Dal trionfo dello specialismo al dialogo tra le due culture

LE DUE CULTURE #5

Con l’articolo di Gabriella Sava, professoressa associata di Storia della scienza, prosegue il dibattito sulle due culture – umanistica, scientifica – dopo la pubblicazione dell’articolo del professor Mario Capasso “Cultura umanistica e sostenibilità. La cancel culture è un virus dello spirito“. Sono poi intervenuti il professor Carlo Alberto Augieri, Ordinario di Critica letteraria e Letterature comparate; il professor Carlo Doglioni, presidente dell’Istituto di geofisica e Vulcanologia, la dottoressa Daniela Carlà, Dirigente generale della Pubblica Amministrazione. Altri contributi, dall’uno e dall’altro “versante” delle due culture, seguiranno.

 

 

Nel corso del XIX secolo, quando si registrarono straordinari cambiamenti nel campo scientifico e tecnologico, sia a livello qualitativo, sia a livello quantitativo, si avviò anche un processo di specializzazione delle ricerche che sarebbe diventato irreversibile: i campi disciplinari si presentarono sempre più nettamente separati e le demarcazioni furono tanto differenziate negli obiettivi e nei metodi che s’incrinò la visione unitaria del sapere. Dunque entrò in crisi e, addirittura, fu superata l’immagine della scienza come impresa unitaria e prevalse l’idea della inevitabilità delle distinzioni, dovute all’affermarsi di specifiche metodologie di ricerca, a particolari criteri di spiegazione e di previsione, considerati peculiari di ciascun ambito scientifico. Va sottolineato che il processo di specializzazione non riguardò soltanto le demarcazioni istituite tra discipline diverse, ma varie segmentazioni si produssero anche all’interno di una stessa disciplina.

Con l’affermazione del positivismo, che coincise in gran parte con rilevanti progressi tecnologici e con gli sviluppi dell’industrializzazione in vari settori, da quello tessile a quello dei trasporti, da quello fisico e chimico a quello siderurgico, si era manifestata un’eccezionale fiducia nei confronti delle indagini scientifiche finalizzate ad offrire valide soluzioni ai problemi presenti nelle società del tempo. In altri termini, con il venir meno dell’interesse per le questioni di carattere generale, gli scienziati si occuparono di problemi specifici; si approfondì l’orientamento, già affiorato nel Settecento, quando alcuni illuministi avevano espresso la tendenza a separare lo studio della natura da quello dell’uomo, della storia e delle istituzioni sociali e politiche. 

Nel passaggio da un secolo all’altro, cominciò ad affievolirsi quel legame tra scienziati e filosofi, che gli illuministi avevano rinsaldato in nome del comune impegno contro i miti e i pregiudizi che, per troppo tempo, avevano rallentato l’affermazione di assetti culturali e sociali più liberi e razionali.

Con la scissione tra filosofia e scienza, realizzatasi in nome dello specialismo ottocentesco, entrò in crisi l’immagine dello scienziato che esprimeva interessi universali, come avevano fatto, per esempio, Laplace (1749-1827) e Gauss (1777-1855) anche nei primi decenni dell’Ottocento; la filosofia iniziò ad essere considerata una disciplina impegnata prevalentemente in sterili dibattiti su problemi poco rilevanti per la vita pratica, su questioni di principio generali e generiche.

Una convincente teorizzazione della separazione tra scienze della natura e scienze dello spirito fu proposta dal filosofo e storico Wilhelm Dilthey (1833-1911), fondatore dello storicismo tedesco, che pubblicò, nel 1883, Einleitung in die Geistswissenshaften (Introduzione alle Scienze dello spirito); l’obiettivo era quello di schierarsi contro l’assimilazione e la subordinazione del paradigma delle scienze umane e sociali a quello delle scienze naturali.

La demarcazione tra scienze della natura e scienze dello spirito, o scienze della cultura, riguardava non soltanto l’oggetto, ma anche lo scopo conoscitivo e i metodi; essa era basata sull’antitesi tra spiegazione, peculiare delle scienze naturali, e comprensione, propria delle scienze dello spirito.

