Per capire l’arte ci vuole una sedia: rubrica di Floriana Conte

Un artista è un minatore

(reportage da una settimana al Troubleyn/Jan Fabre Laboratorium ad Anversa) - SECONDA PARTE

Per capire l’arte ci vuole una sedia

Giorno 2. 21 maggio

Solo Marilyn Monroe si è presentata il 29 ottobre 1956 a un incontro ufficiale con una regina vestendo impudentemente pochissimo il suo seno prorompente. Un altro tassello della storia dell’arte fiamminga che ispira Fabre sta ancora una volta in una pala di Rubens: una santa con una crocchia bruna con riflessi dorati, la pelle bianca centroeuropea e una camicia che scopre il profilo del seno destro si avvicina, pura e sfacciata, al trono di Maria, aspettando il suo turno per omaggiare Gesù. Ideata dall’anziano Rubens nel 1634, la signora limpidamente discinta orna l’altare della cappella nella chiesa di San Giacomo, per scelta della famiglia di Rubens, da quando nel 1640 bisognò seppellirvi il pittore.

La regina Elisabetta II e Marilyn Monroe all’incontro ufficiale all’Empire Theatre di Londra il 29 ottobre 1956 (la foto è in controparte)

Peter Paul Rubens, Madonna e santi, 1634 ca., olio su tela, 211 x 195 cm, Anversa, Chiesa di San Giacomo, cappella funeraria di Rubens

 

Più tardi alla Masterclass, sul palcoscenico gli studenti ricominciano le ripetizioni. Per sentire meglio i movimenti dinamici del corpo trasformato in gatto e poi in tigre, Charron consiglia di tenere a mente il Nudo che scende le scale di Marcel Duchamp (un artista di estremo rilievo nella performance storica di Fabre, che ha infuso vita al Grande vetro nell’assolo con Els Deceukelier, Elle était et elle est, même). Per Eros e Thanatos, Charron e Chambon consigliano di guardare la Transverberazione di santa Teresa d’Avila, che non tutti gli studenti conoscono. Charron indica altre fonti non trascurabili e facilmente attingibili in rete, come i coloratissimi e movimentati film di Bollywood e i movimenti atletici del calciatore Neymar, per introdurre gestualità fantasiosa nella morte per agonia. Mi ricordo che, quando a dicembre a Milano Fabre ha dialogato con Anna Bandettini e col pubblico alla presentazione al Teatro Out/Off di Dall’azione alla recitazione, Matteo Franco e Irene Urcioli hanno confermato che egli fornisce ai suoi attori e performer durante le prove e nei camerini riproduzioni delle opere d’arte fiamminghe di Bosch, di Brueghel e altri artisti, per chiarire cosa chiede di rappresentare con i movimenti del corpo e la mimica facciale. La pratica rimonta all’epoca di Il potere delle stoltezze teatrali: “Agli attori e ai danzatori ho dato copie di capolavori classici e moderni. Devono improvvisare partendo da quei dipinti. Ciò affinerà la loro immaginazione […] e permetterà loro di rendersi conto della relazione esistente tra le arti figurative e il teatro. Devono studiare le posture, la messa in scena, la luce e la drammaturgia di quei dipinti e poi tradurle sulla scena” (GN, I, p. 196, 5 aprile 1984). “Il teatro può mostrare immagini, ma ciò non lo rende necessariamente arte figurativa. […] Grazie all’arte figurativa una nuova interpretazione del teatro e viceversa” (GN, I, p. 202, 5 giugno 1984).

Alla fine di Eros e Thanatos, i suggerimenti di Fabre, che è arrivato in platea, sono note di regia che indicano agli studenti come fonti opportune per trovare la propria voce la morte teatrale di Riccardo III e quella cinematografica di Al Pacino in Scarface (immaginata dallo stesso Brian De Palma che aveva dato una sterzata alla propria vocazione da regista dopo che aveva filmato in split screen la performance delle performance, Dionysus in ’69, diretta da un professore universitario, Richard Schechner). In generale, Fabre consiglia di usare ogni muscolo del viso e ogni falange delle dita delle mani e dei piedi per esprimere la sofferenza dell’agonia, ma anche di economizzare i movimenti per esprimere l’erotismo, perché less is more (non proprio un ossimoro, a pensarci bene, nell’artefice del teatro più barocco che ci sia).

