Un anno difficile, il 2023.
L’economia ha perso lo slancio preso dopo la pandemia, l’inflazione ha continuato a picchiare, le transizioni si sono dimostrate ben più complesse di come apparivano da lontano. E si è fatta cattiva la guerra, quella in Ucraina, che non ha subito rallentamenti, e quella, delle ultime settimane, in Medio Oriente, terribile e disumana. E non è arrivato quel dialogo sociale che forse, lo speravano in tanti, avrebbe potuto cambiare qualcosa.
A dimostrare che il sistema economico stava peggiorando, e anche molto, è bastata la preparazione della legge di bilancio con il governo di destra che si è dovuto arrendere a una crescita del Pil sotto l’1%. E con il passare dei mesi le previsioni si sono fatte sempre più fosche, alla fine il risultato è stato un +0,8%, cifra da prefisso telefonico, come hanno commentato un po’ tutti. Colpa della crisi energetica, che, innestata dalla guerra in Ucraina, non ha trovato sosta, ma anche dei dieci aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Bce, con un accanimento forse degno di miglior causa. Il sistema della produzione non ce l’ha fatta a reggere il ritmo dell’anno precedente ed è nuovamente caduto. Le previsioni sono tutte negative, un miglioramento non è alle porte.
Il potere di acquisto dei salari è calato e la manovra economica per il 2024 non ha potuto dare nulla ai lavoratori e in generale a chi sta peggio. Le relazioni industriali non sono state un aiuto in questa difficile realtà. La contrattazione nelle categorie dell’industria e nelle grandi imprese è sempre stata florida, ma costituisce ormai un fortino isolato, di più, isolato e assediato dall’esterno dal rinvio dei contratti, dai rinnovi che non arrivano, dalle retribuzioni sempre più basse. E la cancellazione del reddito di cittadinanza non ha aiutato. Era un grande spreco e in quanto tale andava eliminato, ha detto il governo.
Che ha negato anche la legge per un salario minimo. Una misura inutile, ha ancora detto il governo, che non risolverebbe il problema del lavoro povero. Ed è vero, ma avrebbe alleviato la situazione di chi guadagna meno di quei 9 euro l’ora indicati nella proposta di legge che le minoranze hanno presentato in Parlamento e che non è passata. In questo anno complicato ha perso terreno anche il sindacato, sempre più diviso.
Per il terzo autunno consecutivo Cgil e Uil hanno scioperato in segno di protesta contro la manovra economica, la Cisl si è fatta da parte. Una frattura grave, che però nessuno ha interesse a mettere in evidenza. La Cisl soprattutto, aiutata in questo anche dalla Cgil, ha preferito mettere l’accento sui motivi di unità piuttosto che su quelli divisivi.
E così tutte e tre le confederazioni hanno protestato contro la manovra, si sono divise formalmente solo sulla scelta degli strumenti adottati: le prime due a favore dello sciopero, la terza con una manifestazione di sabato. Ma la realtà è che l’unità, quella sostanziale, è solo un lontano ricordo e questo indebolisce tutto il movimento operaio.
Quello che è mancato in questo 2023 è stato soprattutto il dialogo sociale. Il governo di Giorgia Meloni è sostanzialmente contrario alla concertazione. La fugge perché non intende dare spazio e potere alle parti sociali, delle quali sostanzialmente non si fida. Ed è così che si spiegano le affollate riunioni a Palazzo Chigi, con una pletora di organizzazioni sindacali e datoriali, anche di poca rappresentatività, così tante che nessuno riesce a parlare o a ottenere una risposta.
Riunioni che comunque vengono fissate alla vigilia di decisioni già prese e non modificabili. Si tratta di comunicazioni, certo non di momenti di confronto. E le responsabilità, oltre che dell’esecutivo, sono anche della Cgil, poco interessata a grandi accordi triangolari come quelli passati, ma soprattutto della Confindustria, che in questo 2023 è praticamente uscita di scena. La confederazione degli industriali aveva già mostrato difficoltà negli anni trascorsi, ma l’arrivo al vertice di Carlo Bonomi, che aveva manifestato la volontà di riacquistare ruolo e prestigio, aveva fatto sperare in un ritorno ai fasti del passato.
È bastato poco, invero, per accorgersi che la situazione non solo non è migliorata, ma è sensibilmente peggiorata. La Confindustria è tornata in un cono d’ombra: nessun protagonismo nel confronto con il sindacato e, soprattutto, con il governo. Le speranze sono per la prossima presidenza, ma non è certo un buon preludio che, a pochi mesi dal cambio di vertice, non sia ancora partito un reale confronto interno per la scelta del successore.
Se il governo Meloni non ha dato sviluppo al dialogo e alla politica sociale, ha dimostrato invece di voler essere grande protagonista nel campo delle riforme istituzionali. I due progetti avviati, per l’autonomia differenziata e per la modifica dell’assetto costituzionale del paese, mostrano l’ambizione di una riscrittura generale delle fondamenta stesse della Repubblica. Un’impresa complessa, che la premier ha avviato con baldanza, e che porterà sicuramente a un referendum istituzionale, per lei molto rischioso. Il rifiuto di un dialogo con le parti sociali, abbinato alle oggettive difficoltà economiche, potrebbe alla lunga alienarle quel consenso diffuso che, in prove del genere, è indispensabile. Una partita difficile che rischia di dividere il paese ancor più di quanto non sia già diviso.
Massimo Mascini – Direttore del Diario Del Lavoro