Commovente, avvincente, straordinariamente forte, e di più non dico.
Migliaia e migliaia di persone per tutto il giorno del Sabato Santo si sono riversate a Nocera Terinese, provincia di Catanzaro, per assistere al tradizionale rito dei Vattienti. Sono quelli che si battono a sangue, si flagellano colpendosi le gambe fino a farle sanguinare, lasciando defluire il sangue per le strade delle contrade del proprio paese.
Tutto questo naturalmente avviene sotto gli occhi di un intero paese, che sembra abbia fatto l’abitudine a questo spettacolo così “pieno di significati” e che anche quest’anno ha portato decine e decine di operatori e di fotografi venuti a riprendere da ogni parte del mondo con la curiosità caratteriale dei fotoreporter d’assalto.
Ogni anno che passa, il “rito” si arricchisce di nuovi particolari curiosi
Ricordo che tanti anni fa una delle cose che più aveva colpito la mia attenzione personale era stato, sempre qui sulla piazza principale di Nocera Terinese, un Vattiente che, arrivato dinnanzi alla statua della Pietà, chiese di poter posare per i fotografi ed i cineoperatori presenti: aveva accanto sua moglie e in braccio il bambino più piccolo. Ricordo che chiese esplicitamente che il bimbo venisse ripreso nel momento in cui egli stesso lo “segnava” con il sangue.
Quando era ancora in vita, incontrandolo proprio a Nocera Terinese per la processione del Sabato Santo, chiesi al prof. Luigi Maria Lombardi Satriani: “Professore, ma non c’è il rischio che il rito dei Vattienti, così come oggi viene “giocato” sulla piazza di Nocera Terinese, appaia sempre di più come pura manifestazione di esibizionismo e non invece come pura manifestazione di fede?
Mi rispose che «il rischio era quasi naturale, anzi anche scontato».
«Credo – scriveva lo stesso Lombardi Satriani nel suo “Ponte di San Giacomo”, il saggio edito da Sellerio che gli valse il prestigiosissimo Premio Viareggio – che possono anche essere scattate in questi ultimi anni delle valenze narcisistiche, un rito può anche diventare in parte spettacolo, per cui c’è una trasformazione da protagonisti del rito a spettatori dello spettacolo, per cui al rito si partecipa, allo spettacolo si assiste. C’è un cambio di funzione, ma nessuno di noi credo possa dire di avere i misuratori assoluti per affermare che quel rito è diventato unicamente spettacolo: una persona lo fa unicamente per esibirsi, per ostentare la propria presenza, perché sono diversi i livelli nello stesso individuo di consapevolezza, per cui determinate cose possono essere fatte con un miscuglio di motivazioni. Lo si può fare per tradizione, lo si può fare per provare, lo si può fare per tanti altri motivi messi assieme».
Ma c’è un altro studioso calabrese, antropologo anche lui, che sui Vattienti di Nocera Terinese ha scritto pagine bellissime, e nessuno meglio di lui forse, nato cresciuto e vissuto a Nocera per oltre mezzo secolo, avrebbe potuto raccontare meglio questo fenomeno. Lui, che di questa comunità non è solo antropologo – spettatore ma è soprattutto parte integrante e figlio naturale di questo luogo.
Sentite cosa pensa il prof. Franco Ferlaino.
«Come in una sorta di DNA culturale o “Codice ancestrale”, i flagellanti di oggi rinviano alle antiche liturgie dedicate al culto della vita e della morte che si celebravano in primavera. I devoti portavano in processione la statua della dea Cibele e si provocavano freneticamente la fuoriuscita del sangue in memoria del dolore della dea per la morte del suo caro Attis e per propiziare la resurrezione del dio. Come allora, i “Vattienti” di ora si flagellano per devozione del dolore della Madonna, addolorata per la morte del suo figlio Gesù e per propiziare la Pasqua di Resurrezione e la resurrezione di se stessi come Gesù ha promesso».
Con gli anni è dunque cambiato anche questo fenomeno?