Alle scienze della cultura veniva riconosciuto, quanto all’oggetto, il carattere fondamentalmente storico dei fenomeni di loro competenza. L’obiettivo della comprensione esprimeva l’esigenza della comprensione storica, dell’immedesimazione nelle condizioni di un particolare evento storico, con i valori, il senso e il fine da cui era contraddistinto. Dunque, in base all’antitesi tra spiegazione e comprensione, che rimandavano a due diversi modelli di scientificità, le scienze della natura risultavano separate dalle scienze umane e sociali.

Un’analoga antitesi fu posta dai maggiori esponenti della scuola neo-kantiana nota come “scuola di Baden”: Wilhelm Windelband (1848-1915) e il suo allievo Heinrich Rickert (1863-1936) introdussero la distinzione tra “scienze nomotetiche” e “scienze idiografiche”. 

La differenza era posta su basi esclusivamente metodologiche, in quanto per le scienze nomotetiche lo studio della realtà è in rapporto a un sistema di leggi generali che esprimono i rapporti causali tra i fenomeni; questi ultimi rappresentano semplici casi particolari di leggi generali, oggettive, universali. 

Le scienze idiografiche, al contrario, cercano spiegazioni di eventi considerati nella loro singolarità. Rickert, in Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft (1899) aggiunse che le scienze della cultura fanno riferimento non a leggi, ma a valori universali e al loro significato, in modo da cogliere un dato fenomeno per il senso e il fine per i quali si caratterizza. In altri termini, la comprensione, che non è un atto di intuizione immediata, viene a coincidere con la spiegazione di un avvenimento nella specificità del suo significato culturale.

Se la parcellizzazione dei saperi e la dicotomia tra le varie forme di scientificità può considerarsi come la cifra peculiare della riflessione ottocentesca, fin dagli inizi del Novecento si sono manifestate alcune proposte volte a riunificare le discipline scientifiche.

Contro gli eccessi dello specialismo scientifico prese decisamente posizione un illustre matematico e storico della scienza: Federigo Enriques (1871-1946). Egli, insieme ad Eugenio Rignano (1870-1930) fondò, nel 1907, la “Rivista di Scienza. Organo internazionale di sintesi scientifica”, poco dopo denominata “Scientia”, con l’obiettivo di avviare una rifondazione critica della scienza e dei suoi rapporti con la filosofia, proprio per superare i limiti della parcellizzazione delle conoscenze.

Nella Presentazione della rivista, Enriques descrisse così la situazione degli studi scientifici: “L’organamento attuale della produzione scientifica trae la propria fisionomia dal fatto che i rapporti reali vengono circoscritti entro discipline diverse, le quali ognora più si disgiungono secondo gli oggetti a secondo i metodi di ricerca. I resultati di codesto sviluppo analitico della scienza furono celebrati fino a ieri come incondizionato progresso, imperocché la tecnica differenziata e l’approfondita preparazione di coloro che coltivano un ordine di studi ben definito, recano in ogni campo del sapere acquisti importanti e sicuri. Ma a tali vantaggi si contrappongono altre esigenze che il particolarismo scientifico lascia insoddisfatte, ed alle quali si volge con maggiore intensità il pubblico contemporaneo”.  

La rivista, per raccordare in una visione unitaria le varie discipline scientifiche, sosteneva sia un’integrazione tra cultura umanistica e sapere scientifico, sia il ristabilimento dei nessi tra scienza e filosofia, che il positivismo, da una parte, e il neoidealismo, dall’altra, avevano sciolto. L’intento era quello di soddisfare due esigenze che si rendevano sempre più attuali:

1) superare i pericoli della specializzazione, entro la quale operavano gli studiosi delle varie discipline;

2) contribuire alla diffusione e all’approfondimento delle conoscenze scientifiche, colte nelle loro interrelazioni e inquadrate in un contesto più ampio.

Per superare le difficoltà del cosiddetto “particolarismo scientifico”, Enriques proponeva un “movimento nuovo di pensiero verso la sintesi, una Filosofia, libera da legami diretti coi sistemi tradizionali”, tendente quindi “a promuovere la coordinazione del lavoro, la critica dei metodi e delle teorie, e ad affermare un apprezzamento più largo dei problemi della scienza”. 

