Per capire l’arte ci vuole una sedia

Dopofestival: 5 monologhi per 4 donne al Festival Jan Fabre

“Love and beauty are the power supreme” (Milano, 10 settembre-14 ottobre 2024, Teatro Out Off)

Per capire l’arte ci vuole una sedia

*Pubblichiamo la prima parte delle recensioni delle performance in corso al Festival dedicato dal maestro belga Jan Fabre a cinque attrici performer della compagnia Troubleyn; le prossime performance (“I’m sorry”, 17-18 settembre; “Elle était et elle est, même”, 20-21 settembre; “I believe in the legend of love”, 24-25 settembre) saranno ugualmente recensite in questa rubrica.

1. Simona, the gangster of art (10-11 settembre; repliche: 27-28 settembre)

Irene Urcioli prima dell’inizio della performance in Simona, the gangster of art.
Testo, ideazione e regia: Jan Fabre. Musiche: Alma Auer. Drammaturgia: Miet Martens. Disegno luci: Wout Janssens

Una scultrice e falsaria di capolavori dipinti, giovane e bella quanto Jane Morris nella Beata Beatrix preraffaellita di Dante Gabriel Rossetti, ma ancora più torbida e modernamente sfacciata, rifinisce una colonna con un trapano Black & Decker; intanto è tormentata da punture di insetti amici, sniffa la cocaina in cui è immersa (in quantità più industriali di quelle dello Scarface di Brian De Palma), mangia a pezzi L’urlo di Munch che ha rubato dal museo in cui è esposto, canta sommessa e sensuale Because the night di Patti Smith; è tormentata tuttavia da un problema alle corde vocali ma, nonostante ciò, discetta sul ruolo dell’artista nella società e nel mercato dell’arte contemporanei, infrange la legge per difendere la bellezza, sospetta che “guardiamo l’arte”, perfino quando lascia un vuoto su una parete, perché “cerchiamo qualcosa di speciale che abbiamo smarrito ». Alla fine, la scultrice falsaria realizza il suo progetto di autosantificazione in vita salendo sulla colonna/prigione che ha scolpito, esponendosi in una pena perpetua sul tetto del teatro. Simona (una indemoniata Irene Urcioli, in promettente crescita) è lo pseudonimo con cui la scultrice aspirante santa immaginata da Jan Fabre si presenta al pubblico nel monologo “Simona, the gangster of art”.

Irene Urcioli in Simona, the gangster of art. Foto: Hanna Auer

A teatro i santi stiliti non hanno avuto spazio prima della performance di Fabre, ad eccezione di una misconosciuta commedia di Tullio Pinelli degli anni Trenta, Lo stilita, messa in scena solo nel 1995 da Mauro Avogadro in una in coproduzione del Teatro Stabile di Torino con l’Accademia Albertina di Belle Arti (https://archivio.teatrostabiletorino.it/occorrenze/463-lo-stilita-1995-96). Invece, le caratteristiche performative degli stiliti hanno ispirato il cinema, da Luis Buñuel di “Simón del desierto” (Leone d’argento a Venezia con l’irresistibile “Simón del desierto”) a Mario Monicelli di “Brancaleone alle Crociate” a Renzo Arbore di “Il Pap’occhio”.

Jan Fabre ha scritto il monologo recitato da Urcioli e ottimamente musicato e illuminato da Alma Auer e Wout Janssens, con la sempre sapiente drammaturgia di Miet Martens, durante due estati trascorse in semi isolamento nell’isola di Vis, in Croazia. Il “Giornale notturno” relativo al 2010 e al 2011 registra le fasi di elaborazione del testo, in cui Fabre rielabora anche l’idea alla base del suo metodo didattico, che trasforma il corpo quotidiano nel corpo da performance, così come le pratiche ascetiche di resistenza trasformavano il corpo di uomini altrimenti ordinari in quelli di santi vivi. L’etimologia di “ascesi”, del resto, rivela il significato di “esercizio”, presentissimo nei testi agiografici cristiani che tramandano la biografia di Simone stilita il Vecchio, nato in Siria intorno al 390, il più famoso tra gli asceti stiliti.

