Di schiavitù si muore

Un alto magistrato - che ha emanato anche alcune sentenze in merito - interviene sui recenti episodi di sfruttamento e di caporalato nei campi e sulla "vita da invisibili" dei lavoratori sfruttati in questa "Italia dei caporali". Il famoso caso di Nardò

La prima notizia è apparsa nelle brevi di cronaca. “Operaio col braccio amputato abbandonato nei pressi di casa”. Nell’articolo si specificava che si trattava di un bracciante indiano del Punjab – Satnam Singh, meglio conosciuto come Navi, 31 anni – irregolare che lavorava nei campi della provincia di Latina, in una zona dove è particolarmente attivo il “caporalato”. A strappargli l’arto, poggiato su una cassetta di frutta, era stato il rullo di un macchinario trainato da un trattore, con cui si avvolge la plastica sulle cassette.

Il giorno seguente l’esito drammatico: l’operaio muore dissanguato a causa delle gravi ferite riportate. La Procura di Latina indaga, ravvisando le ipotesi delittuose di omicidio colposo ed omissione di soccorso, per adesso solo a carico del datore di lavoro (l’imprenditore agricolo sui cui terreni è accaduto l’infortunio).

Roberto Tanisi

La notizia della morte figurava sulle prime pagine di molti quotidiani, ma, singolarmente, non su quelle dei giornali di destra, presi solo a celebrare “le magnifiche sorti e progressive” dell’Italia grazie all’autonomia differenziata, divenuta legge: nulla di nulla su “Libero”, “la Verità”, “Il Tempo”, “il Giornale” (che si diffondeva abbondantemente sui festeggiamenti per i 50 anni del quotidiano fondato da Indro Montanelli, dimenticando, peraltro, di evidenziare che il grande Indro fuggì via da quel giornale – fondando “La Voce” – nel momento in cui il suo editore voleva, da padrone, trasformarlo da giornale libero in un foglio a suo uso e consumo).

Nei resoconti giornalistici è stato anche evidenziato il cinismo del padre dell’indagato, il quale, sostanzialmente, ha rimproverato al bracciante di essersela “cercata”, la morte, avvicinandosi imprudentemente al mezzo e commettendo una “leggerezza che è costata cara a tutti”. Non una parola di pietà per lui, né alcuna censura sull’operato del figlio, che, presente al momento dell’infortunio, lungi dal prodigarsi per ricoverare subito l’operaio in un ospedale o chiamare il “118”, l’ha invece abbandonato nei pressi di casa, con il braccio tranciato riposto in una cassetta; preoccupandosi, subito dopo, di fare una doccia e lavare il pulmino per eliminare (sic!) le tracce di sangue: il pensiero era rivolto, evidentemente, non alle tragiche condizioni dell’operaio, ma alle possibili conseguenze penali che lo avrebbero riguardato. Conseguenze che potrebbero essere anche ben più gravi di quelle sin qui ipotizzate, non potendosi escludere un’accusa di omicidio volontario con dolo eventuale se dai risultati dell’autopsia dovesse emergere che l’operaio, se tempestivamente ricoverato, avrebbe potuto salvarsi.

Satnam Singh faceva la vita che – non solo a Latina, ma in tutto il Paese – fanno gli stranieri deputati ai lavori agricoli, specie se irregolari: levarsi al mattino presto, essere sui campi al sorgere del sole, lavorare per non meno di 10 ore (talvolta anche 14-16) per una paga oraria di 3-4 euro, subire le angherie dei caporali (comprese le “detrazioni” dalla paga giornaliera delle spese per gli spostamenti, una bottiglia d’acqua, un panino).

Una vita da invisibili che, tuttavia, è funzionale un po’ a tutta la filiera alimentare la quale, quasi sempre, per il lavoro dei campi – si tratti della raccolta delle angurie, dei pomodori o delle zucchine – è indifferente alle condizioni di lavoro dei braccianti (nella quasi totalità immigrati provenienti dall’Africa o dal sub-continente indiano), spesso assimilabili a quelle di veri e propri schiavi. Ieri è accaduto a Latina, ancora prima era accaduto – e accade tuttora – in Puglia, accade quotidianamente nelle campagne di tutta Italia.

