Quante volte abbiamo sentito qualificare un determinato momento della storia nazionale come decisivo per le sorti dello sviluppo del Paese. Certamente più di una volta e per ragioni diverse.
Oggi non possiamo non considerarci in uno di quei tornanti della storia d’Italia passato il quale la strada da percorrere non sarà più quella di prima: nuove destinazioni e nuovi percorsi che disegneranno il Paese del futuro.
Si tratta del PNRR (o Future Generation Europe).
Arriviamo a questo appuntamento con l’Italia che continua ad investire poco nell’Università e nella ricerca in generale, poco più della metà rispetto agli altri paesi dell’OCSE e dell’Unione Europea. Il risultato di questa condizione è che i giovani italiani hanno avuto scarsa fiducia nella conoscenza con una percentuale di laureati nella fascia di età 25-34 anni è del 29%, penultimi in Europa che nel 2020 si è attestata su una media del 41%.
Eppure, il sistema universitario italiano è tra i più efficienti al mondo. I nostri laureati sono tra i più preparati, nonostante un rapporto docenti su studenti che ci vede molto indietro rispetto alla media OCSE.
Nella ricerca siamo ottavi al mondo per numero di pubblicazioni e terzi, davanti agli USA, per numero di pubblicazioni per ogni euro investito in ricerca, dal 2007 ad oggi oltre 900 ricercatori italiani hanno vinto un programma ERC e se guardiamo i finanziamenti europei, ogni ricercatore italiano è stato in grado di attrarre di più rispetto alla quota pro capite, nonostante l’Italia abbia meno di 2 università per ogni milione di abitanti, contro circa 4 della Germania e oltre 8 della Francia.
In questo contesto, l’Università della Tuscia e le altre università delle aree “interne” – ossia di quelle zone meno connesse direttamente alle centralità urbane e di sviluppo – svolgono un ruolo da protagonista.
L’Italia è fortemente caratterizzata da aree interne, sia per ampiezza demografica (quasi un quarto della popolazione) sia per differenziazione delle stesse zone visto che i processi di antropizzazione e le ampie e diversificate ricchezze ambientali e culturali disegnano di volta in volta scenari sociali, economici e geografici poliedrici. Una diversità che può essere, nei “piccoli mondi” delle aree interne, un fatto di competitività del sistema.
Nel mondo, non è un caso che molte prestigiose università si collocano in piccoli centri: (Oxford, Cambridge, Princeton, Yale e molti altri esempi…) nei quali l’Ateneo costruisce una comunità operativa e attraente, una comunità che sviluppa modelli di organizzazione sociale caratterizzati da alti standard di qualità sia per gli individui che per l’ambiente.
I processi di urbanizzazione dei decenni precedenti hanno disegnato metropoli nelle quali spesso la conglomerazione ha accresciuto le difficoltà relazionali e di accesso ai servizi, disperso patrimoni di affinità e talento in una corsa alla mera sopravvivenza.
La ricerca, la didattica e la formazione pretendono invece un tempo organizzato e accessibile, una qualità elevata della vita che permettano all’uomo di investire energie sulle sinapsi e sulle relazioni fisiche al tempo stesso. Oggi più che mai i piccoli centri sono incubatori di queste possibilità e con esse di opportunità di innovazione; quindi, sviluppo e benessere per quel territorio e per chi beneficerà dei progressi della scienza; di tutte le scienze.
Il patrimonio di queste aree interne, spesso consolidato dal tempo e conservato dalle dinamiche sociali, nella sua staticità si affaccia nell’era glocale come un trampolino di lancio per il mondo. Nel post-moderno, ammettiamolo, i processi di standardizzazione sono davvero ampi e generalizzati.
Tendiamo a ridurre gli elementi di differenziazione nella comunicazione, nella parola, nello scritto, nel pensare.
Rischiamo che un processo di questo tipo, se riesce da un lato ad assecondare la velocità delle opportunità nell’era di internet, dall’altro privi la complessità del mondo esistente degli strumenti per essere compresa e gestita. Abbiamo bisogno di essere rapidi ma al tempo stesso capaci di analizzare e gestire i processi complessi dell’era attuale, della società dell’incertezza e del rischio.
Negli anni l’Università degli Studi della Tuscia ha rafforzato la propria autorevolezza nell’ambito delle relazioni con le altre Istituzioni del territorio, sia politiche sia imprenditoriali, che operano in ambito regionale, statale ed europeo.
Questa condizione ha consentito al nostro Ateneo di integrarsi sempre meglio con il tessuto di appartenenza e le sue processualità.
Da questa azione deriva un arricchimento significativo del territorio, non solo perché il tessuto imprenditoriale e amministrativo può contare su un partner specializzato che aumenta la competitività del sistema in termini di applicazione/industrializzazione dei risultati della ricerca, ma anche perché l’attrattività territoriale porterebbe ad incrementare il valore dei beni immobili e la redditività sia delle attività commerciali tradizionali, sia di quelle a vocazione culturale e giovanile.
Dobbiamo essere consapevoli della opportunità di potenziare gli Atenei delle aree interne come “Istituzioni” che forniscono un contributo decisivo alla ricchezza di imprese e famiglie. L’Università diventa il motore per la crescita e il miglioramento culturale e tecnologico del territorio che la ospita e la sua funzione socio-economica è fondamentale, al pari di quella formativa e scientifica.
Dobbiamo cogliere senza indugio questa enorme occasione del PNRR per potenziare queste realtà universitarie collocate nelle aree interne, trovare fonti di finanziamento aggiuntive, come si fa con il mezzogiorno o altre aree specifiche del Paese come prevede la Costituzione all’art. 119. Non si tratta di chiedere risorse aggiuntive in una logica di mera spesa pubblica, figuriamoci. Si tratta di dare un volto quantitativo alla scelta politica di sostenere lo sforzo degli Atenei delle aree interne.
Come sappiamo, il numero di studenti è l’unico parametro che regola i finanziamenti pubblici agli Atenei ed è pressoché indistinto (a parte piccoli correttivi) tra Milano e Viterbo, tra Roma e Macerata, Bologna e Urbino.
Queste realtà più piccole faticheranno a mantenere aperti filoni di didattica importantissimi per il nostro Paese, sia nell’area umanistica che nelle materie di base; poi non possiamo lamentarci che se non si trovano matematici, informatici, chimici, ecc.. e che il numero di laureati continua ad essere molto al di sotto della media europea.
Non possiamo perdere l’occasione di rilanciare un patrimonio con centinaia di anni di storia, unico al mondo: tenere vivi determinati corsi di laurea e certe filiere di ricerca va fatto oltre il numero di studenti, ed è strategico per il paese soprattutto se si pensa che costerebbe finanziariamente poco in termini di sistema e ben di più garantirebbe al nostro Paese.
Stefano Ubertini – Rettore dell’Università della Tuscia