Scrivere ( parlare) chiaro e farsi capire, è, dovrebbe essere, la divisa del giornalista. Ce lo ha spesso ricordato un indimenticabile maestro di giornalismo: Sergio Lepri. Ma scrivere o parlare chiaro e farsi capire riguarda solo i giornalisti o non anche a chiunque, per mestiere, per mandato, tocchi di parlare in pubblico?
Il discorso programmatico con cui il nuovo ministro della cultura Alessandro Giuli, farcito di paroloni, formule, slogan condito con un lessico aulico e classicheggiante, ha suscitato reazioni contrastanti, derisorie, anche presso chi – e questa è stata una sorpresa – per studi, consonanza di studi accademici, avrebbe potuto mostrare di capirlo. Ma ha prevalso forse più il pregiudizio invece del giudizio.
Ecco perché pubblichiamo, di seguito, due interventi, un articolo di Pietro Di Muccio e un corsivo di un giovane nutrito di buone letture che si firma Andrea Chenier, che rispecchiano i due tipi di reazione a cui il discorso di Giuli ha dato alimento.
Il lettore si farà un’idea propria. (m.n.)
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Giuli, un Eraclito al ministero della cultura?
Pietro Di Muccio de Quattro
Il laureando Alessandro Giuli, neoministro della cultura, ha esposto alle Commissioni riunite cultura della Camera e istruzione del Senato le linee programmatiche della sua azione. Da quando in Parlamento fanno le registrazioni video, i resoconti stenografici sono diventati meno urgenti (sic!).
Nel frattempo bisogna affidarsi ai giornali, che pochi sfogliano, oppure ai computer e cellulari degli interessati. Però leggere, e subito, il testo scritto è un’altra cosa. Perciò qui, come esempi, riprendo dei brani del discorso riportati da LaPresse e Corriere della Sera dell’8 ottobre 2024.
Il ministro Giuli “ha lasciato gli astanti attoniti con una relazione che lui stesso aveva anticipato sarebbe stata «un po’ teoretica»”. Tra l’altro ha detto: “La conoscenza è il proprio tempo appreso con il pensiero. Chi si appresta a immaginare un orientamento per l’azione culturale e nazionale non può che muovere dal prendere le misure di un mondo entrato nella dimensione compiuta della tecnica e delle sue accelerazioni… L’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della ipertecnologizzazione, e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia… Si tratta di pensare: Pitagora, Dante, Petrarca, Botticelli, Verdi, insieme con Leonardo da Vinci e Galilei, Torricelli, Volta, Fermi, Meucci e Marconi, e al di là della declamazione dei grandi nomi della cultura umanistica e scientifica italiana, è necessario rifarsi a questa concezione circolare e integrale del pensiero e della vita che costruisce lo specifico della cultura”.
Questi scampoli bastano a dimostrare che l’eloquio di Alessandro Giuli rende oscuro non solo ciò che intendesse dire nella circostanza, ma pure quale sia il suo pensiero operativo, impossibile da afferrare nelle fumisterie della sua esposizione da ministro. Giornalista di lungo corso per giunta, affetta rimasticature dottrinali, così qui appaiono, derivantegli forse dal corso accademico in filosofia che si accinge a perfezionare con il diploma di laurea. Ha parlato volutamente in maniera incomprensibile? Se sì, il ministro dà prova di notevole talento letterario, da coltivare con cura e dedizione, perché davvero originale.
Lo stile e l’identità
Lo stile espositivo dell’uomo politico, per di più ministro, ne costituisce il documento d’identità, sia del parlare che del fare come uomo pubblico. Cosa possiamo aspettarci da un ministro che, “deponendo” davanti alle Camere, appare affascinato dalle sue parole e impegnato in svolazzi verbali dove la cultura periclita nel vuoto di propositi indefiniti come l’iperuranio? La relazione del ministro non è stata “un po’ teoretica”, come egli si proponeva, bensì afflitta da una pretenziosa loquacità, da sfoggi intellettualistici fuori luogo e fuori scopo, considerando il posto e il fine.
Ciò nondimeno, il peccato capitale, che emerge dal discorso del ministro ai parlamentari, consiste nell’evidente compiacimento per l’espressione involuta, per il vocabolario astruso, per il periodare confuso, quasi che l’amor di sé nell’ascoltarsi facesse aggio sul dovere di farsi intendere dagli ascoltatori, molti dei quali, non tutti, davano segni d’insofferenza sotto la patina di una compunta attenzione.
Il peccato di “oscurità del linguaggio”, come mi piace chiamarlo, dipende dal vizio italico di aborrire la chiarezza, suprema virtù degli umani che vogliono e sanno dialogare davvero. Se ne avessi l’autorità, come ne ho l’ardire, ricorderei al ministro della cultura che il nostro Galilei, il quale insegnò al mondo il metodo scientifico, non riuscì ad insegnare ai connazionali il genuino linguaggio italiano, tant’è che ripeteva agli altri, come io oso ripetere ad un ministro nientemeno: “Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi.”