“Simona, the gangster of art” è il primo monologo per il teatro derivato dalla tradizione del santo stilita siriaco: l’unico monologo precedente è St. Simeon Stylites, 220 versi scritti nel 1833 dal poeta vittoriano Alfred Tennyson.

Tra il V e il XII secolo si contano più di 100 stiliti tra i quali c’erano donne aspiranti alla celebrità della santità in vita, le stilitisse (in greco): lo confermano indirettamente alcuni canoni del diritto ecclesiastico greco che vietano alle donne di salire sulle colonne (su questi temi è utile il recente libro di Laura Franco, Al di sopra del mondo. Vite di santi stiliti, Einaudi 2023). “Simona” è quindi la prima opera artistica dedicata al fenomeno degli stiliti in cui l’asceta protagonista è una donna, senza che la sua identità di genere artistica falsi la verità storica.

Il testo del monologo è il più personale dei 5. Si rivela come un autoritratto dell’artista barricato nel suo studio installato all’interno di un teatro in Belgio nell’ultima ora e venti precedente l’inizio della sua vita in santità. Il monologo di Fabre, buon conoscitore del teatro greco classico più volte alla base delle sue regie, rispetta le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione perché la vicenda si svolge in un teatro e si consuma in presenza del pubblico, con il quale Simona comunica direttamente, passando dalla luce del giorno a quella della sera. Come nel dirompente Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, Simona, the gangster of art è uno di quei casi in cui la piéce colloca la scena in un teatro coincidente con quello in cui si svolge la recita.

Irene Urcioli nella scena finale di Simona, the gangster of art. Foto: Hanna Auer

 

La scena dell’assolo ricorda alcuni momenti delle performance collettive che hanno reso Fabre famoso in tutto il mondo: È teatro com’era da aspettarsi e da prevedere e Il potere delle follie teatrali, con grandi teli bianchi a delimitare la scena e due trespoli, uno a sinistra sormontato da una lampadina e adibito a reggere una tuta da lavoro, uno a destra con due lampadine; poi alcuni oggetti da atelier: due barattoli con pennelli, una bottiglietta di Coca-Cola, uno stereo, un innaffiatoio (che verso la fine scopriremo pieno di cocaina, non di acqua), due piumini per la polvere, una sega elettrica e un mini trapano, una sedia, tre mezze colonne, un tavolo da lavoro ribaltabile con la riproduzione di L’urlo (in zucchero colorato commestibile) e tanta, tantissima polvere di cocaina sul palco e sugli oggetti.
Numerose, per chi sa vederle, sono le autocitazioni e le citazioni dalle opere degli antichi maestri modelli di Fabre: prima che la performance inizi, il pubblico si siede in teatro vedendo Simona/Urcioli vestita di bianco, addormentata supina su un materasso bianco, nella posa di un gisant di marmo, come quello in marmo di Carrara in omaggio alla neuroanatomista americana Elizabeth Caroline Crosby che Fabre ideò per la mostra Jan Fabre. Gisants. Hommage à E. C. Crosby et K. Z. Lorenz [Paris, Galerie Daniel Templon, 28 febbraio-20 aprile 2013, a cura di Barbara De Coninck, 2013). Alla fine, Simona si cosparge il volto di polvere bianca fino a somigliare al danzatore Mikhail Baryshnikov protagonista dell’installazione video di Fabre NOT ONCE – An art installation with film, nel giugno scorso passata al SIBIU INTERNATIONAL THEATER FESTIVAL (https://www.troubleyn.be/eng/performances/not-once-jan-fabre-mikhail-baryshnikov).

Mikhail Baryshnikov in NOT ONCE.An art installation with film.Conceived and written by Jan Fabre. Performed by Mikhail Baryshnikov. Film directed by Jan Fabre & Phil Griffin (la scheda dell’opera è sul sito di Troubleyn/Jan Fabre: https://www.troubleyn.be/eng/performances/not-once-jan-fabre-mikhail-baryshnikov)

 

Due volte Simona si inginocchia, scoprendo il torso seminudo, assumendo una posa simile a quella del cosiddetto Seneca morente del prediletto Rubens; e da pale di Rubens esposte nel Museo di Belle Arti di Anversa sembra mutuata di continuo la luce che Wout Janssens orienta su cromatismi essenziali e pittoricisti. E poi, sempre, emerge l’altro fiammingo amato da Fabre, Hieronymus Bosch, con le bocche spalancate dei protagonisti della Nave dei folli (Paris, Musée du Louvre. Sulla tradizione della storia dell’arte in Fabre rinvio ai miei articoli su questo giornale del 2 gennaio e del 20-21 giugno 2024: https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia-bisogna-immaginare-sisifo-felice/; https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia-rubrica-di-floriana-conte-un-artista-e-un-minatore/ ; https://beemagazine.it/un-artista-e-un-minatore/ ).

