Trentuno anni dopo la strage di Capaci, l’Associazione Nazionale Magistrati, in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la Corte di Cassazione, ha deciso di ricordare le tante vite spezzate nella lotta per la legalità, organizzando due importanti eventi che coinvolgeranno, insieme a magistrati e ad esponenti della società civile, scuole di tutto il territorio nazionale, allo scopo di avvicinare i giovani al mondo della giustizia.
Un evento unico nel suo genere. Vi parteciperanno 28 giovani magistrati da tutta Italia, che testimonieranno la propria esperienza quotidiana, insieme a 28 magistrati più esperti che narreranno la vita di altrettanti colleghi uccisi da mafie e terrorismo (tra loro autorevoli magistrati che sono stati protagonisti di quegli anni). Ma interverranno anche personaggi del mondo dello spettacolo e della società civile, mentre i ragazzi e le ragazze – precisa una notta ufficiale dell’Associazione Nazionale Magistrati- “illustreranno i loro elaborati e potranno partecipare ai laboratori formativi, coordinati anche da avvocati, su diversi argomenti, come le investigazioni scientifiche (con i Carabinieri del Ris), la ricerca di persone scomparse, la giustizia minorile, la violenza di genere, l’intelligenza artificiale, la ricerca del lavoro, l’immigrazione”.
Anna Maria Frustaci, la magistrata nemica delle mafie, una vita sotto scorta
Tra i magistrati più giovani d’Italia chiamati a raccontare la propria esperienza sul fronte della lotta al crimine ci sarà anche il Sostituto Procuratore della Repubblica di Catanzaro Anna Maria Frustaci, 45 anni non ancora fatti, elemento chiave del pool antimafia messo in piedi in Calabria dal procuratore Nicola Gratteri, una donna che da anni vive sotto scorta, probabilmente nel mirino delle cosche più agguerrite della ndrangheta, una donna al servizio dello Stato e che sull’altare della giustizia ha sacrificato tutta la sua vita privata e ogni dettaglio della sua carriera, una vera e propria icona della lotta alla Ndrangheta.
C’è un libro molto bello scritto da lei e pubblicato dalla Mondadori, “La ragazza che sognava sconfiggere la mafia” e che sabato scorso al Salone del libro di Torino ha fatto il pieno di pubblico e di critica. E in cui Annamaria Frustaci racconta di avere incontrato Giovani Falcone per la prima volta in televisione proprio il giorno in cui la mafia siciliana lo aveva fatto saltare per aria, immagini e spezzoni di riprese televisive che hanno poi convinto Annamaria Frustaci a diventare magistrato per sempre. Ma prima ancora di Giovanni Falcone la “ragazza che sognava di sconfiggere la mafia” era rimasta altrettanto affascinata dall’incontro avuto nel suo liceo di Catanzaro con il giudice Gherardo Colombo.
Nessuno forse lo sa, ma Annamaria Frustaci da ragazza sognava di fare la giornalista, e un giorno invece “incontra” la giustizia e se ne innamora così tanto da cambiare strada. Si iscrive a Giurisprudenza con un solo obiettivo, diventare un magistrato di questo Paese, perché è l’unico mestiere che da grande intende fare.
Oggi la sua vita è una vita blindata, sempre di corsa, in bilico tra un’auto di servizio e l’altra, le udienze in aula bunker e poi il silenzio del suo ufficio alla Procura della Repubblica di Catanzaro, eternamente controllata a vista dai suoi uomini di scorta, che l’adorano e che la trattano con la stessa dolcezza con cui tratterebbero le loro madri o le loro spose, merito del suo carattere sempre accogliente e disponibile, eternamente dolce e rispettosa di tutti.