«Vede, i flagellanti di oggi non esprimono più, come nel Medioevo, la sofferenza, il dolore fisico, l’atroce e penosa mortificazione della carne. Essi promuovono un frenetico spargimento di sangue, essenza e linfa vitale, che esprime e trasmette l’eccitazione per la vita. Spargere il sangue significa affrontare il rischio di dissipare l’essenza della vita. Compiere il rito del sangue è come affrontare un viaggio all’interno di se stesso e della propria esistenza. Saperlo compiere e portarlo equilibratamente a termine significa sentirsi forte, sentirsi vivo, cercare rischiosità dell’esistenza».
Il libro che Franco Ferlaino ha scritto per la Jaca Book-Qualecultura, «Vattienti» è diventato testo di analisi antropologica in molte università italiane e straniere e rappresenta, nel giudizio della critica più accreditata e più severa, il solo strumento di comprensione, certamente il più attendibile oggi esistente in letteratura, per ricostruire e per meglio interpretare il “caso” dei flagellanti di Nocera Terinese, questo minuscolo paesino dell’entroterra lametino, dove ogni anno si riversano, e da ogni parte del mondo, frotte di giornalisti e cineoperatori alla ricerca affannosa ed ingorda di immagini d’altri tempi.
Così è stato anche la settimana scorsa, nel giorno del Sabato Santo, ma così sarà fino a quando il rito dei flagellanti continuerà a ripetersi, perché nessun’altra manifestazione, come questa dei Vattienti, rende meglio di altre il concetto del “rito pagano” misto a sentimento religioso.
Professore, ma perché si diventa un Vattiente?
«La prima vera motivazione di fondo che spinge un giovane a “battersi” a sangue va ricercata nell’intimo di ogni Vattiente: si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di motivi intimi, individuali di ogni protagonista. Tra questi, indubbiamente, il fattore preponderante che sta alla base della decisione di molti, come la goccia che fa traboccare il vaso, è un “voto” che induce a impetrare una grazia per la salute o per la propria vita, o la vita dei propri cari. L’assunzione dell’impegno votivo scaturisce dalla convinzione che il dar corso alla liturgia di effondere il proprio sangue sia un’offerta gradita alla divinità implorata. Tale convinzione è generata dalla forza rassicurante che esercita la presenza plurisecolare di una tale consuetudine e convinzione».
Ma ci sono molti di loro che lo fanno anche per continuare un’antica tradizione di famiglia, per ripetere quelle che furono le gesta dei propri avi, per ricordare a se stessi che Vattienti si nasce e non si diventa. Assistere a questo rito è come partecipare ad una “sacra corrida”, le immagini che scorrono sotto gli occhi di ognuno sono immagini rituali forse, ma anche violente, immagini che ripropongono la presenza del sangue in una società come quella cala brese dove il sangue è simbolo di vita, come dice Lombardi Satriani, ma è simbolo anche di morte e di violenze assurde. Ignorare tutto questo sarebbe forse un errore da non ripercorrere.
Ma chi sono in realtà i Vattienti di Nocera Terinese?
I vattienti sono persone di ogni estrazione sociale (tra loro, per anni, c’è stato anche un medico) che, nel saper dosare e controllare il proprio sanguinamento rituale, sperimentano e trasmettono l’eccitazione e l’esaltazione per la vita. Se volessimo contarli, non potremmo pensare a un numero inferiore a 150. Essi versano il sangue per un’intima e segreta richiesta di guarigione, di rigenerazione, di rifondazione della memoria degli antenati verso i quali nutrono una venerazione filiale e la gratitudine per la tradizione che hanno tramandato. È questo che consente ancora al rito odierno dei vattienti noceresi di poter essere annoverato nelle liturgie popolari del sacro. In Calabria questo oggi avviene qui a Nocera Terinese e a Verbicaro, un paesino della provincia di Cosenza; fino a 30 anni fa avveniva anche a Terranova da Sibari. In Italia invece c’è un’altra località caratteristica dove è ancora possibile assistere a questo rito, ed è Guardia Sanframondi, un paesino del Sannio, in provincia di Benevento, dove a differenza di quanto accade qui i Vattienti si percuotono non le gambe ma il petto.
