Un capitolo tuttora aperto nell’agenda del governo e del parlamento è quello della nomina del nuovo Consiglio di amministrazione della Rai. Ma oltre alle difficoltà di trovare un accordo all’interno della maggioranza e anche con le opposizioni – il presidente dovrà essere votato in Commissione parlamentare di vigilanza con una maggioranza qualificata – la Rai dovrà adempiere alle diposizioni del “Freedom Act”, regolamento europeo che prevede che i servizi pubblici dei Paesi comunitari debbano diventare “indipendenti” a partire dall’agosto 2025. Così l’azienda si trova nella stessa posizione di Damocle che rinunciò al trono quando scoprì che sulla sua testa pendeva una spada appesa a un sottile crine di cavallo destinato a cedere in qualsiasi momento.
Fare in meno di un anno una riforma mai realizzata nei cento anni di vita dall’ente.
Ma se Damocle ebbe la saggezza di farsi da parte, ben più imprevedibile è l’atteggiamento della nostra classe politica – di qualsiasi tendenza, maggioranza e opposizione – di fronte a una scadenza che ci chiede di realizzare in pochi mesi una riforma che non è stata fatta nei cent’anni di vita della radio e nei settant’anni di televisione che stiamo celebrando. I provvedimenti degli anni ’70 hanno fatto fare all’azienda pubblica un significativo passo in avanti, con l’attuazione del pluralismo, che in termini deteriori è stato chiamato “lottizzazione”, allargando il campo di influenza a tutte le forze politiche. Ma non ha fatto passi in avanti in tema di “indipendenza” del servizio pubblico radiotelevisivo. Ha, diciamo così, ampliato il quadro delle “dipendenze”.
La differenza tra pluralismo e indipendenza è sostanziale e ce lo spiega oggi più che mai, a distanza di secoli, Lucio Anneo Seneca:
“Non può essere onesto ciò che non è libero: il timore è segno di schiavitù”.
Prendiamo il caso del personale, giornalistico, amministrativo, artistico, tecnico, ecc. Come avvengono le selezioni? Come si svolgono le progressioni di carriera? Sinceramente è tuttora più che mai valida la realistica affermazione di Bruno Vespa durante la prima repubblica: “L’editore di riferimento della Rai è la Democrazia Cristiana”. Basta avvicendare i nomi dei partiti via via egemoni. Ciascun dipendente mette in conto di agire più o meno compiacendo il proprio “editore di riferimento”, che è una entità esterna rispetto all’azienda. Questo sinceramente è un fatto inequivocabile che crea un diaframma tra la Rai e il tessuto sociale in cui opera, ingessandola e rendendola, per riprendere Seneca, “disonesta”. Le valide professionalità che popolano l’azienda sono “corrotte” nel senso etimologico del termine, dal timore di deludere le forze esterne che impropriamente la guidano e dall’attenzione a non incappare nelle critiche degli avversari. Cioè in una posizione non di libertà ma di timore.
L’”indipendenza” quindi non è una parola vuota o velleitaria, ma una dimensione che scende in tutti i gangli dell’azienda, essendo un dimensione della coscienza civile degli addetti ai lavori. Forse la citazione può parere eccessiva, ma ci riporta al richiamo evangelico: “A chi obbedisci, a Dio o a Mammona?”. In cui Dio sarebbe la nostra società civile e i dettami della nostra Costituzione.
L’equazione purtroppo è semplice e ci obbliga a una doverosa sincerità: così com’è Il servizio pubblico radiotelevisivo – in sé e nei suoi sviluppi verso una “media company” – si presenta inficiato da intenzioni distorte rispetto alla sua missione, nelle sue strutture, a partire dalla governance e purtroppo anche nelle coscienze degli addetti chiamati a realizzare il prodotto. Esso si presenta “vittima di diverse schiavitù”, direbbe Seneca, imposte dall’esterno o ricercate dall’interno, secondo la vecchia espressione “salire sul carro del vincitore”, Ciò non significa che non accolga anche professionalità di riconosciuto rilievo, ma c’è un tarlo che va rimosso e l’occasione è dato proprio dal Regolamento Europeo Freedom Act, approvato a Bruxelles a stragrande maggioranza.