“La ragazza che voleva sconfiggere la mafia” è un libro superbo. È un romanzo scritto con una leggerezza senza pari, dove si coglie con mano che in realtà l’autrice – lo racconta benissimo alla giornalista Paola Bottero che la ospita nel suo salotto televisivo ed esclusivo di Via Condotti- abbia finito per fare il magistrato per un caso fortuito della vita. A Paola Bottero, che la presenta al suo pubblico come una “vera donna della Repubblica” (io l’ho conosciuta grazie a questa sua intervista televisiva Annamaria Frustaci), spiega con grande charme femminile che in realtà lei da ragazza sognava di voler fare da grande solo la giornalista. Da ragazza sognava di poter scrivere per tutto il resto della sua vita. Sognava di poter girare il mondo a caccia di storie sempre nuove da raccontare, complice ancora una volta “questa donna meravigliosa che è stata mia madre”. Una madre davvero molto speciale, che con lei ha condiviso per anni il sogno di avere una figlia “inviato speciale” in giro per il mondo. E se Annamaria lo avesse fatto, oggi sarebbe di sicuro una scrittrice di grande successo, e una cronista da prima pagina del Corriere della Sera.
“La ragazza che voleva sconfiggere la mafia” è un libro dai toni forti. Pieno di rabbia, di amore, di illusioni, di speranza, di ricordi personali. Tenerissimo il riferimento al padre falegname che lavora più di dodici ore al giorno per mantenere la figlia agli studi all’Università di Pisa, e dolcissime le carezze che Annamaria dedica alla sua mamma, ai nonni, e al resto della sua famiglia, che d’estate si ritrova a casa dei nonni in campagna per una vita finalmente spensierata e diversa da quella a cui il paese ti costringe per tutto l’anno.
Commovente e quasi struggente, infine, la descrizione di Michi, il cucciolo che accompagna la storia, che Annamaria ha adottato e a cui poi rinuncia per amore della vita che va avanti, e che fa da contorno alla disgrazia finale capitata a Totò, il ragazzo più discolo e più difficile di Sant’Andrea-San Maurilio.
Di questo romanzo se ne potrebbe fare oggi un film. Gli ingredienti ci sono tutti. Un giorno, in un edificio abbandonato, Lara e Totò trovano un cagnolino bianco e morbido, che guaisce chiedendo aiuto, Lara lo recupera e se lo porta a casa. Ma è da qui che inizia la favola.Un romanzo delicatissimo, e strettamente personale.
Consigliere, posso chiederle quanti sacrifici oggi le comporta il mestiere del magistrato?
È un lavoro che richiede tempo, dedizione e tanta pazienza. Spesso anche la domenica, nelle festività o quando si è in ferie possono verificarsi dei fatti che impongono un intervento immediato. L’impegno del magistrato requirente e di tutta la squadra che lo supporta non dipende esclusivamente dall’efficiente organizzazione del lavoro, ma anche dall’imprevedibilità dei fatti e dai termini impellenti per il compimento di determinate attività. Chi fa questo lavoro – ma ciò vale anche per la segreteria del pubblico ministero e per gli ufficiali di polizia giudiziaria che lo coadiuvano – sa di dover rinunciare a dei momenti importanti, per sé e per i propri cari, se le esigenze d’ufficio lo richiedono. E poi bisogna condurre una vita riservata, lontana dalla mondanità: ciò dal momento che tutti i cittadini devono poter riporre la propria fiducia nella giustizia e contare sull’autorevolezza di chi è chiamato a valutare le loro istanze. Ma in questo aspetto sono facilitata dal fatto che non ho mai amato avere una vita mondana e frequentare posti affollati.
Immagino che lei non vada al cinema da molto tempo?
Da almeno cinque anni, ma al giorno d’oggi ci sono tante alternative per la visione di un bel film.
Ma il gioco vale davvero la candela?