Professore, cosa intende per “ritualità sociale del sacro”?
Oggi, nel loro insieme, i vattienti sono officianti di una ritualità sociale sacralizzante, pubblica, di un cerimoniale collettivo che affrontano a viso aperto, senza scopi reconditi, ma pregno delle motivazioni più profonde di sempre: l’impetrazione di una grazia, il ringraziamento per averla ottenuta, la tradizione familiare, il culto degli antenati, il tramandamento di un codice simbolico che si concretizza nella manipolazione del sangue rituale, su cui s’impernia e agisce un processo identitario collettivo.
È vero che in passato si diventava Vattienti anche per una sorta di conquista sociale?
«I motivi che spingono, e che spingevano i giovani a battersi sono tantissimi. Prima di tutto si diventa Vattienti per voto all’Addolorata, per impetrare una grazia o per ringraziare la Madonna di una “grazia” ricevuta. Ma in passato si diventava Vattiente anche per ottenere un riconoscimento da parte di gruppi sociali a cui appartengono altri Vattienti. Le dirò di più, c’era chi diventava Vattiente per poter essere ben accetto dalla famiglia della propria fidanzata se tra i suoi familiari vierano dei Vattienti; per continuare le “gesta” paterne e per perpetuare una tradizione familiare. Ma c’era anche chi, per condividere l’esperienza del «battersi» insieme ad un amico che aveva deciso di svolgere questo rito diventava Vattiente. Sono cose che accadevano nel passato, ma che accadono tutt’oggi».
Lei nel suo libro scrive che questo di Nocera Tennese è un rito complesso, e quindi radicalmente “diverso” dagli altri riti della Pasqua pagana: ma in che senso è un rito complesso?
«Vede, tra i riti della Flagellazione ancora esistenti in Italia, questo di Nocera Terinese è senza dubbio il rito più complesso dal punto di vista delle implicazioni culturali e sociali. I Vattienti di Nocera hanno elaborato delle figure complementari che determinano l’ampliamento del protagonismo comunitario e sostengono il rito nel suo compiersi. Tra queste, la figura certamente più importante è “Acciomu”, o Ecce Homo. È il bimbo che si vede seguire il Vattiente, a cui è legato da un pezzo di corda, e che nella più antica simbologia pagana rappresenta l’immagine di Cristo presentato da Pilato alla folla romana. Il bimbo è nella maggior parte dei casi il fratellino o il cuginetto più piccolo del Vattiente, un bimbo che viene fasciato con un mantello rosso, stretto sui fianchi, e che viene lasciato scalzo e con il petto nudo: così conciato l’Ecce Homo viene poi legato al Vattiente e da questo momento diventa la sua ombra fedele ed onnipresente».
È vero che anche la corda che lega il Vattiente al bambino ha un suo significato simbolico?
«È semplice: la corda di fatto li unisce, li lega insieme, impedisce che i due possano in qualche modo separarsi, dunque rappresenta l’unità imprescindibile delle due figure, in tanto esiste il Vattiente in quanto c’è l’Ecce Homo, e viceversa».
Anche la scelta dell’Ecce Homo rispecchia le motivazioni intime che spingono un giovane a diventare un Vattiente?
«Storicamente le motivazioni sono identiche. Il bambino segue una tradizione che appartiene alla famiglia. Se lei provasse a chiedere ai vari bambini che fanno questo, si sentirebbe rispondere che lo fanno ormai da tanti anni, hanno incominciato a farlo per il proprio padre, o per il fratello più grande, perché così era stato nella tradizione di tutta la famiglia, perché suo padre prima di fare il Vattiente aveva fatto l’Ecce Homo, e così di seguito. La cosa che più colpisce in questi casi è la fede profonda che muove anche i bambini durante questa processione: il bambino sa che è chiamato a svolgere un ruolo determinante nel gioco complesso del rito, e come tale diventa protagonista anche lui del Sabato Santo».
Ma accanto al Vattiente e all’Ecce Homo si scorge anche una terza persona, che ha in mano una tanica con dentro qualcosa, forse del vino: chi è costui?