La metafora del gangster applicata al ruolo dell’artista nel sistema dell’arte visiva e teatrale è da sempre centrale nella teorizzazione (cioè, nel Giornale notturno) e nella pratica didattica di Fabre (cioè, nel manuale Dall’azione alla recitazione, Franco Angeli 2023, pp. 226-229); negli esercizi di improvvisazione per il performer del XXI secolo trova posto, infatti, anche Gangster e prostitute, che permette di violare anche i ruoli di genere in uno scenario notturno durante interazioni sociali molto varie.

Il monologo di Fabre è, a ben guardare, anche una riflessione ironica sul rapporto voyeuristico del pubblico con l’artista, che forse a volte preferirebbe darsi in pasto a tafani, zanzare, formiche e vivere in cima a una colonna esposto alle intemperie piuttosto che continuare a stare al gioco delle regole del mercato dell’arte e della visibilità del palcoscenico (ma quanto c’era dell’Uomo che misura le nuvole, la prima statua pubblica di Fabre esposta su tetti di musei ed edifici di tutta Europa, nell’iconografia finale di Simona/Urcioli auto esposta in estasi sulla colonna “sul tetto di questo teatro proprio come una candela collocata su un candelabro », finalmente lontana dai visitatori/spettatori/pellegrini in adorazione ?).

2. Io sono un errore (13-14 settembre; replica: domenica 22 ottobre, 20:30, Teatro Visconti, Grazzano Visconti)

“Io sono un corpo riempito di calore

che arde come brace

che fuma e cova.

Io sono un errore

perché il mio desiderio è grande

più imperioso persino della fame

e di solito più difficile da soddisfare.

L’anarchia del desiderio

non si può conciliare

con la vita.

Io sono un errore

perché sono un movimento solitario.

Io sono un errore

perché sono ancora curioso.

Io sono un errore

perché sono l’acerrimo nemico di me stesso.

Io sono un errore

perché diffido della luce del sole.

Io sono un errore”.

L’ossessiva affermazione apodittica “Io sono un errore”, seguita dalle ragioni che la spiegano, è recitata dalla voce di Lino Musella mentre Jan Fabre cammina tra gli ospiti del ricevimento del suo matrimonio con Joanna De Vos: la scena è montata nella parte finale del film documentario “The Crown of Love”, scritto da Melania Rossi e diretto da Giovanni Troilo (Sky Arte). Musella aveva vinto il Premio Ubu portando il mondo notturno di Fabre artista visivo e performativo nello spettacolo “The Night Writer”, tratto dal “Giornale notturno” dell’artista. Ma “Io sono un errore” è una sorta di didascalia premessa da Fabre ai suoi autoritratti di parole fin dal 1988.

Il monologo che Irene Urcioli ha recitato in italiano in prima mondiale all’Outoff lega “Io sono un errore” al precedente “Simona, the gangster of art” che ha aperto martedì 10 settembre il Festival Fabre. Il dedicatario del testo di “Io sono un errore” è Luis Buñuel, il cui film “Simón del desierto” (Leone d’argento a Venezia nel 1965) è uno dei precedenti dissacranti più importanti di Simona la stilitissa. Buñuel era morto nel 1983 quando, 5 anni dopo, Fabre concepisce “Io sono un errore”. Da maggio di quell’anno Fabre è sempre più immerso nella storia del cinema: ha quasi 30 anni e ha compiuto un passo importante nel suo perfezionamento da regista perché, insieme a Miet Martens, dal 9 maggio studia film americani e italiani (in particolare di Fellini, che gli piace) per circa un mese frequentando un corso di sceneggiatura “con altri dodici registi cinematografici e sceneggiatori” tenuto dallo sceneggiatore hollywoodiano Martin Daniel a Knokke, nelle Fiandre occidentali. Tornato ad Anversa, il 25 maggio 1988 Fabre scrive per la prima volta nel suo diario il distico che dà il titolo al monologo. Si legge nel vol. II del “Giornale notturno”:

“Io sono un errore (sin da giovane)”.