Qua dentro e ogni minuto la storia dell’arte nutre il teatro, com’era da aspettarsi e da prevedere.

Particolari delle sale del Museum Mayer van den Bergh ad Anversa

 

Giorno 3. 22 maggio

Visito la collezione di Brueghel, Bosch e le sculture medievali e quattrocentesche del Museum Mayer van den Bergh, la casa museo del collezionista Fritz Mayer van den Bergh, che acquistò circa 3100 opere alla fine dell’Ottocento e che non potè vedere la sua raccolta diventare un museo nel 1904, perché tre anni prima era morto cadendo da cavallo. Molte opere di Teniers, Jordaens, Massys, Pieter Bruegel I e II, Bosch mi sono note in riproduzione, ma vederle qua tutte insieme in uno spazio relativamente compresso che esibisce supplizi efferati, pratiche sessuali assurde e punitive, danze macabre e folli, nudità grottesche, angeli e diavoli di legno che fanno smorfie in volo, pleurants incappucciati in fila davanti a me, soldati in armatura di pietra, scene della cattura e della passione di Cristo in pietra e in legno a meno di mezz’ora a piedi dal Troubleyn è una conferma di come il teatro performativo di Fabre sia un passaggio indubitabile della fortuna della storia dell’arte fiamminga presso gli artisti visivi. Il fatto che questo passaggio sia avvenuto prevalentemente sui palcoscenici, e non nei cosiddetti “spazi alternativi” destinati alla Performance Art storicizzata, ha impedito che la maggior parte degli storici dell’arte accademici desse conto della sua portata, restringendo l’attenzione per l’opera totale di Fabre alla critica d’arte contemporanea (ben diversa dalla storia dell’arte contemporanea) e alla critica e alla storia del teatro.

Le tre pale di Jan Fabre nell’ex chiesa degli Agostiniani ad Anversa, con un particolare della pala The Mystic Contract (2018) sull’altare maggiore

 

Quando sto per terminare la visita, Joanna De Vos mi avverte che a 4 minuti a piedi posso visitare la chiesa sconsacrata degli Agostiniani, che ora è la sede del centro musicale AMUZ  per il quale nel 2018 sono state commissionate tre pale a Fabre, che le ha realizzate con una delle sue tecniche favorite, il mosaico di carapaci iridescenti di scarabei gioiello (che, se non fossero materiali per le sue opere, resterebbero materiali di scarto): The Monastic Performance e The Ecstatic Recording per i due altari laterali, The Mystic Contract per l’altare maggiore. Colmano le lacune lasciate dalla musealizzazione di tre pale di Rubens, Van Dyck e Jordaens. Quella di Rubens è anche la più vasta da lui dipinta (andrò a vederla sabato mattina, in restauro all’inizio della Sala di Rubens nel Koninklijk Museum van de Schone Kunsten). Le iconografie sono adeguate alla funzione dell’ambiente, la luce assorbita dai carapaci metamorfizzati in una sorta di arazzo abbagliante le rende cangianti senza essere mai solo verdi o solo blu. Nel teatro di Fabre la “drammaturgia della luce” “crea una storia immateriale” (GN, III, p. 249, 21 ottobre 1998) che cerca ispirazione nella luce di Rubens; qua nelle pale-scultura la drammaturgia della luce coincide con lo stile. 

Prima di ricominciare la Masterclass, parlo con Chambon e Charron del loro training quotidiano al Troubleyn per tenere i corpi in forma costante: sono quasi incredibilmente agili, mobili e scattanti (siamo tutti e tre quasi coetanei ma Annabelle ha partorito 3 figli, dei quali il più grande ha 16 anni). Da runner dilettante, resto un po’ delusa quando mi dicono che non praticano la corsa, che non sarebbe salutare per caviglie e articolazioni, nonostante la corsa sul posto faccia parte delle iconografie ossessive di Fabre (la mia preferita è quella, a metà tra allenamento da Corpo dei Marine e nerd della storia del teatro, in Il potere delle stoltezze teatrali). Si esercitano, invece, con i maestri di Yoga e Kendo messi a disposizione settimanalmente per la Compagnia; Annabelle aggiunge il balletto classico (sulle punte, infatti, si muove e danza nella seconda parte di Peak Mytikas) e, insieme al marito Cédric, in passato ha praticato karate. Questi performer di livello altissimo devono, insomma, prediligere discipline che mantengono le articolazioni elastiche e capaci di reggere performance che, per Mount Olympus, duravano fino a 24 ore. Anche se fumano e bevono caffè (sic!), la routine quotidiana di questi “guerrieri della bellezza” conferma che la ripetizione di un duro training quotidiano è sempre alla base di ogni alta forma d’arte o di mestiere, qualunque esso sia.

