Ci sono le cose e ci sono le parole per dirle. Le cose sono che un giorno d’ottobre 1200 persone che non facevano niente di male sono state massacrate e 138 sono state rapite da un’azione organizzata da Hamas. Nei successivi 4 mesi, Israele ha reagito – con l’obiettivo dichiarato di sradicare Hamas – attaccando Gaza con bombe e carri armati e massacrando circa 30mila persone che non facevano niente di male.
Le parole usate per “dire” l’una e l’altra cosa sono rivelatrici.
Che la parola per definire quel che accadde il 7 ottobre sia “terrorismo” ci sono pochi dubbi. Eppure i dubbiosi non mancano.
Ma invece qual è la parola giusta per “dire” la reazione di Israele? “Terrorismo di Stato”, hanno sancito alcuni quasi subito, poi col passare delle settimane e con l’aumento spaventoso del numero di morti si è affermata un’altra parola, la parola: Genocidio. Superfluo spiegare il perché. Le vittime del genocidio si sarebbero fatte carnefici. Gli ebrei sarebbero i nuovi nazisti.
Genocidio è la parola perfetta, si presta anche a diventare capo d’accusa in un tribunale internazionale (e qui vedremo se la definizione reggerà giuridicamente).
Eppure il vocabolario fornisce altre parole altrettanto orrende: carneficina, massacro, persino sterminio che pure avrebbe evocato la Shoah ma con minore impatto. Si può dibattere se quello che sta accadendo a Gaza si possa definire tecnicamente genocidio, ma esattamente a chi importa la questione tecnica?
Invece la portata simbolica delle parole importa, arriva all’anima (o alla pancia, dipende dalle sensibilità) e muta i rapporti di forza.
La domanda banale è: perché l’ovvia possibilità di criticare Israele deve armarsi di parole che – nelle loro estreme conseguenze – tendono a relativizzare e svilire la ragione stessa per cui Israele è nato ed esiste? Ci sono quelli che lo fanno deliberatamente da sempre: per loro Israele non doveva nascere e non dovrebbe esistere.
Ci sono altri che non pensano questo, che sono solo inorriditi dalla strategia israeliana che sull’altare di un obiettivo tanto essenziale quanto complicato (se non impossibile) da raggiungere sta sacrificando decine di migliaia di persone innocenti. Un massacro, inutile girarci intorno. Eppure a chi pensa questo la parola “massacro” non basta, o dici genocidio o sei complice.
Le parole non sono solo “consequentia rerum” (a volte non lo sono affatto, Chomsky docet) ma sono sempre figlie del loro tempo. E oggi è un tempo in cui accusare di genocidio lo Stato nato per dare casa a un popolo vittima di genocidio è dicibile.
Le azioni di alcuni governi israeliani hanno avuto un ruolo nella creazione di questo “spirito del tempo”? Probabilmente sì. Ma tali da legittimare e giustificare l’indicibile in chi ha cultura e strumenti per capire che nella storia le “cose” sbagliate vengono sempre dopo “parole” sbagliate? Certamente no.
Oggi le “cose” da fermare sono la guerra a Gaza, il massacro dei palestinesi e i continui attacchi contro Israele. La “parola” per farlo non è Genocidio, quella serve ad altro.
Mimmo Torrisi – Giornalista