Irene Urcioli prima dell’inizio della performance Io sono un errore. Testo, ideazione e regia: Jan Fabre. Musiche: Alma Auer. Drammaturgia: Miet Martens. Disegno luci: Wout Janssens

 

L’affermazione del titolo del monologo è un mantra con cui l’attrice bombarda il pubblico dallo spazio claustrofobico ricavato sul palco, un angolo acuto nero in cui i rumori e i suoni di Alma Auer evocano un ospedale o una casa di cura in cui è rinchiusa una malata terminale di cancro. Il fatto privato che suscita la scrittura del monologo è il tabagismo dal quale Fabre non vuole liberarsi, tanto che la tosse continua tipica di chi fuma molte sigarette fa parte delle indicazioni di regia (la leggenda vuole che la tosse insistente per una malattia mortale sia un capitolo della storia del teatro di prosa occidentale: tossendo così bene da confondere il pubblico sul suo reale stato di salute,  una delle attrici più celebri di tutti i tempi, Sarah Bernhardt, travolse il pubblico durante una iperrealistica recita della morte per tisi della “signora delle camelie”). Per l’effetto che ha sul corpo, Fabre assimila il fumo ostinato a un simbolo di resistenza alle regole, anche della natura.

Il pubblico trova Urcioli seduta su una sedia a rotelle in stile Biedermaier, completamente avvolta in un sudario; a metà del monologo Urcioli si alza, esibendo un tailleur pantalone nero sotto il quale indossa un reggiseno nero da cui, per un momento, tira fuori entrambi i seni tenendoli con le mani (una variazione su una iconografia di Il potere delle follie teatrali, quando un seno veniva estratto dalla camicia bianca per rifare l’Allegoria della Vittoria di Le Nain al Louvre, alla base dell’iconografia); alla fine, Urcioli si riavvolge ineluttabilmente nel sudario.

Gli oggetti di scena sono tutti qua (il sudario, la sedia a rotelle), con l’aggiunta di alcune sigarette e di una scatola da cui Urcioli tira fuori dei fiammiferi dei quali uno serve a Wout Janssens, in una scena, a illuminarne il bel volto, facendone un quadro notturno fiammingo o olandese del Seicento a lume diretto.

Irene Urcioli in Io sono un errore Foto: Hanna Auer

 

“Io sono un errore” ha avuto anche una vita cinematografica. Nel 2007 Fabre ha collaborato con la maggiore regista cinematografica belga, Chantal Akerman, per la produzione “I am a mistake”. Akerman ha girato il corto ‘Femmes d’Anvers en novembre’(2008), di notte intorno a Pastorijstraat, la via dove si trova il Troubleyn Laboratorium, evocando la malinconia che avvolge, come il fumo, donne dall’aura quasi mistica. Il fantasma triste di Chantal Akerman aleggia sul pubblico italiano grazie a questo lavoro di Fabre e, contemporaneamente, grazie al film “La vita accanto” (in questi giorni nei cinema) che Marco Tullio Giordana ha dedicato proprio alla regista belga che alla malinconia e all’alienazione delle donne diede corpo sullo schermo (di Akerman nel film “La vita accanto” ho scritto nella prima parte di questo articolo del 2 settembre:

https://beemagazine.it/marias-baby-via-dal-miserabile-bosco-di-spine/).

Femmes d’Anvers en Novembre, Regia: Chantal Akerman. Editing & spatialization: Claire Atherton, 2008


 

“Io sono un errore” è una performance dark che non ha i toni barocchi ai quali Fabre ci ha abituato negli ultimi anni e che tocca corde essenziali e profonde: la solitudine, l’inadeguatezza nei confronti delle aspettative altrui e del mondo, la libertà personale, la malattia, il vizio, la morte, resi da Urcioli con voce sfidante, urla, sospiri, emessi da un corpo giovane sul punto di dissolversi.

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Accademica dell’Arcadia

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