Quando ricominciamo la Masterclass con un debriefing iniziale del lavoro fatto il giorno prima, vedo gli studenti cedere progressivamente al grottesco, abbandonando la grazia classica. Viene loro in soccorso una nuova riflessione comune sulla Transverberazione di santa Teresa di Bernini: con Chambon e Charron ci eravamo detti che sarebbe stato utile ricordare che Bernini ha immaginato Teresa come una giovane donna congelata nel marmo che, trafitta dall’amore divino personificato dalla metafora angelica, prova una scala infinita di emozioni che le sciolgono e contraggono i muscoli e le articolazioni del viso e del corpo, e che tutto avviene in una cappella privata allestita come un teatro in una chiesa nel centro di Roma vicina al Teatro dell’Opera e non lontana dalla Stazione Termini, con gli spettatori della famiglia Cornaro rappresentati nei palchi e gli spettatori occasionali in platea, che siamo noi, ogni volta che sostiamo in Santa Maria della Vittoria. Può aiutarli anche la lettura di un classico come Georges Bataille per capire il rapporto sadomasochistico che si instaura nel cervello tra piacere e dolore.

Alla classe si unisce anche Irene Urcioli, attrice e performer che recita sia in Peak Mytikas sia nel monologo più recente di Fabre, Simona, the gangster of art, che a sua volta è insegnante nelle Masterclass in altri periodi dell’anno.

A metà pomeriggio Fabre, insieme a Matteo Franco, mi fa visitare il museo di opere d’arte contemporanea incastonato dall’ingresso ai pavimenti, dalle pareti ai soffitti, davanti ai camerini e nei bagni del Troubleyn. Nel catalogo Troubleyn Laboratorium Jan Fabre (edited by Sigrid Bousset, Katrien Bruyneel, Mark Geurden, Mercatorfonds 2016) sono elencate le opere che più di 70 artisti performativi e visivi che hanno collaborato con Fabre (tra cui Marina Abramović, Orlan, Pascal Rambert, Romeo Castellucci, Luc Tuymans, MASBEDO, Vedovamazzei, Bob Wilson) hanno realizzato per il Troubleyn Laboratorium. Mi rendo conto che l’edificio è un crogiolo predisposto per la didattica anche sul versante museografico: ogni opera interagisce con chi lavora nei vari ambienti, scatenando esigenze di conoscenza su tecniche, materiali, cronologia, iconografia. Succede anche a me durante il percorso.

Sulla parete destra dell’ingresso dell’ufficio di Troubleyn riconosco, nell’olio su tela di Maryam Naid, Dance the war away, l’immagine tratta da una famosa fotografia di Wonge Bergmann dal tango di due danzatori in Il potere delle stoltezze teatrali. Dico a Fabre che ricordo bene quel passo del GN sul viaggio di 10 ore per raggiungere Bari durante la tournée, sulla fatica ripagata dalla locandina con quell’immagine che tappezzava la città, sul successo fragoroso della recita e sul memorabile episodio di identificazione totale tra iconografia artistica e vita di cui si era reso protagonista un pubblico attento durante le QA del giorno dopo (sorridiamo dei miei ricordi solo letterari, perché rimontano a cose che non ho vissuto: quando Il potere delle stoltezze teatrali girava per l’Europa avevo 7 anni e non avevo la più pallida idea di quella ribellione performativa che si svolgeva a un’ora d’auto da dove crescevo e che avrei scoperto solo a 20 anni grazie alle lezioni universitarie di Storia dell’arte contemporanea):