Non sempre lo sforzo e l’impegno profuso sono compensati da risultati, ma questo è un lavoro che si fa per amore della giustizia, anche quando possono occorrere degli anni per fare luce su determinati fatti, o quando le ricerche possono dare esiti infruttuosi. Per coloro che hanno subìto un torto, o vivono dei problemi che li portano a rivolgere le proprie istanze alla magistratura, la sete di giustizia e di verità non si affievolisce con il trascorrere del tempo. Certamente, man mano che il tempo passa, può crescere in loro il senso di sfiducia, ma il bisogno di avere delle risposte non verrà mai meno. Ecco perché mi sento di dire che, quando si tratta di giustizia, il gioco varrà sempre la candela.
Le viene mai il dubbio di aver commesso come magistrato qualche errore?
Quando si svolge un lavoro come il mio non si è immuni dall’errore. Naturalmente mi riferisco ai casi in cui l’errore non dipenda da una superficialità del magistrato (poiché in questo caso potrebbero esserci anche implicazioni disciplinari), ma da situazioni in cui le acquisizioni investigative – in un primo momento solide – vengano superate o smentite dal fisiologico sviluppo di un’indagine o di un processo. In ogni caso, per formazione, per coscienza, ma soprattutto perché è un mio precipuo dovere, quando le risultanze istruttorie vengono contraddette dagli indagati che ne sono destinatari e, nel contraddittorio, sorgono in me dei dubbi, metto sotto la lente di ingrandimento il mio lavoro, per verificare la fondatezza di quanto viene affermato. In questo lavoro è fondamentale ascoltare ciò che hanno da dire i propri interlocutori e sottoporlo a verifica, senza alcun pregiudizio.
Se potesse tornare indietro cosa non rifarebbe?
Non ci sono cose che non rifarei, ma sicuramente, se tornassi indietro, alcune vicende le affronterei con una maturità, con un approccio e con un temperamento diverso”.
Impossibile -mi son detto dopo aver letto questo suo libro- che lo abbia scritto un magistrato di frontiera come oggi lo è Annamaria Frustaci, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, alle prese con un mastino come Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro, e che è il suo capo e la sua guida, e a cui lei dedica alla fine del libro un grazie molto speciale. Perché è un romanzo che ha uno charme tutto suo, lontano anni luce dalla narrazione corrente del mondo organizzato del crimine.
Un immenso grazie ai colleghi della procura di Catanzaro e al mio procuratore Nicola Gratteri, con i quali ho l’onore di svolgere questo bellissimo lavoro al servizio dei cittadini, condividendo ogni giorno la responsabilità e il peso di scelte delicate.
Quando lei dichiara “Avere paura non significa non avere coraggio” vuol dire determinazione ad andare avanti?
Ne sono fortemente convinta, perché solo chi ha sperimentato la paura, può trarre da questa esperienza la forza e la determinazione per andare avanti e per liberarsi dall’effetto limitante o paralizzante che questo sentimento porta con sè. Nelle piccole e grandi sfide della quotidianità, ci rendiamo conto di come provare paura diventi un’occasione di riflessione e di crescita spirituale per l’individuo, oltre a rappresentare il primo passo per trovare il coraggio di misurarci con le situazioni che ci spaventano e di affrontarle. Quindi la paura è certamente un buon termometro per misurare la nostra determinazione.
E quando dice di essere preoccupata per la vita dei suoi cari, non per la sua, a chi pensa?
Alla mia famiglia, alla persona che mi sta accanto, alle mie amicizie, insomma ai miei affetti più importanti.
Il romanzo di Annamaria Frustaci è costellato dalle figure straordinarie di giudici come Giovanni Falcone ePaolo Borsellino, magistrati vittime della mafia, era il 1992, e che occupano la parte centrale del suo romanzo.
«Sullo schermo scorrono immagini di una via di Palermo, che potrebbe essere uguale a tantissime altre strade, con le palazzine color ocra e i balconcini, se non fosse che un enorme pezzo d’asfalto è sollevato e ci sono ovunque macerie e detriti. Sembra l’immagine di un paese in guerra, un campo di battaglia, non una strada di Palermo in una domenica d’estate. Una bomba, un’altra. Il giornalista, dallo studio, con voce stanca fissa la telecamera. «Il giudice Paolo Borsellino è morto.» A Lara tremano le gambe, vorrebbe gridare ma non ha la forza di fare nulla. Dopo Falcone, anche Borsellino. Altro esplosivo, e la giustizia muore un’altra volta».
