Centri storici, da Milano a Lecce: devastare, riqualificare. Sono sinonimi o contrari?

Una storica dell’arte esamina con le armi della filologia due casi esemplari di devastazione e cancellazione del passato in nome di una presunta riqualificazione.

Milano, 1960. Sulle terrazze del Duomo Luchino Visconti riprende due giovani innamorati che si dicono addio davanti a gruppi di estranei che li osservano: sono Rocco Parondi, un pugile lucano tumefatto e bellissimo che somiglia ad Alain Delon, e Nadia, una prostituta di Cremona che per amor suo ha smesso la vita, ma che ora è obbligata dalla separazione forzata a tornare con Simone, il fratello fallito e violento di Rocco. 

Milano, 16 novembre 1989. Federico Zeri, che all’epoca è il conoscitore e storico dell’arte italiano vivente più mediatico anche all’estero, tiene all’Università commerciale “Luigi Bocconi” la prima di una serie di lezioni di storia dell’arte. Illustra il concetto di “devastazione” dei centri urbani in Italia, scegliendo un esempio avvenuto nella città che lo ospita: la sorte toccata al Duomo di Milano.

“La scelleratezza che ha progressivamente trasformato spazi identitari come le chiese adibite al culto in attrazioni turistiche ha causato la devastazione delle città italiane, poiché ha isolato il cosiddetto capolavoro architettonico a scapito di quello che è il tessuto connettivo. Così abbiamo avuto devastazioni spaventose; ve ne indico una: il Duomo di Milano. Come tutte quante le cattedrali gotiche e come in genere tutte le opere architettoniche medievali, il Duomo di Milano è un edificio grandioso, elaboratissimo […] che […] viveva in origine nel rapporto proporzionale fra se stesso e il tessuto urbano circostante. Il Duomo veniva visto da vicino; l’accostarsi a questa cattedrale, fra l’altro, era possibile percorrendo una strada trasversale che sboccava in una piccola piazza. Entrando in questa piazza, il Duomo appariva come un miracolo di grandiosità, di potenza: una specie di gigantesco simbolo sacro. In gran parte ha perso questo suo potenziale con l’apertura della piazza del Duomo, per costruire la quale sono state demolite tutte le case sorte nei secoli (Federico Zeri, Cos’è un falso e altre conversazioni sull’arte, pp. 23-24)”.

Milano, marzo 2021. Chiara Ferragni (che ha frequentato la Bocconi per qualche anno) con le sue sorelle raggiunge sulle terrazze del Duomo la mamma, Marina Di Guardo: c’è la peste, meglio incontrarsi all’aperto, e poi le passeggiate familiari sotto la Madonnina sono legate a gioiose memorie infantili. In cima al Duomo, Chiara scherza: “Come mai non hai organizzato un aperitivo, mamma?”. Marina sta al gioco: “No, l’aperitivo purtroppo non l’ho organizzato!”; poi aggiunge, seria: “Mi ricordo che quand’ero piccola vedevo il Duomo come qualcosa di magico” (il Duomo di Milano è lo sfondo scenografico pop di vari momenti della serie The Ferragnez; qui cito dall’Episodio 7. Vittoria). 

Pur se immerse nella banalità da docufiction ultrapatinata, stavolta le Ferragni escono dai luoghi comuni: perfino per la più celebre imprenditrice digitale del lusso esiste un posto dove si è esentati dagli aperitivi, dagli acquisti e dai consumi per trascorrere del tempo in compagnia, e questo posto è la terrazza della cattedrale della città che ha accolto tre generazioni della famiglia (Di Guardo è siciliana emigrata a Cremona, dove sono nate le tre figlie).

Le battute di The Ferragnez ricordano anche un’altra cosa: prima che i residenti, i visitatori, i fedeli e i turisti dovessero farsi strada tra banani e palme per raggiungerlo (come succede dal 2017 in virtù di un accordo del Comune con un colosso commerciale del caffè, con il benestare della Soprintendenza), il Duomo poteva avere ancora un effetto magico, incombendo sulla piazza nelle prime ore del mattino o a tarda sera; per sentirsi parte della città anche guardandola dall’alto si poteva entrarci dentro, salirci sopra.

Alain Delon e Annie Girardot sulle terrazze del duomo di Milano in Rocco e i suoi fratelli. Regia: Luchino Visconti. Produzione: Titanus, Films Marceau, Paris, Fotografia: Giuseppe Rotunno (Italia-Francia, 1960).

 

Ma tra qualche tempo i turisti più ricchi vedranno il Duomo dall’alto di un edificio di cinque piani, secondo un angolo visuale mai previsto per la cattedrale fondata da Gian Galeazzo Visconti nel 1387, da allora simbolo dell’internazionalità della città. Soggiornando nelle camere dell’albergo extralusso di cui è prevista la realizzazione, i turisti avranno una visuale storicamente e prospetticamente sfalsata sull’edificio, progettato per essere guardato dal basso, non dall’alto. Ideatore di questo biglietto per un palco con vista sulla cattedrale è, ancora una volta, il Comune. Vediamo i dettagli.