«Per la verità è una figura che non appartiene alla storia tradizionale di questo rito. Si tratta di una figura nuova introdotta da diversi decenni, ed è quella di un amico del Vattiente, che porta in mano un recipiente pieno di vino. Costui segue il Vattiente come se fosse la sua ombra, e a richiesta del Vattiente versa il vino che ha in mano per pulire le ferite che nel frattempo il Vattiente si è prodotto. Forse non è facile da spiegare, ma ogni Vattiente sa che è indispensabile che le ferite rimangano aperte, il coagulo del sangue e le crosticine che si formerebbero immediatamente sulle piaghe aperte provocherebbero al Vattiente dolori lancinanti: ecco dunque che il vino serve a disinfettare e a mantenere nello stesso tempo aperte le ferite, il vino insomma lava le ferite e favorisce il defluire del sangue».
Il momento della preparazione, o meglio della vestizione, è forse il momento più atteso dal Vattiente. Il tutto si svolge nello scantinato della propria casa, sotto lo sguardo ammiccante degli amici più cari, davanti ad un grande pentolone con dentro una mistura bollente di acqua e rosmarino. Ci aiuta a capire meglio professore?
«Finita la vestizione, dopo aver indossato un pantaloncino nero ben tirato sulle natiche, e dopo essersi sistemata sul capo una corona di spine, il Vattiente immerge le mani nell’infuso di rosmarino e si riscalda i polpacci delle gambe e delle cosce. Alcuni preferiscono scaldarseli col solo contatto del tiepido infuso, altri, la maggior parte, usano schiaffeggiarseli più o meno velocemente con le mani bagnate e sistemate concave in modo che ad ogni colpo possano fungere da ventose. Questo consente di fare affiorare più rapidamente il sangue nei capillari epidermici. A questo punto il Vattiente si percuote con la “rosa”».
Cos’è esattamente la rosa?
«La rosa è un disco di sughero del diametro di 9/ 10 centimetri che il vattiente usa come una spaz zola, colpendosi i polpacci dall’alto verso il basso, in modo da favorire in questa zona una migliore circolazione del sangue, quando i polpacci sono diventati rosei il Vattiente incomincia allora a battersi con il “cardo”, è un disco di sughero su cui sono state ben fissate tredici schegge di vetro, le tradizionali “lenze”, provocandosi così le prime lacerazioni».
Da dove inizia il percorso tradizionale del Vattiente?
«Ogni Vattiente inizia la sua “via crucis” proprio davanti alla sua casa, dove il Vattiente lascia colare le prime gocce di sangue. Poi, seguito dall’Ecce Homo e dall’amico che porta in mano la tanica del vino, si dirige verso il centro del paese, alla ricerca della processione dell’Addolorata».
A Nocera qui in paese, qual è il percorso ideale per un Vattiente?
«Non esiste un percorso ideale, o comunque uguale per tutti. Ogni Vattiente decide individualmente sia il percorso che l’ora d’inizio del suo giro devozionale. Ogni percorso è diverso dall’altro, anche se ogni Vattiente alla fine è attratto dalla pro cessione della Pietà. Il Vattiente stabilisce soprattutto, con quanta più esattezza possibile, il punto in cui desidera che avvenga il suo incontro con la Madonna. Oltre la metà di essi preferisce comunque che questo avvenga nel corso della mattinata e nel tratto in cui il corteo scorre sul corso Santa Caterina».
E a questo punto, cosa accade?
«Una volta “incontrata” la Pietà, il Vattiente rientra nella sua casa, perché a questo punto per la tradizione del paese il rito può finalmente considerarsi “concluso”» .
Professore Ferlaino c’è un dettaglio, un aneddoto particolarmente curioso, riferito magari al passato, e che secondo lei vale la pena di ricordare?
