Come il Conte di Cavour faceva e insegnava a fare

In un suo discorso un illuminante, e quanto mai attuale, richiamo all’importanza delle scuole tecniche

Il 27 maggio 1861 Cavour parlò alla Camera contro il protezionismo. Tenne l’ultimo discorso di ampia portata. Due giorni dopo sarebbe stato colpito dalla grave crisi che lo portò alla morte il 6 giugno 1861.

I discorsi dell’artefice dell’unità d’Italia sono molto più di lezioni accademiche sulla politica, l’economia, la storia. La scienza e la sapienza vi sono cementate dall’esperienza personale e dalla realtà sociale. Incidentalmente rilevo che da quel discorso parlamentare i tetragoni avversari della cosiddetta “globalizzazione” potrebbero ricavare molti argomenti contro le loro convinzioni, se fossero intelligenti in buona fede anziché fanatici protezionisti, nazionalisti alla moda, eppure autolesionisti vivendo in un Paese nel quale lo stile di vita è appoggiato principalmente sulle esportazioni. Qui desidero riportarne il brano conclusivo, che sembra scritto per l’oggi, anche per il monito che contiene.

“Finalmente io credo che per favorire l’industria si conviene di favorire l’istruzione professionale non solo nelle alte, ma nelle basse sfere degli operai. Noi difettiamo ancora di buoni capimastri nelle nostre fabbriche; s’incontrano assai difficoltà onde procacciarsi dei meccanici ingegneri, quelli che gl’Inglesi dicono ‘engineers’, che sono meccanici un po’ distinti, e per avere questa classe di capimastri artieri è necessario che vi siano alcune scuole tecniche, dove gli operai, non quelli vestiti di panno fino, ma i veri operai che hanno un ingegno naturale acquistino quelle cognizioni che sono necessarie per diventare buoni capi d’arte, buoni capimastri.”

Non sentiamo forse denunciare quanta domanda di lavoro specializzato resti insoddisfatta? Ogni giorno non ascoltiamo forse gl’imprenditori cercare i “meccanici distinti” e i “buoni capimastri” dei quali già Cavour lamentava la mancanza? E quante lacrime di coccodrillo sono state versate sulla sostanziale disincentivazione e mortificazione dell’istruzione tecnico-professionale, che invece andrebbe impartita da qualificati istituti pubblici ad hoc?

Perfino la politica inizia a capire che la stagnazione economica, indotta dalla scarsa produttività del sistema in generale e dalle limitazioni di vario genere imposte alla concorrenza, dipenda pure dalla inadeguata qualità dell’offerta di lavoro. I bassi salari, da anni pressoché allo stesso livello di potere reale, sono causa ed effetto anche del fenomeno rilevato da Cavour. L’esperienza degli uffici di collocamento, pure se li ribattezzi “centri per l’impiego”, resta fallimentare perché, burocrazia a parte, non offrono ciò che il mercato del lavoro cerca.

Su tutto questo grava la diminuzione della popolazione per denatalità, l’inverno demografico, che comporta la riduzione dei giovani impiegabili mentre espatriano i più qualificati nei diversi campi. La complessiva situazione, effettivamente risultante, spiega molte cose della impercettibile crescita del prodotto interno lordo, anche se non vogliamo chiamarla declino.

Resta che la verità di Cavour è inoppugnabile: senza il generale potenziamento delle capacità e delle abilità nel lavoro pratico quanto della pratica di lavoro come insegnamento tecnico-manuale, l’Italia non solo perderà le basi attuali dell’industria manifatturiera di avanguardia, sua eccellenza mondiale, ma disseccherà anche le radici dell’auspicabile sviluppo di nuove e differenti settori dove riuscire ad eccellere. Pure l’intelligenza artificiale e i robot meccanici, che dovrebbero sostituire gran parte della manodopera, hanno bisogno dei cavouriani engineers.

 

Pietro Di Muccio de Quattro

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