Per “particolarismo” doveva intendersi non solo la ricerca specialistica, incentrata su una serie limitata di argomenti, ma anche la delimitazione delle discipline secondo uno schema di classificazione che si pretendeva stabilito “naturalmente”. E, secondo questa prospettiva, la separazione tra scienza e filosofia si presentava come un caso particolare della classificazione delle scienze.

Con il concetto di “sintesi” s’insisteva sull’esigenza di costruire una moderna cultura scientifica: essa avrebbe trovato attuazione non solo nella forma di una collaborazione tra specialisti di diversi settori, ma anche di una “mediazione” tra ricerche settoriali e cultura scientifica generale; lo scopo era quello di orientare verso nuove prospettive di “filosofia scientifica” e verso analisi epistemologiche nelle quali fosse ribadito il nesso scienza-filosofia. Si trattava sostanzialmente di sostenere “la visione unitaria della scienza e il convincimento che essa non possa essere dissociata dalle ampie visioni teoriche e dalle grandi costruzioni concettuali, e che perciò sia una componente fondamentale della cultura”.

In vista di una rappresentazione “unificata” della realtà, Enriques guardò alle opportunità offerte dallo studio della storia del pensiero scientifico, nel quale gli elementi della razionalità scientifica sono congiunti con principi d’ordine filosofico e storico, di volta in volta posti a confronto e unitariamente considerati. 

Si aggiungeva, inoltre, la proposta di una “integrazione” delle conoscenze, da conseguire con un’auspicata riforma dei percorsi universitari. “Così avvenga – scriveva Enriques in La riforma dell’Università italiana (1908) – che i nostri studenti di Matematiche o di Scienze naturali allarghino la loro coltura collo studio della Letteratura italiana, o della Storia, o dell’Economia; che gli studenti di materie letterarie si coltivino nella Fisica o nella Biologia o nel Diritto, e che gli uni e gli altri attingano soprattutto una veduta sintetica del sapere a studi d’ordine filosofico”.

Pensare l’unità del sapere, come sostiene Enriques, è un’esigenza insopprimibile della mente umana, corrispondente alla profonda aspirazione a comprendere tutto il reale come un’unità. Secondo questa prospettiva, “qualunque aspetto della realtà, qualunque atto del pensiero con cui tendiamo a cogliere un certo ordine di fenomeni, tende a prolungarsi in un sistema che mira virtualmente a comprendere l’intero universo; e da questo estendersi illimitato ha origine appunto la lotta dei sistemi, e la loro progressiva unificazione”.

In una prospettiva di tipo unitario si mossero anche gli aderenti al Circolo di Vienna (Wiener Kreis) che, nel 1929, pubblicarono il loro “manifesto”, con il titolo La concezione scientifica del mondo. Il testo fu redatto dal matematico Hans Hahn (1879-1934), dall’economista e sociologo Otto Neurath (1882-1945), dal filosofo e logico Rudolf Carnap (1891-1970), tutti animati da condivise istanze epistemologiche e interessati ad un’analisi critica della scienza, che era oggetto di controversie, soprattutto in relazione al cosiddetto “scientismo positivistico”.

Hahn, Neurath e Carnap, che furono i massimi esponenti del neopositivismo, pur provenendo da diversi ambiti scientifici e pur seguendo indirizzi filosofici diversi, condividevano l’esigenza di proporre una concezione scientifica del mondo di tipo unitario, ma del tutto separata dalla metafisica e dalla teologia. Il Circolo era sorto con l’intento di sviluppare, in forma collaborativa, un orientamento di pensiero tendente verso l’unificazione della scienza e nel “manifesto” è dichiarato esplicitamente: “Suo intento è di collegare e coordinare le acquisizioni dei singoli ricercatori nei vari ambiti scientifici”. Il metodo per conseguire tale unificazione è quello dell’analisi logica da applicare al materiale empirico; il riferimento è alla moderna logica simbolica o logistica, che ha preso il posto della logica tradizionale aristotelico-scolastica, mostrandone l’assoluta insufficienza. 