“Il viaggio in autobus è stato surreale. […] Magra consolazione: per tutta la città vedo cartelloni belli e grandi. (Con Wim e Roberto che ballano il tango nudi, una scena tratta dalla rappresentazione)”. “Abbiamo recitato Il potere… in uno dei teatri più belli che esistano in Europa. Il Teatro Petruzzelli, una sala con tremila posti. […] Dopo un’ora il teatro era strapieno. Il pubblico reagiva alla rappresentazione come se stesse guardando la partita tra la Roma e l’Inter. […] Alla fine della rappresentazione il pubblico era in un delirio di entusiasmo. Un’esperienza intensa” (27 novembre 1984). “Un dibattito pubblico sulla mia opera. Trecento interessati. Infiammato e pungente. Una domanda che non dimenticherò facilmente: ‘Is it true, Mr Fabre, that you have group sex with your company?”. Ho risposto senza riserve: ‘yes’ (Non avrebbe senso negarlo, anche se non fosse vero)” (28 novembre 1984; GN, I, pp. 221-222).

Maryam Najd, Dance the War Away, olio su tela, 227 x 157 cm, 2015, Anversa, Troubleyn/Jan Fabre Laboratorium, Troubleyn Office. Ph.: pp. 183 di Troubleyn Laboratorium Jan Fabre (edited by Sigrid Bousset, Katrien Bruyneel, Mark Geurden, Mercatorfonds 2016

Una scena di Il potere delle stoltezze teatrali (2013). Ph.: Wonge Bergmann

 

Quando rientriamo in teatro, constato che il principio della metamorfosi è quello a cui gli studenti sono meno abituati e che maggiormente li cambia, perché ogni giorno li vedo aspirare a una crescente naturalezza nel diventare qualcos’altro. Si insinua il principio performativo che improntava le prime riflessioni di Fabre su ciò che sarebbe poi stata la radicalità barocca da È teatro com’era da aspettarsi e da prevedere fino a Il potere delle stoltezze teatrali

“Il teatro ha bisogno della mentalità dell’arte della performance. Questa mentalità eroderà il confine tra illusione e realtà” (GN, I, p. 66, 5 agosto 1980); “La parvenza deve diventare vera (dal teatro alla performance). Il vero deve essere una necessità (dalla performance all’estasi)” (GN, I, p. 191, 18 febbraio 1984).

Willem Geefs, la statua di Rubens (bronzo, 1840-1843) su Groenplaats ad Anversa (alle spalle, la cattedrale)

 

Giorno 4. 23 maggio

Nel centro di Anversa, a Rubens e ad alcuni degli artisti che hanno collaborato con il suo studio (Jordaens, Van Dyck) sono dedicate statue pubbliche in bronzo. “Sul Groenplaats accanto alla statua di Rubens” la notte del 25 giugno 1998 Fabre ha “eseguito un’azione poetica” che nel GN (III, p. 240) racconta così: “Ero un cavaliere simile a Don Quichotte che ha preso d’assalto il lato destro del piedistallo. Mi sono fermato quando ero fisicamente esausto”. Ad Anversa nella coscienza civica gli artisti rappresentano una ragione di orgoglio; in Italia lo stesso orgoglio prende spesso pieghe nazionaliste che sfuggono di mano a chi oggi ci governa, senza proficue ricadute sulla formazione degli artisti, visivi e teatrali, che si formano nelle accademie italiane.

Di questo e dell’avanguardia che non esiste senza tradizione riparlo con Fabre e Joanna De Vos mentre, nell’atelier sede di Angelos (https://www.angelos.be/eng/about-jan-fabre), egli mi illustra sue opere di varie decadi, fino alle recentissime luminose sculture di corallo. Angelos è diretto e curato con passione da Joanna, con la quale entro in sintonia grazie ai comuni interessi professionali, progetti e momenti di vita paralleli. L’atelier è dislocato su tre livelli di un grande edificio che 15 anni fa Fabre ha riadattato come studio, showroom e archivio/deposito per i suoi modelli e prototipi. Lavora qui di notte alle sue sculture di corallo e alle sue opere di grande e piccolo formato con la BIC blu; Fabre mi mostra decine di altre realizzazioni, alcune eseguite in prezioso mosaico in collaborazione con esperti mosaicisti romani, altre che sono superfici cangianti ottenute con carapaci di scarabei gioiello, su formati più piccoli rispetto alle pale agostiniane che ho visto il giorno prima; alcune sculture sono dittici di due varietà di marmo (il pregiato nero del Belgio e lo statuario di Carrara) con iconografie che coniugano i piccoli volti mostruosi di Brueghel e Bosch alle teste dei pesci dalle sembianze umane pescati dalla zoologia. Al piano inferiore, in alcune fusioni delle sue statue in bronzo lucido realizzate con la fusione a cera persa, Fabre mi mostra alcuni dettagli tecnici con cui ha innovato l’antica tecnica con sue personali invenzioni. 

