C’è sempre una certa inquietudine e un po’ di sconcerto nel guardare un panorama sgombro. Si provi a guardare un cielo diafano: lo sguardo vagherà alla ricerca di un appiglio, sino ad aggrapparsi a un brandello di nuvola. Discorso analogo si può fare quando si è posti davanti a un muro nudo: ci si soffermerà sulle sue imperfezioni, sui grumi della rasatura e della pittura. L’acme si raggiunge di fronte a un foglio bianco, dove l’angoscia si fa a tratti insostenibile.
Forse è per questa ragione che le prime esperienze di significazione umana si poggiano sui muri delle caverne, insopportabilmente spogli. Da bambino mi portarono a vedere – vivendo lì vicino – le incisioni rupestri della Val Camonica. Mi spiegarono che avevano i più svariati significati, dalla ritualità in senso lato alle indicazioni pragmatiche su caccia e morfologia dei dintorni. Ricordo che rimasi bambinescamente affascinato dalle forme così inconsuete di oggetti così familiari. Dovessi scommettere un penny, indicherei quello come momento in cui rimasi irrimediabilmente incagliato nella rete dei significati delle scritte sui muri.
Così, leggendo o camminando, vengo sempre attratto da esse. Vi porto qualche esempio.
Il pamphlet La morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia si apre con queste parole:
“Pacienza
Pane, e tempo”
Un incipit sommamente sciasciano, verrebbe da dire fratello del sentire compendiato nel titolo di un giornale di Racalmuto, suo paese d’origine: Malgrado tutto. Lo scrittore riporta così parole graffite sul muro di una cella di Palazzo Chiaramonte, noto Steri, sede del Sant’Uffizio palermitano dal 1600 (c’è chi riporta, come Sciascia, il 1605) al 1782. Pare che i lamenti, le invocazioni, le preghiere e le ironie dei reclusi si siano accumulate al punto tale da formare due – o più – strati. Molti di essi vennero raccolti dal Pitré, grande etnologo siciliano, nel volume Del Sant’Uffizio a Palermo e di un carcere di esso. Così quest’ultimo commentava le parole riportate sopra (il corsivo è mio):
“Tre cose purtroppo indispensabili per non disperarsi, per poter vivere e attendere; nelle quali non occorre cercare un significato meno che sincero di rassegnazione, poiché il pensiero di una rivincita o d’una vendetta col Tribunale sarebbe stato sogno di mente inferma. Pensieri simili saranno stati del tempo, ma non del luogo”.
Non so chi ha scritto quelle quattro parole allo Steri. Immagino un uomo intento a incidere qualcosa di puntuale, di quella esattezza che solamente una grafia addolorata è in grado di restituire, come quando calchi talmente forte con una matita su un foglio al punto da bucarlo.
Di tutt’altra foggia sono le scritte sui muri del carcere di Marassi a Genova. Sono delle burocratiche, impersonali, pigre lettere adesive. Un font ministeriale, un colore ministeriale.
Ne ho viste di due tipi, lungo un corridoio insolitamente largo e corto per un istituto penitenziario. Vorrebbero riportare il comma due e tre dell’articolo 27 della Costituzione.
Camminando dall’entrata verso la sezione, a sinistra si trova il comma due: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, a destra il tre: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Parole sante, direte. A ragione. La formulazione era stata però aggiornata: i non erano scomparsi; a sinistra: “L’imputato è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, a destra: “Le pene possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Incuriosito, ho chiesto all’agente una spiegazione, un modo di significare. Con voce timida e velata da un comprensibile imbarazzo, mi rispose: “I detenuti le staccano”.
Uscendo, ricordo di aver pensato a Sciascia, allo Steri e a quanto i detenuti del carcere di Marassi abbiano avuto una lucidità critica tagliente, come solo la rassegnazione può generare: a sinistra la condanna prima della sentenza definitiva; a destra pene disumane, si capisce, per rieducare.
Nei muri dei corridoi del carcere di Regina Coeli raramente si trovano scritte. Perlopiù sono incastonate delle Madonne: altari votivi, tavolette incise, santini come quelli delle feste di paese. A Regina Coeli, la Madonna vede ogni sezione: è posta a guardia della cosiddetta rotonda, l’elemento centrale del panopticon, da cui partono i raggi (e le varie sezioni).