«Vede, un rito come questo dei Vattienti, così radicato nella coscienza popolare di Nocera, ogni anno che passa conserva sempre dei particolari curiosi l’ultimo che mi viene in mente è accaduto un anno di tanti anni fa: ricordo che in tarda mattinata, quando la procesione stava gia rientrando in Chiesa si presentò sulla piazza un giovane Vattiente e ricordo aveva il volto coperto da una benda nera. Nessuno ha mai più saputo chi fosse in realtà quel giovane, ma tutti capirono che doveva trattarsi i di un Vattiente che aveva scelto di partecipare al rito in maniera assolutamente anonima…».
Torniamo al percorso che compiono durante il Sabato Santo, cosa accade in realtà?
Non seguono la processione, ma ognuno incontra, individualmente, per pochi minuti la statua della Pietà detta “Addolorata” (un gruppo ligneo ad impostazione piramidale, di bella fattura seicentesca ben composto e assai espressivo) verso la quale tutti nutrono una immensa devozione. Ognuno sceglie un proprio luogo per l’incontro; davanti alla Pietà/Addolorata molti s’inginocchiano, si “battono” e vivono una breve perdita di presenza, soprattutto nei momenti in cui i loro occhi supplici incrociano lo sguardo della Madonna e realizzano lo scioglimento del loro voto. Per loro il voto è un impegno sincero assunto con il proprio “Es” e con la propria coscienza che hanno poteri terribili e sublimi, a secondo o meno che il voto sia sciolto in maniera coerente e totale. Fare un voto vuol dire impegnare la propria vita a vivere nell’urgenza di spegnerla. È così per il religioso, il fedele laico e colto, il credente eretico, la vecchietta del popolo e lo “scemo del villaggio”. Il voto opera sul terreno dell’etica primordiale tramandata in millenni di enculturation orizzontale che incide più profondamente dei valori indotti attraverso il processo di acculturazione verticale.
È vero che in passato, soprattutto, il rapporto tra Vattienti e la Chiesa sono stati rapporti difficili?
«Per la verità la Chiesa non ha sempre espresso posizioni univoche su questo rito. Gli antichi sinodi diocesani calabri davano valutazioni fondamentalmente positive; successivamente, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, la Chiesa ha espresso severe condanne, che nei fatti hanno decimato le schiere dei flagellanti. La posizione più severa, ricordata dai cittadini di Nocera è stata quella di Mons. Agostino Saba. Questi si era schierato sempre contro il rito dei Vattienti, e nel 1960 ottenne l’intervento di sessanta militari della forza pubblica per stroncare definitivamente il rito, che era ormai praticato solo da sette otto persone. Dopo il Concilio Vaticano II le posizioni della diocesi sono state di cauto pronunciamento. L’epidemia del Covid ha sospeso le cerimonie pubbliche per qualche anno; nonostante tutto, pare che, in pieno lockdown, un manipolo di vattienti, nella notte del venerdì e del sabato santo, alla chetichella, abbiano svolto un rito abbreviato per le vie deserte del paese; lo si è dedotto dalle impronte di sangue, ritrovate all’indomani sui selciati e sui muri».
Spesso lei parla di un “codice rosso” che lega la loro vita…
Vede, nella loro offerta di sangue rituale il sacro e il sociale sono inscindibili e prefigurano un “codice rosso” con cui gli iniziati mutuano l’intenzione di rifondare amicizia e solidarietà alle afflizioni che insidiano la salute di quelle case. Ogni vattente segna una propria rete di relazioni amicali che si rinnova annualmente perché dietro ad ognuno di quei gesti si celano messaggi di commovente empatia. Il rito del sangue di Nocera Terinese è il riflesso di disagi umani che fanno capo a sofferenze intime o manifeste, al cordoglio per la scomparsa di persone care, a malattie che si consumano in casa propria o in quelle degli amici. È così anche per le centinaia “girate” della Statua, che non sono “inchini” di riverenza, ma segnale di compartecipazione empatica dei “fratelli” portantini (un tempo confraternita dell’Annunziata) alle sofferenze presenti nella comunità.
Perché la Chiesa, al cui interno erano pure sorti molti riti di flagellazione, si è poi schierata contro i Vattienti?