Oltre all’inventore della statua contemporanea forse più citata su Instagram, L’uomo che misura le nuvole, comincio a conoscere meglio un artista che padroneggia profondamente i materiali con i quali lavora, i loro effetti visivi in rapporto alla luce e all’anamorfosi espositiva e che finalizza tutto il tempo che vive al suo lavoro, come intuisco anche dal GN. Come per l’eccentrico e celeberrimo Apelle, Nulla dies sine linea, in qualunque modo la “linea” si estrinsechi, tra carta, marmo, bronzo e corpi.

Alla Masterclass gli studenti ripetono Eros e Thanatos. Fino a oggi Chambon e Charron hanno volutamente evitato di mostrare come eseguire gli esercizi. Adesso e una volta per tutte Chambon offre un assolo generoso, che va oltre la didascalicità che si potrebbe richiedere a un’artista che è anche insegnante. Scivola sull’acqua di cui è cosparso il palcoscenico come una farfalla satanica, togliendoci il fiato. Sarà più chiaro cosa significa lavorare per sottrazione e non per accumulazione enfatica. Per ragioni di privacy reciproca, non possiamo scattare fotografie né girare video durante le lezioni. Perciò rende solo in minima parte l’idea di ciò che abbiamo visto fare ad Annabelle una sequenza di Polaroid di Jorge Molder con la coreografia sul palcoscenico cosparso di olio in Quand l’homme principal est une femme.

Jorge Molder, Lisbet Gruwez in Quand l’homme principal est une femme (Bogotà, 26.2.2004). Da Jan Fabre. Le temps emprunté, catalogo della mostra, Actes du Sud, 2007. Fotografie di Mapplethorpe, Newton, Carl de Keyzer, Malou Swinnen, Marteen Vanden Abeele, Pierre Coulibeuf, Dirk Braeckman, Jorge Molder, Wonge Bergmann, Jeanne-Pierre Stoop

 

Giorno 5. 24 maggio 

Durante le 5 e ore e mezza di prova generale per la performance di Peak Mytikas prevista per domani, ho assistito alla regia nitidissima di un artista visivo e della sua drammaturga che sanno sempre esattamente qual è il quadro finale che ogni performer deve contribuire a creare sul palco, che (come un grande foglio di carta o un atelier di scultura con illuminazione zenitale) è lo spazio finale al quale Fabre approda dopo una serie meticolosa di progetti grafici. Ho visto, di nuovo, prendere forma in statue di carne i gisant, i pleurants, i gruppi delle tombe rinascimentali europee e dei marmi secenteschi di Bernini. Ho visto che anche la punta dell’alluce di una performer, o la distanza tra un braccio e il tronco di un collega durante una coreografia di danza, o la simmetria di un corpo di profilo posizionato al centro di un tavolo anatomico (che credo venga da una fascinazione lontana: “Sono rimasto per ore a fissare la riproduzione di un dipinto di Holbein il giovane: Il Cristo morto. […] Può essere un’idea per una performance?”. “Il morto: dal punto di vista della scultura è utilizzabile e neutrale. […]. Il morto, la scultura perfetta?”, scriveva nel GN, I, p. 212, il 21 e il 23 agosto 1984), sono parte fondamentale di una visione dello spazio performativo che fa filologia del proprio stesso progetto (tutto si vede pienamente meglio dall’alto, dalla postazione di regia di Fabre e Martens, ma importa che la scena corrisponda al progetto in ogni dettaglio).