Maurizio Maggiani

È l’Italia dei caporali, che fanno il bello e cattivo tempo, fanno il lavoro sporco per conto gli imprenditori agricoli e trattengono decine e decine di lavoratori in condizione analoga alla schiavitù. Contro questo sistema si è levata, alta, la voce di Maurizio Maggiani, che ha adoperato parole durissime (La Stampa del 21.6.24): “E il sistema è così fatto. Che il lavoro schiavistico, il lavoro nero, e l’evasione, certo l’evasione, che ne è apprezzabile prodotto di risulta, sono un fatto strutturale, necessario, essenziale alla prosperità, e persino alla sopravvivenza, della filiera agroalimentare come fonte di profitto”.

Ma cosa si intende per “caporalato”, e cosa per riduzione in schiavitù

L’espressione “caporalato” identifica l’intermediazione illecita nei rapporti di lavoro. Si tratta di un fenomeno sociale molto diffuso, inizialmente nel solo meridione d’Italia, poi estesosi in tutto il Paese, in particolar modo nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia. Esso non esaurisce le nuove forme di sfruttamento lavorativo, ma ne rappresenta un rilevante aspetto specifico: è parte di un modello sociale che può considerarsi vasto, complesso e trasversale, non circoscrivibile dentro categorie sociologiche rigide, un modello “liquido” e resistente di impresa al quale non importa il colore della pelle del lavoratore, i suoi tratti estetici e etici o la sua condizione giuridica, quanto, invece, la sua fragilità sociale, la sua vulnerabilità e ricattabilità che, sovente, sfocia in forme contemporanee di riduzione in servitù e schiavitù.

Il caporalato, infatti, produce:

una distorta percezione della realtà nella forza lavoro, la quale è portata a ravvisare nella mediazione illecitaun ruolo quasi di aiuto sociale, considerata la sola che consenta di lavorare;

Turni massacranti di lavoro, sempre superiori alle 10 ore, non di rado di 14-16 ore, in condizioni estremamente difficili (sotto il sole cocente o la pioggia battente, senza pause o con pause estremamente ridotte, senza mezzi o possibilità di ristoro); frequentemente, la sottrazione di documenti di identità, che pongono i lavoratori stranieri in condizione di estrema vulnerabilità, vero e proprio ostaggio dei caporali (onde la loro necessità di fornire, talvolta, false generalità, ovvero di fuggire in caso di controlli);

L’esclusione (anche temporanea) del lavoratore dal lavoro, in caso di sua ribellione anche solo per far valere i propri diritti;

Da ultimo l’impiego di forme minatorie e violente dei caporali, tali da imporre paura ed ottenere sottomissione.

Dal punto di vista normativo, il caporalato è stato oggetto, nel corso degli anni, di numerosi interventi legislativi, sino all’attuale formulazione dell’art. 603-bis c.p., a riprova dell’importanza che ad esso ha inteso riconnettervi il Legislatore

Inizialmente era previsto il monopolio pubblico della genesi del rapporto di lavoro (con gli uffici comunali di collocamento), mentre l’intermediazione di manodopera era considerata reato contravvenzionale (art. 27 L. 264/49; artt. 1 e 2 L. n. 1369/60); e tale è rimasta anche a seguito, nel 1997, dell’introduzione nel nostro Ordinamento del lavoro interinale (legge n. 196) e la susseguente apertura al mercato del lavoro (c.d. Legge Biagi: n. 276/03).