Milano, 2 gennaio 2022. L’assessore al Bilancio e patrimonio di Milano, Emmanuel Conte (di origini campane, non è uno storico dell’arte ma un ex bancario) ha annunciato con orgoglio a Maurizio Giannattanasio per il “Corriere della sera. Milano. L’Economia” che “il Comune si affretta a valorizzare il palazzo accanto all’edificio del Portaluppi” (quest’ultimo è l’Arengario, attuale sede del Museo del Novecento).

Il carattere della valorizzazione da effettuare in tutta fretta è chiaro fin dal titolo dell’intervista: La ristrutturazione. Milano, la Mondadori Duomo cede il posto a un hotel: caccia agli investitori. Si tratta di un’operazione commerciale consistente nella vendita e nella liberazione (sic) del lato sud di piazza del Duomo, tra via Marconi e via Mazzini; la zona da bonificare non è dismessa, ma è attualmente occupata da uffici e da una grande libreria Mondadori che traslocherà poco più in là. 

Lo scopo dichiarato dall’assessore è di “riqualificare” l’area, destinando la “parte centrale del palazzo” alla “realizzazione di un hotel che avrà camere con vista sul Duomo”. L’assessore spiega che lo scopo “dell’amministrazione è di valorizzare il palazzo dal punto di vista della redditività e insieme garantire un mix di funzioni adatte per il contesto di piazza Duomo. La destinazione ricettiva con servizi di alto livello permette un giusto bilanciamento fra le esigenze di chi investe, il rispetto del contesto monumentale e l’utilità pubblica”. 

L’evocazione del principio “d’utilità pubblica» sembrerebbe portare in una direzione virtuosa: il principio dell’“utilità pubblica del patrimonio culturale è un elemento forte di continuità nella storia nazionale d’Italia” fin dalla Roma antica (lo ha spiegato Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile; qui si leggono i contenuti fondamentali del libro).

Una delle basi del mio lavoro di storica dell’arte è la filologia. Nell’intervista all’assessore Conte la mia attenzione è stata perciò attratta anche dalla relazione istituita dall’intervistato tra il principio di “utilità pubblica” e l’azione di “riqualificare”, presentata come azione positiva e  preceduta e seguita da parole legate prevalentemente al lessico tecnico dell’economia: “valorizzare”, “redditività”, “servizi”, “investe”. Il tutto destinato a ottenere “funzioni adatte per il contesto di piazza Duomo”.

Poiché il Duomo è ancora adibito al culto ed è un’opera d’arte che ne custodisce a sua volta altre, ci si aspetterebbe che le “funzioni adatte per il contesto di piazza Duomo” si traducessero in un potenziamento di quelle religiose e museali; tuttavia, non si tratta né delle une né delle altre, ma di funzioni commerciali, per giunta extralusso.

Le parole scelte dall’assessore Conte ricorrono in tutte le dichiarazioni dei funzionari comunali italiani quando annunciano simili operazioni nei centri storici di città grandi e piccole.  

 Un esempio meridionale: Lecce.

Dal 1930 la sede del Banco di Napoli è una delle numerose architetture civili monumentali fasciste che connotano fortemente Lecce molto di più, per numero e imponenza, delle architetture sacre e laiche barocche (ma ai turisti e agli studenti si continua a propinare la più rassicurante immagine di una città tutta sei e settecentesca). Secondo il sindaco di Lecce Carlo Salvemini, l’unico mezzo per rendere fruibile l’edificio fascista in centro era la vendita a “René De Picciotto, imprenditore svizzero, ormai “leccese” d’adozione dopo l’acquisizione di circa il 30% del pacchetto azionario del Lecce Calcio. La sede della banca oggi è un resort di lusso che vede al piano rialzato una food court – area ristoro e un lounge bar – che nasce dall’unione dalle vecchie casse dei bancari, al primo e al secondo degli appartamenti di lusso […] con kitchen corner e bagni ricercatissimi, destinati a soggiorni non troppo lunghi, al piano interrato, dove un tempo c’erano i vecchi caveu invece c’è l’area wellness firmata Technogym”. 

“L’amministrazione comunale ha previsto che anche i residenti possano frequentare una parte di questo tempio di provincia per turisti ricchi. Anche in questo caso le parole chiave del sindaco sono “riqualificazione” e “turismo”, in relazione alla perifrasi del concetto di “pubblica utilità”: l’amministrazione ha doverosamente accompagnato in tutti i passaggi, in un virtuoso rapporto tra pubblico e privato che genera molteplici benefici per la città. Oggi possiamo rallegrarci del recupero di un immobile storico di pregio, della crescita qualitativa dell’offerta turistica a Lecce, della realizzazione di opere dalle forti ricadute pubbliche come la terrazza giardino e la riqualificazione delle aree adiacenti l’immobile” (l’intervista è reperibile integralmente qui).

(Mentre scrivo, in maniera opposta si è comportato lo Stato austriaco con un edificio storico di Vienna nato con funzioni simili a quello leccese: la Cassa di risparmio postale progettata in stile secessionista da Otto Wagner verrà occupata – con affitti pagati dallo Stato all’immobiliare che oggi possiede il palazzo – per alcune funzioni dall’Accademia di Belle Arti e dal Museo di arti applicate e, per il loro valore architettonico e culturale, i suoi spazi monumentali verranno nuovamente destinati alle visite di istruzione). 

