Era prevedibile, è stato previsto e si è verificato; i precedenti lo confermano; la natura dei politici italiani lo rendono ineluttabile, il rinvio all’ultim’ora della legge elettorale. Sembra una maledizione, mentre è soltanto la prova provata che i partiti mirano al tornaconto anziché al necessario nell’interesse comune.
Una legge elettorale in vigore c’è. Dunque, tecnicamente parlando, non è indispensabile una legge integralmente nuova. Basterebbe emendare l’attuale per adeguarla all’elezione del Parlamento amputato, che vedrà la luce la primavera prossima, salvo imprevisti. L’esperienza delle ultime legislature dimostra che in Italia, sebbene sconsigliabili per troppi ovvi motivi, le nuove leggi elettorali vengono approvate proprio nell’ultimo anno dei lavori parlamentari.
La legge elettorale “dell’ultimo momento” passa solo se soddisfa non già le esigenze generali intrinseche al sistema politico ma l’interesse elettorale, immediato o atteso, dei partiti che l’approvano, i quali, nonostante i proclami di circostanza, agiscono in base ad intenzioni non dichiarate.
Perché in Italia il tramestio parlamentare sulla legge elettorale diventa convulso a ridosso del voto politico? Perché i partiti cercano in ogni modo di adattare la legge ai sondaggi. Detto altrimenti, considerano quali sistemi e varianti possano massimizzare in seggi i propri voti demoscopici e minimizzarne i voti altrui. Ciò sia in senso assoluto (quanti seggi) sia in senso relativo (quale coalizione).
Inoltre, per ciascun partito costituisce già una vittoria escogitare qualche marchingegno che ottenga ad altri partiti meno seggi di quelli potenziali. I partiti, mediante la legge elettorale approvata al limite della legislatura, tendono a preservarsi piuttosto che a preservare la rappresentatività e la governabilità. Essi non deliberano dietro “il velo dell’ignoranza” che impedirebbe loro di intravedere i risultati, parziali e complessivi. Ad occhi sbarrati, invece, scrutano i dettagli del procedimento elettorale affinché gli esiti sperati divengano possibili.
L’essenza della democrazia rappresentativa consiste nella sovranità popolare. Pertanto la legge elettorale è la massima espressione del rapporto tra popolo, sovranità, rappresentanza. Non è soltanto tecnica, ma spirito dell’istituzione rappresentativa per eccellenza. I metodi per eleggere il Parlamento sono innumerevoli.
La divisione di massima corre tra “proporzionale” e “maggioritario”. Già i nomi suggeriscono la differenza. Per conciliare effettivamente al meglio la libertà di scelta degli elettori, la necessità del governo, la rappresentatività del Parlamento, è impossibile negare che siano da preferire i collegi uninominali a doppio turno con la “variante Sartori”, mediante la quale al secondo turno accedono non soltanto i primi due candidati più votati ma anche il terzo, così da cumulare i vantaggi del collegio uninominale con l’ampliamento delle possibilità di scelta del candidato da eleggere, purché la candidabilità non venga lasciata soltanto ai partiti consolidati ma resti aperta ai cittadini che desiderino presentarsi, dimostrando un minimo consenso elettorale accertato.
L’amputazione dei deputati e dei senatori, conseguente all’improvvida modifica costituzionale voluta da coloro che la subiranno, ha reso indispensabile una legge elettorale che rimetta nelle mani degli elettori la selezione dei parlamentari e ponga fine al sistema definibile “oligarchia temperata dal voto”, qual è la democrazia italiana dove ai segretari di partito è riservato il potere fattuale di selezionare nominativamente i membri delle Camere.
Il ridotto numero dei parlamentari impone addirittura il rafforzamento (il ripristino, in verità!) del legame tra elettori ed eletti, se dobbiamo parlare seriamente di democrazia parlamentare conforme all’aureo “governo rappresentativo”. La “cooptazione” dei parlamentari da parte dei capi politici diverrebbe intollerabile, se venisse protratta nel nuovo Parlamento, che, proprio perché ridotto, impone un rapporto “fisico” tra elettore ed eletto per una decente rappresentatività, che contribuirebbe a colmare la mortificante separatezza tra elettori ed eletti che tutti biasimano, a parole.
Benché tale sia indubbiamente l’optimum per il sistema italiano, nelle Camere il vento sembra spirare in direzione opposta. Il “proporzionale”, ripudiato dai cittadini con plebiscito referendario agli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso, ritorna a galla nell’agonizzante Parlamento e non promette niente di buono, neppure in funzione delle dure sfide che devono fronteggiare il Governo e gli italiani, ai quali proditoriamente alcuni partiti cercano di sottrarre ancora una volta la libertà di scegliere, faccia a faccia, uno per uno, da chi farsi rappresentare.
Riemergono dai bassifondi partitocratici il metodo proporzionale, la soglia di sbarramento, le liste bloccate, et similia. La miscela di questi elementi, accarezzati da molti partiti in lotta per la sopravvivenza parlamentare, sarebbe deleteria viepiù per l’elezione del Parlamento amputato.
Infatti la soglia di sbarramento (la percentuale di voti per accedere al riparto dei seggi), introdotta con l’intenzione ma in verità sotto il pretesto di razionalizzare (sic!) e stabilizzare (sic!) le maggioranze governative, moltiplicherebbe l’effetto di schiacciamento della rappresentanza popolare già verificatosi a causa della riduzione del numero dei parlamentari, la quale rappresenta di per sé una sorta di clausola di sbarramento. E tutto ciò senza garantire affatto la genuinità del processo parlamentare, anzi accentuandone la degenerazione parlamentaristica.
Con la graduatoria prestabilita dei candidati, l’elettore sceglierebbe bensì la lista, non già chi eleggere, come un cliente che al ristorante potesse soltanto “prendere o lasciare” il menu. Sempre di nomina dall’alto, sempre di cooptazione, sempre di autoprotezione dell’élite partitica si tratta. Aggiungendo l’estrema difficoltà, anzi la fattuale impossibilità di presentare liste “allo stato nascente”, le conseguenze della delineata riforma elettorale saranno la blindatura delle formazioni esistenti e la preservazione dello status quo politico: un risultato che, comunque venga considerato, urta contro la democrazia rettamente intesa, nella quale la legge elettorale né favorisce né ostacola i cambiamenti dell’elettorato, cioè la sovranità popolare espressa dal voto.
Pietro Di Muccio de Quattro –Direttore emerito del Senato della Repubblica, Ph.D. dottrine e istituzioni politiche