Il fallimento della politica Zero covid in Cina. Lamperti (China Files): una serie di incognite sugli scenari del breve e medio periodo

Le proteste contro la politica Zero Covid del 26 e 27 novembre in Cina continueranno ad avere un forte eco nei prossimi anni. In tutto il paese le persone sono scese in piazza con in mano un cartoncino bianco in segno di lutto e di protesta contro la gestione della pandemia da parte del governo centrale. Sono tante le scene che hanno fatto il giro del mondo nell’ultima settimana: la polizia cinese con tute anti contagio che cerca di reprimere le proteste, i cartelloni portati nelle piazze delle città e l’esasperazione sui volti di chi chiede il ritorno alla normalità. Abbiamo parlato dell’attuale situazione in Cina con Lorenzo Lamperti, giornalista e direttore editoriale di China Files

La Cina ha posto per due anni delle restrizioni molto severe, ora come cambierà dopo il fallimento della politica Zero covid?

Lo stiamo già vedendo in questi giorni: ci sono parziali allentamenti alle restrizioni da parte del governo centrale. Prima Guangzhou, poi Pechino e tante città stanno operando allentamenti alle restrizioni. Al fianco di questo allentamento c’è anche uno shift narrativo molto importante, nel senso che sia sui media di stato che nei discorsi ufficiali del governo cinese si sta assistendo a un cambio di prospettiva.

Diversi media di stato hanno di recente pubblicato studi che riportano che le nuove mutazioni del virus sono meno letali e che le restrizioni possono essere rimosse con maggiore celerità rispetto al passato.  Questo non significa che Xi ritenga fallimentare o sbagliata la regola in sé della strategia Zero Covid: si agisce più sull’applicazione delle regole che non sulle regole stesse.

China's Xi Jinping Signals He'll Press On With Fight Against Corruption - Bloomberg

Xi Jinping

 

Queste restrizioni sono state applicate anche in chiave di controllo sociale in questi due anni?

Per due anni anche in Italia si è guardato alla Cina come un modello, poi chiaramente la cosa è cambiata dopo l’arrivo di Omicron che è una variazione molto più contagiosa e anche meno letale e quindi è chiaro che le restrizioni hanno perso un po’ di significato. I cinesi hanno iniziato a lamentarsi e a protestare non tanto e non solo per la durezza delle restrizioni ma soprattutto per la confusione, per l’inefficienza e una certa mancanza di una ragione nelle restrizioni. Fino a quel momento si percepiva il venir meno di diritti individuali per un benessere collettivo, poi da Shanghai in poi nello scorso aprile questo paradigma è cambiato e si è persa la ragione per le restrizioni stesse.

Tra i cartelli comparsi in piazza ce ne sono alcuni rivolti contro il Partito comunista e contro Xi, con l’accusa di tradimento ideologico…

Una piccola parte, sì. Ma la protesta nasce soprattutto contro le policies più che con la pretesa di arrivare a un cambio di regime. La protesta ha basi molto concrete: la gente si è stufata di vivere certe restrizioni soprattutto per le ripercussioni poi sul lato economico.  C’è già una classe di giovani che per la prima volta da quarant’anni pensa di stare peggio dei propri genitori, questa è una cosa nuova. Il patto sociale tra il Partito comunista cinese e il popolo si è sempre basato sulla rinuncia dei diritti politici in cambio della garanzia di benessere economico. Negli ultimi anni, causa pandemia, questo patto sta vacillando. Certo c’è anche chi ha protestato direttamente contro il Governo centrale e questa è una cosa inedita perché solitamente in passato il governo era sempre riuscito a “spostare” proteste verso i governi locali o altri capri espiatori. In questo caso non c’è riuscito perché la strategia zero covid è legata a doppio filo allo stesso Xi.

Tra i posti dove le proteste sono state pure più veementi c’è Urumqi: quanto ha impattato la politica zero covid su questa popolazione che vive nella Cina nord occidentale?

Le proteste ad Urumqi sono state la “scintilla” e sono partite dall’incendio che ha provocato dieci morti ma va detto che ci sono state anche altre proteste nei giorni e settimane precedenti, come quella di Guangzhou. Quello di Urumqi è uno dei tanti casi dove le restrizioni hanno probabilmente giocato un ruolo in delle tragedie. Resta il fatto che la politica ha impattato su tutta la popolazione cinese.

Tra le città che hanno maggiormente protestato c’è Shanghai, come mai?

Shanghai ci sembra più “turbolenta” anche perché noi occidentali abbiamo più connessioni con la città, Shanghai è la città più internazionale della Cina. Dall’altra parte c’è un maggiore sentimento identitario rispetto al resto della Cina, è una città che ha avuto la sensazione per lungo tempo di poter godere e parlare di certe libertà che altre città cinesi non potevano vedere. Quando lo scorso aprile c’è stato un lockdown durissimo e lunghissimo ha impattato in maniera drammatica e dura sulla visione che la città aveva prima di sé stessa.

Nel corso di questi due anni le restrizioni hanno avuto effetti importanti sull’economia e sul PIL…

L’economia cinese ha rallentato: il target del 5,5% fissato dal governo centrale del 2022 molto difficilmente sarà raggiunto. L’impatto è stato anche sulla disoccupazione soprattutto a livello giovanile: il 19% è un record negativo rispetto agli ultimi anni. Nei prossimi mesi ci saranno una marea di laureati che sostanzialmente non sapranno dove andarsi a trovare un lavoro e questo crea delle dinamiche complicate. C’è poi un impatto su chi deve investire come le imprese: ci sono anche tanti colossi digitali che hanno parzialmente delocalizzato la loro presenza dalla Cina a favore di altri Paesi asiatici come il Vietnam o l’India. È chiaro che la Cina è un mercato che non si può ignorare ma offre molte imprevedibilità anche per queste restrizioni, banalmente in questo momento non sai se la tua fabbrica può restare aperta o meno.

Alla fine di tutto questo, cosa resterà di queste manifestazioni e di queste proteste?

Difficile prevederlo. Nonostante un decennio di grande centralizzazione del potere da parte di Xi Jinping ci sono spazi che non riesce a controllare. Ricordiamo che dall’89 poi il partito ha giurato con tutto sé stesso che non avrebbe mai permesso proteste di massa. Non sono possibili paragoni tra quello che è successo di recente e il 1989, per dimensioni e per motivazioni, ma le proteste resteranno sia nella mente del Partito comunista cinese sia nella popolazione. Quanto avvenuto apre una serie di incognite sul modo in cui il partito dovrà governare nei prossimi anni.

 

Francesco FatoneGiornalista praticante

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