Vale la pena, dunque, di analizzare la parola chiave con cui le amministrazioni comunali italiane annunciano sempre con giubilo queste operazioni: “riqualificare”, con i suoi derivati “riqualificazione” e “riqualificante”.

In tutti i dizionari e vocabolari dell’uso più diffusi, i significati del verbo “riqualificare” sono accomunati dall’intenzione di cambiare, rinnovare, risanare; il fine dell’azione di “riqualificare” è positivo. È sufficiente ricorrere al significato numero 3 della voce “riqualificare” nel vocabolario online Treccani per accertare che nel contesto che ci interessa la finalità migliorativa dell’intervento di riqualificazione scaturisce da uno stato negativo, comunque di degrado: “3. In urbanistica e in edilizia, lo stesso che risanare, nel sign. 1 b.”; il significato 1 b di “risanare” nello stesso Vocabolario corrisponde a: “b. estens. e fig. Intervenire in situazioni e strutture territoriali ed ecologiche, urbanistiche ed edilizie, tecnologiche, economiche e finanziarie, sociali e politiche, allo stato attuale gravemente negative o compromesse, per migliorarle e riportarle al livello normale di agibilità, di funzionalità e di efficienza (v. risanamento): […]; run centro o un agglomerato urbano o ruraleun quartiereuna borgata, con interventi di carattere urbanistico-edilizio ma anche economico-sociale; ri centri storici delle maggiori città, con interventi di conservazione e insieme di rivalorizzazione; run complesso abitativoun edificio o le strutture di un edificio, con interventi edilizî varî”. 

Quindi, perché presso un’amministrazione comunale si manifesti l’esigenza di “riqualificare” un’area urbana o un edificio bisogna che l’una o l’altro siano degradati o inagibili. Allo stesso modo, al principio di “utilità pubblica” rispondono misure di tutela necessarie che limitano i diritti di pochi privati. Ma è questo il caso delle aree in questione di piazza Duomo a Milano e della strada parallela alla piazza principale di Lecce?

In tutti questi casi le parole “riqualificare”, “valorizzare”, “utilità pubblica” assumono ormai il valore contrario a quello che è loro proprio: le “riqualificazioni” corrispondono ormai quasi sempre alla distruzione del paesaggio urbano di centri storici o di singoli edifici architettonici per destinarli a scopi commerciali di lusso, che non sono né pubblici, né utili alla comunità civile, né rispettosi del contesto monumentale e delle funzioni, civiche e religiose, di esso.

Cosa lega, dunque, i due edifici pubblici così diversi (una cattedrale di fama internazionale, la sede periferica di una banca) da cui siamo partiti? Non la funzione, né la qualità artistica assoluta, ma il carattere identitario per i cittadini residenti: una memoria civile e religiosa completamente positiva per il Duomo di Milano, una memoria civile che permette una volta di più di riflettere su un passato (reale, indipendentemente dall’inevitabile giudizio storico) per l’edificio del Banco di Napoli a Lecce e per gli altri costruiti nello stesso periodo e nel medesimo stile (molti dei quali ancora in uso) nella stessa città. 

Ciò che si nasconde nella parola “riqualificazione” è, dunque, sintomo di un’involuzione culturale generale causata dall’abolizione della memoria fin dai primi passi dell’educazione e poi dall’informazione, in un Paese in cui tutto si può distruggere, devastare, eliminare, perché progressivamente nessuno sa più a cosa serviva ciò che si distrugge. “Un tempo senza storia”, lo ha definito Adriano Prosperi in un libro che ha come sottotitolo “la distruzione del passato” e come oggetto la ricerca delle cause per cui in Italia, pur ricchissima di passato, “è la storia stessa che è apparsa come un vecchiume da abbandonare perché dannoso”. 

Dannoso perché mette chiunque nelle condizioni di pensare, di avere un pensiero critico, di valutare bene o male le azioni di chi decide per noi e di capire anche se sono “riqualificanti” o solo motivate dal guadagno di pochi. Le “esigenze di chi investe”, autorizzate da chi dovrebbe tutelare i beni pubblici, quasi sempre sono opposte al “rispetto del contesto monumentale” e all’”utilità pubblica”

Chi ha il privilegio di insegnare a bambini, ad adolescenti e a giovani si ponga allora come primo compito quello di contrastare la tendenza a “dimenticare, sistematicamente e con ordine”. Con queste parole il mercante olandese in rovina Kaspar Almayer (ne conosciamo la storia grazie a Joseph Conrad) si impone di concludere il suo ultimo “business”: deve dimenticare tutto ciò che lo lega al suo passato perché farci i conti richiederebbe di sopportare una sofferenza senza misura; ma nel momento stesso in cui decide di dimenticare, Almayer impazzisce, perché rifiutare il peso del passato significa perdere sé stessi.

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte all’Università di Foggia, Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

 

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