Poi nella sua vita irrompe Gherardo Colombo, che è il magistrato che Lara-Annamaria incontra un giorno al Galluppi di Catanzaro per una conferenza sulla giustizia e ne resta ammaliata, così tanto che alla fine decide di abbandonare per sempre il sogno di fare la giornalista per fare invece il giudice inquirente.
«Lara ascolta rapita, finché Gherardo Colombo racconta dell’incontro con Giovanni Falcone. E allora si fa ancora più attenta. Quando si sono conosciuti, il giudice siciliano non era ancora un nome noto come poi sarebbe diventato in seguito, ma già erano evidenti le sue grandi capacità, la determinazione di individuare nuovi metodi d’indagine. Dati bancari, ricevute di alberghi per dimostrare incontri avvenuti tra sospettati, persino bollette della luce, se necessario, per provare i fatti: strumenti d’indagine che poi, con gli anni, sono diventati la norma, ma che nessuno utilizzava per contrastare il fenomeno mafioso, prima di lui. Gli stessi metodi che poi Colombo metterà in pratica come pubblico ministero».
“La ragazza che voleva sconfiggere la mafia” è una storia di crescita e di riscatto sociale come poche, che Annamaria Frustaci butta giù di getto, con una passione nel racconto da emozionare e coinvolgere, quasi una favola, una favola senza tempo, ideale per spiegare ai ragazzi che di fronte alla mafia c’è sempre la possibilità di percorrere una strada diversa. E Annamaria tutto questo l’ha imparato quel giorno al Galluppi di Catanzaro sentendo Gherardo Colombo.
«Il magistrato parla di memoria, di doveri e diritti, della Costituzione. Parla di rispetto e dignità delle persone, dell’educazione a essere liberi, del sentirsi parte di una società, e i ragazzi ascoltano attenti. Le sue parole lentamente arrivano a Lara, risvegliandola. Gherardo Colombo racconta la propria esperienza, ma a Lara sembra che stia parlando di Totò e di San Maurilio. «La mafia è forte, ma noi lo siamo di più. Possiamo far vincere la giustizia con le nostre scelte e il nostro impegno. Non siamo condannati alla criminalità»
Lei probabilmente lo negherà, ma il giudice Annamaria Frustaci non poteva scrivere una autobiografia più bella di questa, che oggi la Mondadori presenta nelle librerie di tutta Italia. Questo è un romanzo da leggere, da distribuire nelle scuole, da regalare per le vacanze ai propri figli, perché vi assicuro ne resterebbero molto colpiti. Felicemente molto colpiti. Autobiografico o no- cosa importa? – ma ci sono passaggi di questo romanzo che sono degni da Premio Strega.
Consigliere, leggo nei suoi occhi un senso di fierezza per quello che fa, è sempre stato così?
Sono fiera di poter svolgere un lavoro che ho fortemente voluto e questo sentimento mi accompagna fin dal momento in cui ho assunto le funzioni di magistrato. Ma sono anche consapevole della delicatezza e dell’importanza di svolgere questa professione in un territorio, come quello calabrese, in cui la domanda di giustizia è molto alta e c’è bisogno di una presenza più forte e attenta dello Stato.
Consigliere, ha un giorno speciale della sua vita, da voler ricordare?
Come potrei non averlo. Il giorno della prova orale vennero con me a Roma ed aspettarono fuori dal Ministero della giustizia, in via Arenula, insieme ad alcuni tra i miei più cari amici che erano venuti su appositamente dalla Calabria. Ricordo ancora l’emozione nei loro occhi appena mi videro uscire dal Ministero e soprattutto ricordo la telefonata che feci loro, al rientro in Calabria, quando trovarono una mia lettera, lasciata sul tavolo del soggiorno, la mattina della partenza per la prova orale”.