A un’altra Maria – María Kodama – Jorge Luìs Borges dedicò Storia della notte, una sua raccolta di versi e qualche prosa. Lo fece a modo suo, indicando fatti, percezioni, aspirazioni, tradimenti della realtà. Leggendolo, mi colpì particolarmente un’immagine: dedico il libro a María Kodama anche “Por el Paraíso en un muro”. Per il paradiso su un muro.
A Regina Coeli ci sono stato più volte, e ogni volta sono rimasto affascinato dall’appropriatezza delle immagini sacre: perché i detenuti di Regina Coeli solo a loro possono appellarsi. Per loro, l’unica possibilità di rassegnarsi per avere la speranza di trovare un barlume di paradiso su un muro è la foto di un figlio o di una figlia, di una moglie o di una compagna. Delle volte, l’unico paradiso possibile è il calendario Max attaccato alla porta del bagno comune, con altri 5 detenuti nella stanza attigua. Durante una visita, mi sono quasi convinto che qualche detenuto l’abbia visto realmente il paradiso su un muro. Anche in questo caso ha assunto la forma di un foglio ministeriale abbinato a un nastro bianco e rosso, appeso alla porta della cella dirimpetto alla propria: l’ordinanza di sequestro della cella, firmata dal magistrato incaricato.
Eravamo nella sezione speciale riservata ai detenuti con problemi psichiatrici e in quella cella, il giorno prima, un detenuto si era impiccato.
Di salute mentale in carcere si tratta troppo poco.
Vorrei prenderla non dal lato consueto, dalla carenza o dall’assenza completa di professionisti, quanto dal lato sistemico. Da decenni abbiamo la piena consapevolezza di quanto la ripetizione ossessiva di gesti sia un sintomo di una patologia. Ecco, dobbiamo essere consapevoli di cosa significhi una giornata in un carcere. Vuol dire, in linea di massima, che la rassegnazione assume, coercitiva e violenta, la forma della ripetizione ossessiva dei gesti, delle parole, delle giornate. Chiudere il blindo, aprire il blindo. Scendere ai passeggi, salire dai passeggi. Andare avanti e andare indietro in sezione.
Mi è parso di scorgere – per così dire – in controluce, questo tema anche attraverso Julio Cortázar, tra i massimi scrittori argentini del secolo scorso, in una miscellanea di testi riassunti in Storie di cronopios e di famas. Il volume si apre con un capitolo insolito – qualora non si avesse confidenza con lo scrittore – Manuale di istruzioni, e al suo interno troviamo questa considerazione (i corsivi sono sempre miei):
“Come fa male negare un cucchiaino, negare una porta, negare tutto ciò che l’abitudine lecca fino a dargli una soddisfacente levigatezza. Tanto più semplice accettare la facile sollecitudine del cucchiaio, usarlo per girare il caffè. E non è che sia brutto che le cose si trovino ogni giorno di nuovo e siano sempre le stesse. […] Perché dovrebbe essere brutto?”
Mi permetto di essere d’accordo con il maestro: non ha alcunché di brutto il noto. Al contrario, sappiamo come la ritualità dell’esistente e del conosciuto sia un elemento ordinatore potentissimo. È pur vero che talvolta ci soverchia, sino a renderci non in grado di esercitarla, la negazione. Però in fondo lo sappiamo, talvolta lo desideriamo, abbiamo la percezione di poter esercitare una facoltà. Siamo consapevoli che esiste, anche inoptata, la possibilità di dire no, di negare la soddisfacente levigatezza.
Al contrario, noi costringiamo degli individui a vedersi privati di questa facoltà. In ogni istituto che ho visitato, i detenuti mi hanno ripetuto le medesime parole, in due versioni leggermente differenti: “Qui il tempo non passa mai” e “Qui non facciamo niente tutto il giorno”.
Non significano la stessa cosa, anche se sono vicine. Sappiamo che il tempo passa mentre si agisce, e non passa mentre si è fermi. Lo sappiamo sin troppo bene. E su questo tema, proviamo a leggere con gli occhiali di Cortázar. Immaginiamoci una vita costruita esclusivamente sull’accettazione del cucchiaino e della porta, ironicamente anche due dei principali oggetti a disposizione della vista di un detenuto. Tutto ciò che si fa è levigare, ripetere, imitare. La facoltà d’immaginare è stretta tra la rete del materasso di sopra, il muro e le schermature alle finestre. Le uniche cose che possono cambiare sono la cella o i compagni di cella. Le vie percorribili lentamente si restringono: la rassegnazione, il gas o la corda.