Cédric Charron e Ivan Jozic in Peak Mytikas. Ph.: Silvia Varrani

 

Hans Holbein il giovane, Cristo nella tomba, 1521, olio su tavola, 200 x 30,5 cm, Kunstmuseum Basel

 

Ho visto chiedere la fedeltà assoluta al testo e il rispetto della pronuncia delle varie lingue del testo stesso, nonostante non si tratti di teatro di parola. Ho sentito suggerire: “No slow motions, it’s no teatrical”. Sento anche chiedere di ricordarsi di pulire le piante dei piedi prima di salire sui tavoli per alcune scene, nonostante il tempo tra una scena e l’altra sia minimo, come fa notare una performer (anche in questo caso, dalla platea le piante dei piedi si vedono solo da certe collocazioni e, il giorno dopo, noterò se c’è stato tempo, per alcuni, di dare corso all’indicazione). La ripetizione continua delle stesse scene e dei singoli gesti che le compongono coincidono spesso con elaborazioni delle iconografie degli esercizi, montate su coreografie molto lunghe e fisicamente ed emotivamente molto impegnative. Ormai so che la ripetizione induce stanchezza fisica, portando a una sorta di trance il performer e lo spettatore, che si trova di fronte a immagini in movimento ipnotiche, tanto che alla fine i tecnici di scena e io siamo coinvolti totalmente nel ritmo della prova integrale della rave dance finale, un virtuosismo che servirà domani per guadagnare il massimo possibile di applausi. 

Stasera, dopo avere studiato per più di vent’anni, visto dal vivo alcuni lavori di Fabre e dopo una settimana di Masterclass e queste prove, mi chiedo se il teatro post drammatico del Troubleyn è, di fatto, una delle ultime declinazioni superstiti del teatro di regia. 

 

Giorno 6. 25 maggio

Vado finalmente al Koninklijk Museum van de Schone Kunsten, riaperto da poco e che mi seduce anche per le proposte museografiche, che introducono dialoghi discreti e sensati con opere contemporanee all’interno delle sale che sono un susseguirsi di fiamminghi memorabili (non mi staccherei mai dal coro di angeli translucidi di Memling che vedo finalmente per la prima volta, né dalla Crocifissione di Antonello da Messina, né da certi Ensor, che sono tra le opere che più hanno toccato la performance di Fabre), di Rubens sontuosi (mi accoglie, restaurata a vista, la pala che era sull’altare maggiore della chiesa degli Agostiniani, dove ora c’è l’agnello mistico di scarabei gioiello di Fabre: https://kmska.be/nl/een-blik-op-de-tronende-madonna).

Antonello da Messina, Crocifissione, 1475, olio su tavola di tiglio, 59,7 x 42,5 cm, Anversa, Koninklijk Museum van de Schone Kunsten

Pietro Quadrino in Peak Mytikas. Ph.: Silvia Varrani

 

Tengo quasi mezz’ora per il pannello principale del Dittico di Melun del sommo Jean Fouquet che traduce la pittura francese e fiamminga col filtro dell’arte italiana: c’è una madre bellissima e sfacciata, con due seni marmorei e marmorea l’alta fronte depilata, che impersona la Vergine (al pittore venne richiesto di ritrarre Agnès Sorel, l’amante di Carlo VII morta nel 1450, probabilmente nell’aspetto che ebbe durante l’ostensione funebre). Maria impudica offre il latte a un Gesù che già gioca a prendere il potere, di marmo politissimo anche lui e lungo in maniera quasi innaturale (singolare coincidenza, penso, che questo quadro francese tutto bianco, rosso, blu e oro entri in svariate forme nella storia del teatro: su Fouquet nel 1977 aveva fatto la tesi di laurea all’Università di Firenze Sandro Lombardi, pubblicandola in volume nel 1983, quando era ormai già dentro i Magazzini Criminali).