Consigliere, non le chiedo di leggermela per intero, ma cosa c’era in quella lettera?
“Nella lettera ringraziavo la mia famiglia per il sostegno ricevuto, perché qualunque fosse stato l’esito di quella prova, la mia più grande vittoria era avere avuto dei genitori come loro.
Quando la descrivono come una “donna dello Stato”, si ritrova in questa immagine?
Mi piace di più pensare di essere una donna al servizio dello Stato e dei cittadini. Credo sia necessario, oggi più che mai, recuperare l’immagine di una funzione giudiziaria che non sia considerata come esercizio di potere, ma sia percepita come presidio legalità al servizio dei cittadini.
La ragazza che voleva sconfiggere la mafia” è un libro bellissimo.
Un libro che si legge in una notte, e tutto di un fiato. Ma dentro ci siamo tutti noi. C’è la nostra vita, i nostri paesi, le nostre realtà, i nostri rapporti personali, le nostre emozioni, la nostra infanzia, il nostro modo di intendere la vita con il mondo che ci circonda e che ci appartiene. Un libro che racconta in maniera magistrale e leggiadra la Calabria di sempre. Perché dentro queste pagine, c’è la Calabria che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella sua vita, e di cui poi si è anche perdutamente innamorato. Che non è una Calabria sempre bella o positiva, come si potrebbe a prima vista immaginare, ma è la Calabria della nostra vita, della nostra giovinezza, di noi ragazzi che crescevano nei paesi tutti insieme, appassionatamente tutti insieme, tra la piazza del paese, il circolo, la chiesa, l’oratorio, e dove eravamo davvero tutti uguali, e dove la linea di demarcazione tra ciò che era lecito e ciò che era l’esatto contrario collimava così perfettamente bene che era difficile, quasi impossibile, stabilire da che parte stesse uno o stesse l’altro.
C’era la mafia nei nostri paesi, così come c’è dovunque, così come la racconta sfacciatamente e in maniera sublime Annamaria Frustaci, ma noi come lei non la vivevamo come tale, perché in realtà c’eravamo dentro.
In un piccolo paese come Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, che è il paese natale della scrittrice, “San Maurilio” lo chiama così lei nel suo romanzo, o in paese poco più grande come lo era il mio per esempio, Sant’Onofrio, ai piedi di Vibo Valentia, si era davvero tutti figli della stessa mamma, della stessa religione, della stessa fede. Difficile separare le due cose. Difficile negare di non esserci dentro con il cuore e con lo spirito fino in fondo.
Questo romanzo mi ha riportato al mio passato, ai miei vecchi compagni di gioco di un tempo, alle mie processioni di Pasqua, l’Affruntata, all’incanto dei santi e della Madonna Addolorata, statue che puntualmente venivano “prese” e portate in spalla da ragazzi con cui io trascorrevo i miei pomeriggi di libertà dopo la scuola. Solo tanti anni dopo qualcuno ci ha poi spiegato che certe dinamiche della processione andavano lette in una chiave totalmente diversa da quelle che noi avevamo assorbito crescendo tutti insieme. E questo rapporto ambivalente, che Annamaria Frustaci racconta tra Lara e Totò, che sono i protagonisti del suo romanzo, è storia vera di centinaia di realtà e di paesi come il suo e come il mio. Come il nostro, o come il vostro.
«Giustizia: che bella parola! Eppure, è impronunciabile, in quel paese che dall’alto della collina scambia sguardi con il mare infinito della Calabria. Lara l’ha capito presto, tra gli ulivi del nonno, alle prese con i soprusi del vicino di casa, e sui banchi di scuola, dove a dettare legge sono Totò e i suoi amici». (Pino Nano).
Pino Nano – Già capo redattore centrale della Rai