Iosif Brodskij, premio Nobel per la letteratura nel 1987, il carcere l’ha conosciuto, seppur non in maniera diretta come potrebbe credersi. Per un periodo ha lavorato in una fabbrica che con il carcere confinava, tanto da lanciare lettere ai detenuti all’aria. Probabilmente gliene parlò a lungo la sua maestra Anna Achmatova, che davanti al carcere delle Croci di Pietroburgo fece interminabili code, nell’attesa di strappare qualche informazione sul figlio Lev, vittima delle purghe staliniane.
L’ha conosciuto e l’ha capito, al punto da sublimarlo causticamente in una formula esatta, dove nulla manca e nulla in più è da aggiungere:
“[la prigione è] mancanza di spazio controbilanciata da eccesso di tempo. Ecco quello che veramente ti disturba, quello contro cui non puoi niente. Prigione vuol dire mancanza di alternative, ed è la telescopica prevedibilità del futuro a farti impazzire”.
Dallo Steri di Palermo alle Croci di Pietroburgo. Dalla Sicilia Seicentesca alla Russia sovietica. Dall’Inquisizione spagnola alle Purghe staliniane. Cambiano i tempi, i luoghi, il milieu. Ciò che non cambia è la condizione d’essere detenuto.
E non cambia specialmente su un aspetto: il peso del gesto. Sempre Brodskij, una volta esiliato dall’URSS e rifugiatosi negli USA, si ritrovò a ragionare molto su questo tema. Si accorse di una peculiarità di ciò che gli stava succedendo dentro. Di colpo la pressione tremenda che il regime imponeva a ogni suo cittadino era sparita. Senza questa cappa ha però iniziato a notare una ipertrofia galoppante del proprio io, che conduce a un solo luogo: la polemica generalizzata, la verbosità irredimibile. In metafora, ci dice: in Russia era come se la forza di gravità fosse decuplicata, ogni gesto e ogni parola costavano molta fatica. Ma avevano ripercussioni enormi. Nell’Occidente che ha imparato a conoscere, Brodskij si sente come sulla luna, dove puoi saltare, quasi volare senza fare alcuno sforzo. Ma proprio per questa ragione, ciò non significa nulla.
In Occidente c’è solamente un regime che ancora pone i suoi sottoposti a questo genere di peso gravitazionale: quello carcerario. I detenuti sanno che anche una singola azione comporta strascichi dagli esiti imprevedibili; se rispondi male all’agente di sezione, se litighi per una sigaretta con un compagno di cella, se tardi a rientrare dall’aria rischi un rapporto. Nell’immediato il rapporto non ha nessun effetto, ma ti può precludere un trasferimento, un avvicinamento alla famiglia, un permesso premio. Ovvero tutto ciò che rende il fardello della rassegnazione sopportabile, che dia un briciolo di speranza nella vita, che faccia intravedere un paradiso – magari malfatto, sicuramente opaco, ineluttabilmente faticoso – su un muro.
Vorrei dunque scegliere anche io le parole giuste e la giusta accuratezza per chiudere questo pezzo.
Mia nonna, quando ero bambino e tornavo dalle giornate di libertà tra campi di pallone e felci selvagge, mi costringeva sempre a pulire con dedizione e acribia un posto specifico, tra il malleolo e il calcagno. Lì si incrostava una polvere vischiosa e ostinata, che pareva combattere già sicura di vincere contro i miei saponi, cotoni, e perfino l’alcool denaturato che tanto mal sopportavo. Ma alla fine si arrendeva, riconoscendo la manifesta superiorità dell’olio di gomito di mia nonna.
Ecco, il carcere è lo sporco tra malleolo e calcagno della nostra società. Se non ce ne curiamo, continua a insudiciarsi. Ma basta un po’ – ammettiamocelo, un bel po’ – di olio di gomito, e la storia può essere un’altra.
Lorenzo Iorianni – Creatore insieme ad altri compagni radicali, la campagna Devi vedere. Si occupa di analisi dei dati e comunicazione politica. Passa il 17% del suo tempo a leggere.