La scienza unificata avrebbe rappresentato il moderno approccio gnoseologico basato sul lavoro collettivo, sull’intersoggettività, su un sistema globale dei concetti, su un simbolismo privo delle scorie delle lingue storiche. Anche l’attività filosofica avrebbe dovuto ispirarsi ai canoni del metodo scientifico e, a sua volta, perseguire la chiarezza, la sobrietà e il rigore insiti nell’ideale della scienza moderna.

La conoscenza scientifica, vista come il massimo grado del sapere, secondo gli aderenti al Circolo, è come un ipotetico sistema di simboli, correlato in maniera univoca con il mondo dei fatti; questa correlazione implica il criterio di verificabilità quale criterio di significato, ed esclude, perciò, le formulazioni metafisiche perché non sono né controllabili empiricamente, né suscettibili di convalida in termini rigorosamente logici. 

La prospettiva della scienza unificata, dopo l’emigrazione forzata dei neopositivisti europei verso gli Stati Uniti, per sottrarsi alle persecuzioni naziste, fu accentuata in relazione all’uso del linguaggio logico-matematico, garante dell’unità strutturale del sapere scientifico.

L’impresa della International Encyclopedia of Unified Science, avviata nel 1938 presso l’Università di Chicago, non ebbe, però seguito, ma la concezione unitaria delle ricerche scientifiche, basata sull’unità del metodo, non cessò di essere auspicata. 

Nel 1959, lo scienziato, studioso di fisica e scrittore inglese Sir Charles Percy Snow (1905-1980) riprese il tema della incomunicabilità tra i cultori delle scienze e i letterati o cultori delle humanities e pubblicò il celebre pamphlet intitolato The two cultures and the scientific revolution; si trattava del testo di una lezione tenuta all’Università di Cambridge che apparve dapprima nella rivista “Encounter”, poi come volume autonomo per Cambridge University Press. 

Il testo di Snow, tradotto e pubblicato in Italia nel 1964, presso l’editore Feltrinelli, fu arricchito dalla Prefazione del filosofo della scienza Ludovico Geymonat (1908-1991), il quale sottolineò che l’eccessiva e precoce specializzazione dei programmi scolastici era da ritenersi responsabile della perdita dell’orizzonte complessivo del sapere. Geymonat sostenne che la difficoltà del dialogo tra scienziati e umanisti era stata spinta al limite dell’incomunicabilità e che il problema delle due culture era rimasto un problema aperto. 

Permanevano, infatti, le diffidenze, la mancanza di comunicazione, il reciproco disinteresse, fino al limite del disprezzo. Come aveva testimoniato Snow, la fisica, la biologia e la matematica erano considerati saperi di secondo ordine per gli “umanisti”; dal loro punto di vista, gli scienziati erano portati a svalutare le varie forme di humanities. E come aveva dichiarato Snow, anche Geymonat pensava che la reciproca diffidenza tra le due culture e la mancanza di comunicazione tra scienziati e “umanisti” fossero uno dei grandi mali della società occidentale. 

Alcuni anni or sono, anche il fisico Carlo Bernardini (1930-2018) e il linguista Tullio De Mauro (1932-2017), autori del volume Contare e raccontare (Bari, Laterza, 2005), sono intervenuti sul problema delle due culture, valutandolo, in particolare, all’interno della tradizione culturale italiana, che aveva risentito delle vere e proprie separazioni già tracciate da Benedetto Croce (1866-1952). 

Croce, per sostenere l’importanza dello storicismo assoluto, aveva affermato che soltanto le menti profonde coltivano la filosofia e la storia, mentre gli “ingegni minuti” si occupano di aritmetica o di botanica. Questo pensiero, che aveva trovato espressione anche attraverso l’impianto del sistema scolastico nazionale, si era riverberato in numerosi dibattiti relativi allo specialismo, alla società chiusa degli specialisti, alle sottocomunità di esperti che minacciano, con il potere degli “apparati”, l’ideale della moderna società aperta che proprio la scienza aveva contribuito a realizzare. 

Pertanto, il superamento degli steccati disciplinari si è presentato, sia a Bernardini sia a De Mauro, come un’esigenza insopprimibile per una scienza che sia “cultura condivisa” e che apra la tradizione culturale alle innovazioni.