La chiarezza è stata il vanto e l’aspirazione dei grandi italiani soltanto, mentre i piccoli sono affogati nel buio dell’espressione scritta e orale. Niccolò Tommaseo, il magistrale cultore della nostra lingua, definisce il vocabolo “chiarezza” da par suo, alla maniera di Galilei: “Chiarezza dicesi quel giudizioso ordine d’idee, e quella scelta di parole proprie e loro natural collocamento, per cui le cose esposte sono chiaramente intese da chi ascolta o legge”.
No, non è Eraclito
Inoltre, pare che Catone il Censore dicesse “Rem tene, verba sequentur”: padroneggia l’argomento, le parole appropriate verranno. Ma se le parole sembrano pronunciate o scritte a caso, extra vaganti, sorge il dubbio che l’argomento sfugga e l’espressione smarrisca il filo nella sconnessione delle parole.
È vero che Eraclito, uno dei giganti della filosofia d’ogni tempo, venne soprannominato “l’oscuro” a causa del suo stile criptico, che tuttavia rifletteva un pensiero profondo. Ma l’oscurità eraclitea era la forma di una sostanza, del permanente e dell’essenziale, mentre l’oscurità d’oggi nel parlare e scrivere è la forma di un accidente, del contingente e del marginale, cioè della banalità che rende omaggio all’attualità con i termini di una neolingua, la quale fa correre all’intera società il pericolo mortale paventato da Confucio: “Quando le parole perdono significato, il popolo perde la libertà.” Figuriamoci quando intere frasi esprimono nulla e comunicano l’incomprensibile. Flatus vocis, più che altro.
Pietro Di Muccio de Quattro
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Giuli, chi lo difende
Andrea Chenier
A parte le distanze, da un’altra prospettiva, tocca difendere il ministro Giuli: non per l’aquila tatuata, ma per il sacrosanto diritto a un eloquio forbito. Sappiamo bene da dove arrivano le critiche, condotte con quell’arte tutta liberale (un enorme grazie a Pietrangelo Buttafuoco) che cestina il dissenso o nel secchione della criminalizzazione o in quello del dileggio.
Ah, questi radical chic… li conosco fin troppo bene. Sono riusciti a ridurre la sinistra a una ridotta: metà laboratorio d’esotismo, metà serbatoio di conformismo. Li vedi girare con la busta rossa della Feltrinelli in mano, pronti a lodare qualsiasi novità, a patto che venga dall’estero. Nei loro salotti, che immaginano come nuovi circoli degli Scipioni, si abbandonano a un’orgia di esotismi—un nuovo asianesimo, mi perdoneranno lorsignori—infarcendo il discorso di termini inglesi buttati a caso, peggio di Salvatore nel Nome della Rosa.
Quel che rimane di una rivoluzione
E poi, con solenne gravità, dicono ai figli: “Andate all’estero, imparate l’inglese”. Saper fare i conti, alla fine, è quello che rimane di una rivoluzione: meno lettere e filosofia, più economia e commercio. Di Gramsci, di Gentile, della grande tradizione umanistica, ormai per loro non resta che una risposta a un quiz d’ammissione per medicina o ingegneria spaziale. Odiano l’eloquio forbito di Giuli e Fusaro, non perché sia errato. No, non si pongono neanche il problema. Lo odiano perché non è funzionale alla produzione.
Sono loro, quelli che chiedono salari minimi e sovvenzioni di Stato, a incarnare la quinta colonna del capitalismo culturale. Sono loro che smantellano ogni forma di resistenza: religiosa, familiare, persino linguistica. Tutto, pur di lasciar spazio all’uomo che adorano: l’individuo a una dimensione, nomade, senza legami, capace solo di fare di conto e che ambisce a un edonismo vuoto e straccione.
Confondere Fedez con Gramsci
Perché, alla fine, tolti di mezzo Dio, patria e famiglia cosa rimane? Il nudo pagamento in contanti. È l’ultimo uomo di Nietzsche. E non si scandalizzino per la citazione: è fin troppo banale e non certo particolarmente colta. Questi che oggi si scandalizzano per i discorsi di Giuli sono gli stessi che hanno confuso Fedez, Ferragni e Elodie con i nuovi Gramsci, e il Gay Pride con la nuova Internazionale. Sono i tanti “like” che vagano sui social, che disprezzano ciò che va disprezzato e applaudono ciò che va applaudito. Trionfo della quantità. Le vecchie maschere del conformismo. Li trovi ovunque, tranne che dove dovrebbe essere un vero uomo di sinistra: in direzione ostinata e contraria.
Andrea Chenier