Tuttavia, l’inadeguatezza di tale figura di reato contravvenzionale, soprattutto a fronte di gravi forme di sfruttamento del lavoro, manifestatesi sul nostro territorio anche grazie ai fenomeni di immigrazione massiva dai Paesi dell’Est Europa, dal Maghreb e dall’Africa sub-sahariana, ha correlativamente spinto il Legislatore ad intervenire su altri fronti, reputati evidentemente più idonei per fronteggiare il fenomeno: così, anche grazie alla spinta di nuove normative internazionali, con la legge n. 228/03 è stato è stato riformulato l’art. 600 c.p., con una nuova definizione del reato di riduzione in schiavitù, mentre con il D.L. n. 13.8.11, n. 138, in vigore da tale data e poi convertito nella legge n. 148/11, è stato introdotto il reato di cui all’art. 603-bis c.p.(“Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”).

Da rilevare come tale disposizione sia stata introdotta, addirittura, con decreto legge ed a seguito dei gravi fatti verificatisi a Nardò (Lecce), ove i lavoratori neri, guidati da Yvan Sagnet, inscenarono una dura protesta per le vie della cittadina pugliese, che indusse, appunto, il Legislatore ad adottare la nuova disciplina. Il processo che ne seguì, dinanzi alla Corte d’Assise di Lecce, portò alla condanna di caporali e datori di lavoro per il delitto di riduzione in schiavitù; tuttavia la Corte d’Appello, successivamente, riformò la sentenza escludendo il delitto di schiavitù e ravvisando la più lieve ipotesi di caporalato, ma la Corte di Cassazione annullò tale sentenza, rivalutando il primo giudizio, che aveva reputato sussistente il delitto di riduzione in schiavitù.

Scopo dell’art. 603-bis cod. pen. – che sanziona il “caporalato” – è quello di punire tutte quelle condotte gravemente distorsive del mercato del lavoro, caratterizzate da violenza, minaccia, intimidazione, profittamento dello stato di bisogno o di necessità del lavoratore. Tale novità legislativa, nella sua prima formulazione, non ha sortito l’effetto sperato – ossia quello di eliminare o, quanto meno, ridimensionare il fenomeno – come è attestato dal fatto che in giurisprudenza si rinviene una sola sentenza della Cassazione (Cass. 27.3.14, n. 14591). Il suo principale difetto – almeno a stare agli studiosi che si sono occupati del problema – stava nel fatto che essa non aveva previsto alcuna responsabilità per il datore di lavoro che, pure, è il vero beneficiario del “caporalato”. Da qui la rivisitazione della norma (legge n. 199/16), grazie alla quale il reato è oggi addebitabile, oltre che al caporale (che recluta), anche a chi “utilizza, assume o impiega” manodopera grazie all’opera di illecita intermediazione (ossia al datore di lavoro).

Il caporalato, peraltro, è alternativo (“salvo che il fatto non costituisce più grave reato”) a quello di riduzione in schiavitù” (art. 600 c.p.), che individua una fattispecie multipla, a forma libera, la quale comporta:

  1. l’esercizio su di una persona di poteri di signoria corrispondenti al diritto di proprietà, in modo che la persona sia più o meno ridotta ad una res, oggetto di scambio commerciale (es. le ragazze dell’est portate in Italia per essere destinate alla prostituzione ed oggetto di ripetuti cambi di “padrone”);
  2. la riduzione o il mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, finalizzata al suo sfruttamento, con differenti modalità.

Ovviamente – e parallelamente – anche la giurisprudenza della Cassazione si è evoluta con riferimento a tale ultimo reato e, quanto allo “stato di necessità” in cui versa il lavoratore, ha ritenuto (Cass. 17.6.16, n. 1884) che più correttamente si deve parlare di “situazione di necessità”, la quale va delineata non già con riferimento all’esimente di cui all’art 54 c.p., “quanto piuttosto alla nozione di <<bisogno>> enunciata dall’art. 644, comma 5° n.3 c.p. in tema di usura e nell’art. 1448 c.d. in tema di rescissione del contratto”. In altri termini, quello che si richiede per la sussistenza del delitto più grave, è una “situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale, in accordo con quanto disposto nella decisione-quadro UE 2002/629/GAI sulla lotta alla tratta degli essere umani (di cui la legge n. 228/03 è attuazione), laddove intende tutelare le posizioni di vulnerabilità; nozione, quest’ultima, che deve essere tenuta ben presente al fine di interpretare l’art. 600 c.p.”, costituendo essa una condizione capace di compromettere “radicalmente la libertà di scelta della vittima, che non ha altra scelta se non quella di sottostare all’abuso” (così Cass. n. 31647/16). Inoltre, a proposito della continuatività della soggezione, la Cassazione ha osservato come tale requisito debba essere inteso o in senso cronologico di durata prolungata nel tempo, ovvero nel senso di una “certa permanenza”, con esclusione, quindi, di quelle condotte che si esauriscano in brevissimo tempo e non siano idonee a determinare “dipendenza”. Tale “soggezione”, secondo la Suprema Corte, è ravvisabile (a titolo esemplificativo) allorquando le vittime:

