Controstoria dell’alpinismo

Un racconto di tutti i falsi in circolazione

L’inventore dell’alpinismo? Petrarca. Il primo a salire il Monte Bianco? Lo scienziato Horace-Bénédict de Saussure assieme al cercatore di cristalli Jaques Balmat. In cima al Gran Sasso? La storia parla di Orazio Delfico per la scalata da record della Vetta Orientale.

Vero? No. Tutto falso.

Soprattutto perché per dare ad altri i primati si sono tolti di mezzo i montanari dalla montagna mettendo in primo piano le élite intellettuali e urbane: a questi la vittoria, ai rozzi montanari, cercatori di cristalli, garzoni di conventi, cacciatori di camosci, al massimo l’abilitazione all’accompagnamento.

Petrarca non è stato il primo a salire i 1912 metri del Mont Ventoux in Provenza. Il suo accompagnatore, un montanaro cacciatore, (lo scrive il poeta narrando in una lettera l’ascensione del 24-26 aprile 1336) c’era già stato anni prima e non voleva ritornarci. Quasi sicuramente il primo a mettere piede nella cima fu – secondo lo storico svizzero Jacob Burkhardt – il filosofo francese Giovanni Buridano, tra il 1316 e 1334.

Prima di Orazio Delfico (nativo di Teramo, salitore il 30 luglio 1794 in compagnia dell’architetto-ingegnere Eugenio Michitelli e di un piccolo gruppo di montanari) nel Gran Sasso c’erano stati di sicuro – il 5 di agosto del 1573 – l’ingegnere militare Francesco De Marchi, bolognese, Francesco di Domenico e altri uomini di montagna. L’esploratore rinascimentale, allora aveva 69 anni, scrisse un accurato resoconto che include anche una delle prime, se non la prima, indagine speleologica intesa in senso scientifico. Vent’anni prima aveva esplorato il fondo del lago di Nemi con uno scafandro rudimentale per osservare le navi romane affondate. Ma quel resoconto del Gran Sasso venne però sopraffatto dalla successiva impresa, e narrazione, di Delfico.

Se andate a Chamonix troverete la statua in bronzo di Horace-Bénédict de Saussure (scienziato che aveva promesso un premio per i primi salitori, premio che ritirò solo Balmat) con Jaques Balmat: i “primi” a salire il monte Bianco (4811 metri) nell’estate del 1787. Solo discosta la statua del medico di Chamonix Michel-Gabriel Paccard che era invece salito per primo l’anno avanti, assieme al compagno Balmat. Paccard – per una serie molto complessa di motivi – fu praticamente espulso dal primato: mai menzionato in alcuna relazione nonostante fosse stata la sua tenacia a finanziare e proporre tutte le iniziative degli anni precedenti, che permisero la conoscenza del terreno e poi la salita. Colpa anche del giornalista ginevrino Marc Théodore Bourrit che con i suoi articoli e libri attribuì a Balmat tutto il merito dell’impresa; nonostante lo stesso Balmat, in una dichiarazione giurata pubblicata sulla Gazzetta di Losanna avesse riconosciuto il ruolo di Paccard. Bisognerà aspettare il ritrovamento del diario del barone A. Von Gersdorff agli inizi del Novecento e altri documenti perché il primato venga riconosciuto a Paccard. Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, per l’impresa del suddito Balmat, l’aveva autorizzato a farsi chiamare “Jacques Balmat detto le Mont Blanc”; regalandogli del denaro.

Le tre storie appena narrate non sono altro che alcune perle di una lunghissima collana che è stata confezionata da Andrea Zannini, veneziano, docente di storia all’Università di Udine, da tempo impegnato alla rilettura delle vicende che risalgono ai primordi della esperienza e documentazione alpinistica. Lo studioso – appassionato alla montagna, circa 200 vie salite, presidente della Commissione Nazionale Pubblicazioni del CAI; decine di saggi di ambito storico-alpinistico – ha pubblicato da poco “Controstoria dell’Alpinismo” (Laterza, 18€, 190 pagg.) dove racconta le storie di tutti i tanti “falsi” dell’alpinismo.

