osteggiare i regimi dell’Asse e considerando illegali persino atti di propaganda fascista nel suo Paese. A rafforzamento di tale linea, lo scaltro dittatore portoghese rivitalizzò i rapporti con la Gran Bretagna, dando nuovo impulso a quella che con enfasi propagandistica viene chiamata l’alleanza più antica d’Europa, circa sette secoli. Il nuovo corso di politica estera, non di meno, non impedisce al Portogallo di fare affari e scambi con l’Italia e la Germania attraverso mediazioni e triangolazioni con un altro Paese neutrale ma sempre sensibile agli affari, la Confederazione elvetica.

Salazar fu invece in opposizione alla politica razziale dell’Asse e in particolare a quella antigiudaica. E se da un lato, per non inimicarsi Hitler, diede istruzione ai suoi diplomatici di ridurre al minimo la concessione di visti ai cittadini francesi che dopo l’invasione nazista volevano espatriare in Portogallo, dall’altro diede segretamente mano libera al console portoghese a Bordeaux, Aristides de Sousa Mendes, perché consegnasse quanti più possibile documenti di espatrio falsi a ebrei che volevano fuggire in Portogallo. Furono circa 100.000 i visti che consentirono ad altrettanti perseguitati razziali di riparare nella nazione lusitana. Ciò sarebbe valso al console il riconoscimento di “giusto fra le nazioni” presso lo Yad Vashem, il sacrario dedicato alle vittime perite nella Shoah.

La sostanziale, opportunistica e bivalente lungimiranza dimostrata da Salazar fino alla fine della guerra, non fu seguita da altrettanta lungimiranza dopo la fine delle ostilità. Forte del nuovo motto coniato dal suo dittatore, “orgogliosamente soli”, il Portogallo riprese l’antica linea autarchica e taccagna, favorendo essenzialmente i pochi gruppi industriali del Paese e i traffici con le colonie, anch’essi in mano alle grandi famiglie. In tanto isolazionismo, la maggiore e più significativa apertura all’esterno, a parte lo storico e importante export di vino verso la Gran Bretagna, Salazar la ebbe con l’adesione alla Nato, quasi impostagli dagli Stati Uniti. Gli Usa, soprattutto nella fase più accesa del maccartismo, oltre a essere l’unica superpotenza erano quelli che a Salazar, ossessionato dal “pericolo bolscevico”, offrivano maggiori garanzie contro i comunisti. Mentre negli anni Sessanta l’Europa intera, compresi i paesi che avevano combattuto dalla parte sbagliata, era favorevolmente impegnata nella ricostruzione post-bellica e nella ripresa dell’economia, il Portogallo, sebbene si fosse tenuto fuori dalla “grande carneficina”, restava il piccolo paese marginale che era diventato dopo i fasti delle “Descubertas” e dopo che si era esaurito l’impulso dato dal marchese di Pombal nel XVIII secolo. A scuotere la ben meno che aurea mediocritas lusitana fu il nuovo vento che soffiava da oltremare e, soprattutto, dalle grandi colonie africane, Angola, Mozambico, Guinea Bissau.