  1. siano private dei passaporti o dei documenti;
  2. siano collocate in luoghi isolati privi di relazioni esterne;
  3. abbiano retribuzioni nettamente inferiori alle promesse e, comunque, alla normativa contrattuale;
  4. subiscano contestualmente sacrifici di esigenze primarie;
  5. vivano in luoghi fatiscenti, in assenza di servizi igienici;
  6. subiscano privazioni alimentari e siano impossibilitate di spostarsi liberamente sul territorio, costrette a raggiungere i luoghi di lavoro solo su mezzi di trasporto nella disponibilità dell’autore del reato;
  7. siano incapaci comunque di sottrarsi allo sfruttamento e siano, anche, oggetto di violenze o minacce.

Situazioni, queste, tutte ravvisabili nella vicenda di Satman Singh, onde è evidente che ad esse – come a quelle del foggiano, del Salento o di qualsiasi altro luogo in cui i lavoratori (quasi sempre extracomunitari provenienti dal “sud” del mondo) siano trattati come il povero Satman – la definizione giuridica che meglio si attaglia sia quella di riduzione in schiavitù. Una schiavitù “moderna”, che va ravvisata tutte le volte in cui si realizzi un preordinato, organizzato, sistematico, massivo sfruttamento della forza lavoro (come, del resto, ha sottolineato in un accorato intervento il Presidente Mattarella).

Sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano”, ha detto la Presidente Meloni. Purtroppo in questo caso il non italiano era la vittima. Ed il ripetersi di tragedie come questa (sono 834 le indagini per caporalato nelle Procure italiane), come il ripetersi drammatico delle morti sul lavoro, sta a dimostrare che, nel nostro Paese, il lavoro risalta solo nella Carta Costituzionale, ma è ben lungi dall’essere davvero tutelato.

Cosa fare, allora? Ritornano le parole del Presidente Mattarella, il quale ha stigmatizzato “un fenomeno che, con rigore e fermezza, va ovunque contrastato, eliminato e sanzionato. Evitando di fornire l’erronea e inaccettabile impressione che venga tollerato, ignorandolo”.

Per fare ciò è necessario che siano potenziati gli organi preposti al controllo del lavoro sui campi, in primis gli Ispettorati sul lavoro e che la Magistratura faccia la sua parte concludendo in tempi brevi le indagini e sanzionando duramente gli eventuali responsabili.

Poi occorre anche qualcosa di più. Occorre che si abbia piena coscienza che la schiavitù esiste ancora; che è intollerabile che per vivere ci siano persone chiamate a svolgere lavori disumani con paghe da fame; che, infine, si metta da parte quell’atteggiamento di preconcetta ostilità – o, quanto meno, indifferenza – verso gli immigrati, vittime di ogni sopruso, trattati come “cose”, fino ad essere abbandonati morenti al margine di una strada.

Siamo uomini o caporali”? – si chiedeva Totò in un memorabile film degli anni 50 dello scorso secolo.

I caporali” – affermava Totò – sono “coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano”.

Siamo uomini o caporali? Siamo ancora qui a chiedercelo quasi settant’anni dopo.

 

 

Roberto TanisiMagistrato. Già presidente del Tribunale e della Corte d’Appello di Lecce

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