Jean Fouquet, Madonna in trono col Bambino tra cherubini e serafini, 1452-1458, olio su tavola, 94,5 x 85,5 cm, Anversa, Koninklijk Museum van de Schone Kunsten

 

Alle 14:00 al Troubleyn cominciano le 8 ore corrispondenti a una giornata lavorativa di Peak Mytikas, con le performance di artisti che hanno età e corpi differenti, dai trenta agli oltre settanta anni di Anny Czupper (che invidio moltissimo quando mi racconta che ha potuto assistere a Dyonisus in ’69 quando era ventenne a New York), fino al volto intenso e ai riccioli rossi rubensiani della musicista e performer Alma Auer, che esegue con l’arpa le musiche da lei composte e recita e danza in molte scene (già nel 1989 Fabre aveva voluto nel quadro della sua scena una cantante per doti vocali e fisiche simili: “un tipo rubensiano, con una voce calda e possente”: GN, II, p. 212). Ricompare uno degli alter ego di Fabre, Prometeo (Prometheus Landschaft fu l’esito del “primo testo classico che cerco di riscrivere”: GN, II, p. 161, 15 giugno 1988) che ruba il fuoco per donarlo agli uomini, il titano che in alcune versioni del mito è anche il creatore delle arti visive, in una metafora fortissima del senso di ogni arte che implicitamente Fabre aveva espresso in un aforisma poetico il 19 gennaio 1998: “Trasmetto il fuoco che altri mi hanno dato” (GN, III, p. 224). Prometeo (un irresistibile Pietro Quadrino) appare ogni volta in una controscena mentre si trasforma in sé stesso cotonandosi i capelli, fermandoli con la lacca e specchiandosi a lume notturno come in un La Tour sgangherato; canta in italiano “Vieni piccola, accendi il mio fuoco” accompagnato dal coro danzante (Irene Urcioli e Matteo Franco; e che effetto comico fa la traduzione in italiano di Light my fire di Jim Morrison! I Doors sono la costante colonna sonora notturna del Fabre ventenne: cfr. per esempio GN, I, p. 125: “Ho disegnato tutta la notte. E ascoltato Weird Scene inside the Goldmine di Jim Morrison [The Doors]. Credo di aver consumato il disco”).

Prometeo ha commesso un reato, dunque parafrasa il Padrino: “I’ve got an offer not to be refused”. Come a lungo è stato nei teatri, Antigone è interpretata da un uomo, da una donna, poi di nuovo da un uomo; ugualmente uomo o donna è suo fratello Polinice (che vediamo sempre cadavere sopra o sotto un tavolo da dissezione anatomica e di profilo, come il Cristo di Holbein, come i gisants delle tombe europee cinquecentesche ai quali già Fabre ha dedicato attenzione per le sue statue in marmo di Carrara esposte alla mostra Gisants. Hommage à E. C. Crosby et K. Z. Lorenz, Parigi, Galerie Daniel Templon, 28 febbraio-20 aprile 2013). Edipo declama bendato due monologhi: uno, nel corpo tutto tendini e nella voce modulata di Gustav Koenigs, con le dita dei piedi rattrappite che alludono alla sua deformità; un altro bendato e con la bocca otturata, con una prova di resistenza di Matteo Franco che (non sembri fuori luogo) richiama il principio chiave di un teatro ben diverso da quello di Fabre (che fin da giovane si scagliava contro la “dittatura della parola” a favore di un teatro come “avvenimento fisico” perché “parlare è un’azione fisica, e questo la maggior parte degli attori se lo dimentica!”: GN, I, p. 38, 19 maggio 1979; “Non voglio vedere o sentire performer che parlano solo mediante la voce! L’intero corpo è il suono della voce. […] L’intero corpo è la bocca”: GN, II, p. 283, 12 marzo 1991). Il richiamo mnemonico per me, inaspettatamente, è al teatro tutto parola e luci di Giovanni Testori, per il quale tuttavia pure “la funzione del teatro (se davvero ne esiste una) sta alle radici dell’indicibilità” e la bocca ne è la sede principale, buco nero e ferita da cui vomitare parole rivelatorie e liquidi corporei anche quando non c’è modo fisico di parlare (ne ho scritto il 19 febbraio 2024: https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia-larte-e-il-gran-teatro-di-giovanni-testori/). Nel GN (III, p. 16, 13 marzo 1992) Fabre è chiaro sul fatto che sul palco “parlare è un’azione fisica che continua a vibrare in tutto il […] corpo”.