Mentre tutto il mondo civile attraversa una nuova fase di riscatto e promozione politico-sociale dei paesi colonizzati, l’ultima potenza coloniale rimane il Portogallo, che invano ha cambiato l’etichetta di quei Paesi prima chiamati “colonie” e ora indicati come “province d’Oltremare”. Un cambio che non porta nulla di nuovo o di migliore sul piano sostanziale e non serve neanche a sopire i moti di ribellione e gli aneliti di autodeterminazione di quella gente. Il salazarismo entra così nella sua fase più tetra, amara e penalizzante. Naturalmente per i popoli e le regioni conculcati, ma anche per gli stessi portoghesi della madrepatria. Le proteste, sul cui fuoco soffiano anche con violenza gruppi e organizzazioni clandestine, come i partiti comunista e socialista, attivi nonostante la durissima repressione in tutto il Portogallo da parte della Pide, si trasformano in guerre civili che si allargano a macchia d’olio e si espandono da una colonia all’altra. Il Portogallo inizialmente riesce a far fronte militarmente, ma quando soprattutto nell’Africa lusofona si intensificano i rifornimenti ai ribelli di armi dai paesi comunisti, dall’Urss e dai suoi satelliti, da Cuba e dalla Cina, gli arsenali portoghesi, riforniti con mezzi e materiali Nato già in obsolescenza, la macchina militare portoghese non regge più. Oltre alle centinaia di migliaia di morti e a milioni di feriti tra i ribelli, sono molte migliaia i portoghesi che perdono la vita, combattendo inutilmente nelle “province” ultramarine. Un dissanguamento continuo e senza effetti pratici, che aumenta l’avversione verso un regime che ormai si percepisce come antiquato e reazionario. Anche la Chiesa cattolica, prima nella sua grande maggioranza schierata a favore di Salazar, comincia a dare segnali di insofferenza, per le innumerevoli vite, quasi tutte di giovani uomini, che si vanno perdendo. Lo stesso Papa Paolo VI, che accoglie la linea e la temperie del Concilio del suo predecessore Giovanni XXIII, prende posizione contro le guerre coloniali e chiede all’anziano leader di mettere fine a qualcosa che va contro la storia. Lo stesso fanno gli Stati Uniti, dichiarando che l’appartenenza del Portogallo alla Nato non lo giustifica dal proseguire guerre in colonie che, oltretutto, ormai portano solo perdite economiche dovute ai costi del conflitto.

Nel 1968, mentre infuriano le offensive degli eserciti di liberazione e in tutto il Portogallo corre l’avversione alla guerra, Salazar ha un colpo apoplettico e cade dalla sedia in cui stava riposando. Prende il suo posto Marcelo Caetano, successore designato e già ministro delle Colonie, Presidente della Camera corporativa, rettore dell’Università di Lisbona. Vista l’incapacità di governare di Salazar, divenuto poco più che un vegetale, il Presidente della repubblica (carica come si è detto solo formale) Américo Thomaz nomina Caetano nuovo capo dell’esecutivo. Caetano e il regime di cui è divenuto il continuatore, tenta qualche riforma blanda e di facciata, fa alcune aperture a favore dei contadini e di altri lavoratori, cambia il nome alla Pide e ad altre organizzazioni, ma la sostanza resta. L’unico progetto importante da lui avviato sono i nuovi impianti petroliferi a Sines, che però non decollano a causa della crisi petrolifera del ’73. Nel frattempo Salazar è già morto nel 1970 in seguito all’ictus dal quale non si è mai recuperato. Finalmente, dopo un primo tentativo di insurrezione nel marzo, poi rientrato, un reparto di carristi nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 1974 dà il via alla rivoluzione che mette fine alla più lunga dittatura d’Europa. Il Portogallo è assetato non di vendetta ma di pace e quella mattina del 25 la cittadinanza di tutte le maggiori città portoghesi è in festa. Corrono incontro ai militari in armi, ma invece dei caricatori col proiettile in canna i loro mitragliatori sono scarichi e dalle canne spuntano fiori rossi. Sono i garofani di quella che forse è la rivoluzione più incruenta della storia. Meno di dieci morti in tutto, tra i quali alcuni stroncati da attacchi cardiaci e tre o quattro causati da un milite della Pide che, forse unico in tutto il Portogallo, pensa di riportare l’ordine sparando una ultima raffica contro un popolo intero. Oggi, nonostante l’affermazione del centro-destra nelle elezioni appena svoltesi, in tutto il Paese ci sono manifestazioni di giubilo e festeggiamenti per l’importante anniversario. Di polemiche all’italiana, neanche l’ombra. Ma si sa: Paese che vai, 25 Aprile che trovi.

 

Carlo GiacobbeGiornalista, scrittore

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