A questo punto però occorre riflettere sulla parola “indipendenza”. Se il suo contrario “dipendenza” è di immediata comprensione, il suo profilo positivo è problematico. Dipendenza ci porta subito ad esempio al campo delle droghe e non vi è dubbio che sia una condizione da cui fuggire. Oppure al campo dell’organizzazione del lavoro dove la dipendenza da un capo è funzionale alla realizzazione di opere comuni che richiedono il contributo di molti che si assoggettano a un’autorità. E’ la stessa struttura sociale che esige posizioni di dipendenza. Così come esige anche organi e posizione di autonomia da parte di chi è chiamato a responsabilità di guida.
Dopo la Rai monopolistica dall’origine al dopoguerra e quella pluralistica e “lottizzata” degli anni ’70, oggi deve dimostrare la sua “Indipendenza”
Ma bisogna anche dire che la parola “indipendenza” in chiave positiva è di difficile definizione. Da una parte infatti ha un significato assoluto, inequivocabile, capace di far cambiare le cose da un giorno all’altro. Come nel caso dell’indipendenza degli Stati Uniti dall’Inghilterra nel 1776 o della Gran Bretagna rispetto all’Unione Europea dopo la Brexit. In molti altri casi però ha un valore più problematico e relativo, come nel caso di organi istituzionali che devono avere una loro autonomia in equilibrio con altre strutture pubbliche. E’ il caso ad esempio di due importanti organi come la Corte Suprema americana e la Corte Costituzionale italiana. Quell’organismo americano, i cui componenti sono di nomina presidenziale raggiunge la sua indipendenza sia attraverso le qualità morali dei suoi membri, sia anche attraverso lo sfalsamento delle nomine nel tempo che porta a un progressivo avvicendamento dei soggetti. Lo stesso vale per la nostra Corte Costituzionale, il cui giudici nominati in certa misura da Parlamento, Governo e Presidenza della Repubblica guadagnano il riconoscimento della loro indipendenza di giudizio come collegio proprio attraverso l’avvicendamento dei componenti nella prevista scadenza novennale.
Questa seconda accezione di “indipendenza” quindi non si prospetta come un valore assoluto immediatamente dimostrabile come quando si recide un rapporto, ma come un’indicazione tendenziale che obbliga a mediazioni molto delicate ai fini di raggiungere risultati apprezzabili e percepibili dalla pubblica opinione. E’ chiaro che il servizio pubblico radiotelevisivo che opera all’interno di un’architettura giuridica e sociale deve conseguire forme di indipendenza che siano frutto di mediazioni molto delicate e complesse.
Tuttavia dei paletti pregiudiziali ci sono. Quelli ad esempio di evitare di far coincidere i meccanismi di governance con le forme di rappresentanza previste per la costituzione degli organi parlamentari, come per tanto tempo si è creduto. E a maggior ragione bisogna slegare quei meccanismi dalla vita di partiti o sindacati. E così pure occorre oculatezza nel prospettare altre soluzioni di tipo corporativo, per quanto di alto livello, come il collegamento con la Conferenza dei Rettori universitari. Oppure del CNEL, sopravvissuto alla cancellazione prevista dalla riforma Renzi bocciata dal referendum.
Quindi su questo punto riguardante l’accezione operativa di “indipendenza” la discussione è più che mai aperta, ma è comunque necessitata dal fatto che occorre uscire dalla condizione opposta di “dipendenza” da cui è affetta l’attuale Rai. Una condizione che, riprendendo Seneca, si dovrebbe definire come “non onesta” o addirittura “corrotta” secondo l’ importante richiamo generale di Papa Francesco che pone questo peccato tra quelli non suscettibili di pentimento.
L’associazione “Articolo Quinto” ha proprio questa funzione, di indicare realisticamente l’insostenibilità della situazione attuale del sevizio pubblico radiotelevisivo, senza nel contempo non avere in tasca soluzioni alternative facilmente percorribili nell’immediato. E quindi aprire un grande dibattito civile alla ricerca di una Rai indipendente in una società complessa come quella che stiamo vivendo. Acquisendo anche la documentazione delle soluzioni adottate o in discussione negli altri Paesi europei chiamati a loro volta ad attuare questo Regolamento.
Giampiero Gamaleri – Sociologo, Massmediologo, già Consigliere di Amministrazione Rai