Matteo Franco in Peak Mytikas. Ph.: Silvia Varrani

 

Dioniso (Annabelle Chambon, una farfalla selvaggia), in scena dall’inizio, è gender fluid, può essere uomo e gravido, danzare sulle punte, costringere gli uomini e le donne a un’orgia solitaria collettiva, mangiare lentamente un grappolo di uva in una controscena.

Annabelle Chambon in Peak Mytikas. Ph.: Silvia Varrani

 

Nella rave dance finale, i performer avvolti nei mantelli da pleurants arrivano a una sorta di trance dionisiaca estatica (in cui Franco è trascinante e Chambon e Charron, forse il più grotowskiano della Compagnia, in sintonia reciproca perfetta come durante la Masterclass).

 

Giorno 6. Domenica 26

Atterro a Milano col mal fiammingo (per fortuna il trapasso non è traumatico perché vado subito in un altro teatro per le prove di un altro grande artista). Anche come docente che ha imparato da altri docenti e con loro si è confrontata, al Troubleyn è stato gratificante vedere alcuni giovani partecipanti alla Masterclass avvicinarsi alla statuaria barocca, alle chiese e ai musei generosi di Rubens, di scultura sacra e funebre e di primitivi fiamminghi, tanto profondamente rilevanti nell’immaginazione di Fabre e nella mia.

Per tutti si è inverato ciò che Fabre aveva scritto a quasi vent’anni: “Un artista è come un minatore. Scava sempre più a fondo e scopre nuove vene. Si va da una vena all’altra. E non c’è nessuna risposta definitiva, unica”. Era stato ipnotizzato per la prima volta da Joseph Beuys divorando un catalogo e pochi giorni dopo sarebbe andato a guadagnarsi da vivere come pittore pubblicitario (GN, I, p. 12, 2 marzo 1978), nel solco di esordi novecenteschi celebri, come quelli dell’olandese Willem de Kooning, poi padre nobile dell’Espressionismo astratto, e del tedesco Gerard Richter (autore della maggiore pittura politica del Novecento dopo Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, October 18, 1977, la serie di 15 tele sugli omicidi in carcere dei detenuti membri della RAF). Tanto topici erano stati questi esordi da pittori pubblicitari che si erano guadagnati l’omaggio del più giovane Mario Schifano che Ai pittori di insegne aveva dedicato uno dei suoi quadri concettuali più importanti degli anni Sessanta. 

In inaspettata sintonia, quattro anni dopo al Teatro Flaiano a Roma un altro artista, il poeta settantenne Giorgio Caproni, usò la metafora del minatore per definire il proprio mestiere: “Il poeta è un minatore: è poeta colui che riesce a calarsi a fondo in quelle che il grande Machado definiva “le segrete gallerie dell’anima. E lì, attingere quei nodi di luce che sotto gli strati superficiali, diversissimi tra individuo e individuo, sono comuni a tutti, anche se pochi ne hanno coscienza(proprio con questi versi inizia Fatalità della rima, il reading su Caproni di Fabrizio Gifuni, già primo interprete di una drammaturgia tratta dal GN II recitata alla presenza di Fabre al Forte Belvedere a Firenze il 16 settembre 2016). 

L’artista è colui che scava a qualunque profondità fino a mostrare i segreti da cui chi artista non è distoglie lo sguardo, o non sa descrivere; mentre scava, l’artista si imbatte nella violenza, nel potere, nella lussuria, nella compassione, nell’eleganza, nella poesia, e suo compito è mostrarne le inestricabili connessioni reciproche. Violenza, potere, lussuria, compassione, eleganza, poesia fanno parte dei corpora figurativi dei fiamminghi, dai Primitivi a Rubens a Fabre, che in Peak Mytikas mostra la poesia dell’amore sulle note di Satie, la compassione per i morti nelle storie di Edipo e dei suoi figli, ma anche l’orgia del potere, la violenza che si porta dietro e l’eleganza del piacere, che non per tutti coincide con la dolcezza e la reciprocità. Alla fine, scavando nella storia, nelle nuove vene e nelle gallerie segrete, un artista profondo rinviene ciò che fa parte della vita.

Gustav Koenigs e Irene Urcioli in Peak Mytikas. Ph.: Hanna Auer

 

Un artista è un minatore (reportage da una settimana al Troubleyn/Jan Fabre Laboratorium ad Anversa) – prima parte

 

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877)

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