Pochi anni fa, lo psicologo Jerome Kagan (1929), pioniere della psicologia dello sviluppo,  in The Three Cultures: Natural Sciences, Social Sciences, and the Humanities in the 21st Century (2009; tr. it. 2013),ha sostenuto la necessità di delineare un triangolo per poter definire l’intero campo del sapere, inserendo, oltre ai lati delle scienze naturali e delle scienze umane, come terzo lato, quello delle scienze sociali, comprendenti l’antropologia, la sociologia, la scienza politica, l’economia e la psicologia.

L’obiettivo è stabilire un equilibrio tra i diversi campi della conoscenza, con la conseguenza di superare sia un’illusoria interdisciplinarità, sia la multidisciplinarità. Al di là delle specializzazioni e delle impostazioni professionalizzanti, Kagan sollecitava a formare giovani con un bagaglio culturale il più ampio possibile in relazione all’età; quanto ai “formatori” auspicava che svolgessero la loro funzione con prudenza, con il senso del limite e della fallibilità, con una preparazione e una riflessione profonda sui caratteri epistemologici delle varie discipline.  

In questa prospettiva, i presunti confini tra le diverse culture dovrebbero lasciare spazio alla “cultura unitaria”, fondata sul concetto di unicità del sapere umano, senza cesure o, peggio, censure che possano arrogarsi il diritto di stabilire gerarchie, di prescrivere “superiorità” di una “cultura alta” rispetto ad una “cultura bassa” o rispetto ad una “cultura marginale”. 

“Molti cittadini istruiti, scrive Kagan, cercano nella scienza una guida per la condotta della loro vita e per la legge, perché sono convinti che quello sia il posto migliore in cui guardare o che non ce ne siano altri”.

Il rivolgersi alla scienza, senza considerare le separazioni tra i vari settori, indica l’esigenza d’individuare un denominatore comune per stabilire un dialogo e una collaborazione tra le varie discipline; per cooperare nella soluzione di problemi e per superare eventuali crisi, il denominatore comune può rintracciarsi nella passione per la conoscenza: essa anima sia gli scienziati sia i cultori di humanities, al di là delle specializzazioni, degli oggetti e dei metodi specifici.

Ma la passione per la conoscenza può essere sufficiente a dare stabilità alle relazioni tra le diverse discipline? 

Nel caso di problemi che richiedano pareri, consulenze, decisioni che coinvolgano esperti nei due principali settori del sapere contemporaneo, per esempio per questioni ambientali, sanitarie, educative, come è possibile superare le fratture cognitive che hanno scomposto l’unità del reale in blocchi separati? 

Nella consapevolezza che non è la realtà, ma la mente di chi la studia, ad essere suddivisa in ambiti disciplinari diversi, come superare la frammentazione delle conoscenze?

Il sociologo Luciano Gallino (1927-2015) ha descritto il rapporto tra scienze naturali e scienze socio-umane in termini di una “incerta alleanza”, per sottolineare che non si tratta di una relazione definita una volta per tutte; dunque, senza nessuna pretesa di assolutizzare uno dei modelli di relazione tra scienze, l’alleanza, per quanto “incerta”, si realizza quando le scelte tra diversi modelli scientifici sono guidate da quel senso di ‘responsabilità cognitiva’ che dovrebbe animare gli esperti di entrambi i settori culturali. 

Per superare le fratture cognitive non si tratta di proporre un nostalgico e irrealizzabile regresso verso un passato caratterizzato da ruoli scientifici poco o per niente specializzati, senz’altro meno efficienti rispetto a quelli che hanno accompagnato lo sviluppo della scienza contemporanea, con la divisione del lavoro scientifico. 

Sarebbe necessaria, invece, una riorganizzazione degli studi che, come sostiene Gallino, dovrebbe riconoscere agli studenti “il diritto a tenere aperta la mente a tutte le possibilità di strutturazione, de-strutturazione e ri-strutturazione cognitiva prospettabili da una visitazione incrociata, diacronica e sincronica, della storia della scienza”.

In questa prospettiva, si può affidare alla storia della scienza il ruolo di “ponte cognitivo” che consenta i passaggi e gli scambi tra le due culture, in funzione degli obiettivi complessivi di conoscenza della realtà. 

 

Gabriella Sava – Professoressa associata di Storia della scienza, Università del Salento

 

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