Documentando tutto fino ad annotare come, tre secoli prima che esplodessero le scalate nelle Alpi, lo svizzero Josias Simler (teologo e umanista, 1530-1576) nel De Alpibus commentarius – 1574, il primo libro che parla esclusivamente delle montagne – scrivesse accurate informazioni sull’uso i ramponi, alpenstock e corda. Sbalorditivo: chi lo sapeva? O cita le vicende del Mont Aiguille, nelle Alpi del Delfinato, la cui scalata venne ordinata dal re di Francia Carlo VIII ad Antonio de Ville nel 1492: prima ascensione effettuata con metodi artificiali, sullo stile degli assalti ai castelli, scale, corde e martelli. Anche se passò alla storia come “Mont Inaccessible”, altre fonti settecentesche contestano questo primato, ricordando che la vetta veniva raggiunta dai contadini della zona da più di due secoli.

Ugualmente accadde in Appennino. Come per le Alpi i primi a salire furono i cacciatori; oltre raccoglitori di cristalli, artigiani, garzoni di monasteri, notabili di villaggi e religiosi. L’esempio Del Gran Sasso già visto basta su tutti.

Il saggio finisce con l’accurata storia del presidente CAI Paolo Lioy che nel 1886 a Venezia, nella sede del prestigioso Istituto Veneto di Lettere ed Arti, elegge a “inventore dell’alpinismo” Francesco Petrarca. Perché? Il docente dell’università di Udine spiega che si trattava di una mossa che serviva a mitigare il ruolo tutt’affatto secondario che l’Italia aveva avuto nella storia dell’alpinismo, nonostante la gran parte dell’arco alpino ricadesse nel territorio del neonato Stato unitario.

Non erano stati “italiani” (sebbene sudditi dei monarchi Savoia) i conquistatori del Monte Bianco; l’Italia era stata assente nella conquista dei “quattromila”; agli alpinisti nostrani era sfuggito anche il problema alpinistico nel quale il gruppo fondatore del CAI aveva investito tutte le proprie energie con chiaro significato identitario nazionale, cioè il Cervino”. Anche il Monviso era stato scalato per primo da una cordata anglo-francese; e sul Rosa erano arrivati per primi un prete (Ghifetti) e un italiano col cognome tedesco (Zumstein)”.

L’invenzione della prima ascensione petrarchesca di Lioy si scontra anche con l’articolo che Giosuè Carducci – nel supplemento domenicale del “Secolo”, il giornale più importante del tempo – aveva dedito pochi anni prima a Petrarca. Il Nobel per la letteratura non parla minimamente di primati, descrive l’umanista come ”scalatore del quattordicesimo secolo” e invita italiani e francesi a dar vita ad un’edizione critica delle sue opere.

“L’alta montagna – si legge nel bel libro di Zannini -, le vette, erano fatti per spiriti elevati, per persone di qualità culturale superiore: ”aquile del pensiero” le definiva Lioy. Essi, concludeva Lioy erano volati lassù dove ogni misera vanità e ogni volgare sentimento appariscono abbietti, [dove] s’intravedono aurore di altri tempi più generosi, di ideali più puri, di vite meno imbelli. Non ci sarebbe stato alcun scrupolo – è l’amara conclusione dello storico – , di lì a qualche anno, a mandare quelle “vite imbelli”, che da secoli erano abituate a vivere nelle montagne e a salirle, in centinaia di migliaia a morire su di esse”.

Questo è anche l’anno nel quale si celebrerà il 70/mo anniversario della “vittoria” italiana sul K2, 8611 metri, seconda montagna più alta al mondo, “la montagna degli italiani” . Anche per tale motivo non è indifferente che proprio il CAI abbia sponsorizzato le ricerche di Zannini. Quello stesso CAI che ha impiegato più di 40 anni a riconoscere ufficialmente il ruolo del giovanissimo Walter Bonatti, 24 anni, nella spedizione italiana che vide in cima per la prima volta sulla vetta del Karakorum Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Bonatti portò le bombole di ossigeno ai due compagni che il giorno dopo salirono in vetta, mentre lui fu costretto a bivaccare a 8.100 metri rischiando la vita. Il capo della spedizione di allora, Ardito Desio aveva continuato a negare (e con lui tutti gli altri) fino all’ultimo quella realtà, come un comandante militare. Rimettere ordine adesso alla falsa invenzione del primato di Petrarca, come fatta verità sul K2, è segno di civiltà.

 

Adriano FavaroGiornalista

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