«La Chiesa, in relazione allo spirito originario dell’idea cristiana, ha avuto momenti di alta tensione e periodi di forti compromessi. Nei momentidi forte tensione ideale, ha attivato innovazioni liturgiche squisitamente evangeliche che si discostavano nettamente dal concetto di religiosità precristiana o popolare che comunque era stato assorbito in maniera sincretica nelle liturgie cattoliche. Il rito penitenziale della flagellazione era uno di questi, e comunque rappresentava una esasperazione liturgica. Si diceva che potesse dare salvezza o rendere lo stato di grazia anche all’infuori dei riti sacramentali. Essi, quindi, rientravano e rientrano tutt’ora nelle liturgie ambigue da “epurare”».
Può essere più chiaro, cosa c’era da epurare nei riti della flagellazione?
«Vede, i rituali cruenti erano profondamente intrecciati con motivi apocrifi e con significati legati ad un ordine simbolico arcaico che connetteva, significativamente, gli elementi vino -sangue – uomo. Voglio essere più preciso: nei riti cruenti si perpetuava un concetto che si può semplificare in questo modo, il vino fa buon sangue, il buon sangue, cioè quello che possiede valenze positive, appartiene alla mascolinità e la mascolinità fa il vero uomo. Ricordo che emersero anche molte denotazioni di ordine popolare che prima erano latenti. Il rito fu connotato da funzioni esorcistiche, da atteggiamenti ostensivi e competitivi, sia per misurare la virilità, sia per misurare il coefficiente di salute dei protagonisti».
Non crede che tutto questo contribuisca a intorbidire l’universo dei riti cristiani con aspetti pagani? Lei ritiene sia possibile delimitare esattamente i due emisferi?
«Personalmente credo che non sia facile operare una netta distinzione dei due universi, ma dal punto di vista concettuale una linea di demarcazione è bene individuabile. Il Cristianesimo, secondo l’interpretazione più autentica, che si pone come innovativa del pen siero antico, ha escluso dai riti la presenza mate riale del sangue; pur eleggendo l’Eucarestia come fulcro della propria liturgia, il corpo e il sangue di Cristo hanno assunto valore simbolico. I riti cruenti sono perciò da considerare legati al pensiero arcaico e precristiano anche se, come ho già spie gato prima, sono sorti all’interno di quella Chiesa che ha spesso assorbito, rifondandoli, molti riti precristiani».
È dunque un’antica tradizione di fede?
«Non solo questo. Con le manifestazioni tradizionali la comunità esprime in forma corale, come in una periodica fiera campionaria, il rinnovamento sociale avvenuto nelle sue organizzazioni di base. “Tradizione” dunque come storia, ma storia intesa come passato dal quale si proviene ed a cui comunque si sono voltate le spalle, passato vero il quale di tanto in tanto si guarda per vivere e per affrontare il presente, per progettare e proiettarsi verso il futuro. “Tradizione” come desiderio di memoria. “Rinnovamento” come bisogno di oblio. Vede, “desiderio” di memoria e “bisogno” di oblio, che danno vita ad una reinterpretazione continua, sempre nuova, i cui termini si possono meglio cogliere e leggere su tempi più lunghi di osservazione; in cui il metodo comparativo si innesti a quello storico: per individuare ed analizzare le caratteristiche costanti connesse ai temi universali dell’uomo, della vita e della morte e dei relativi cambiamenti, ma per percorrere anche le varianti connesse con gli eventi storici contingenti di accet tazione e contestazione delle politiche della comunità e delle sue componenti sociali».
Non posso non chiederglielo, ma si sono mai verificati problemi di ordine pubblico legati alla processione del Sabato Santo?
Il rito dei vattienti di Nocera Terinese, a memoria d’uomo, non ha mai creato problemi di ordine pubblico, non risulta alcuna citazione amministrativa, civile e penale nella storia dell’Italia unita (eppure l’apparato militare e burocratico savoiardo c’è andato molto pesante nel reprimere e irreggimentare un Sud considerato conquista coloniale). Non sono mai state registrate criticità di ordine sanitario a causa delle ferite dei vattienti; (il dottore Adamo ha dichiarato pubblicamente che, in quarant’anni di servizio sanitario come medico di base, nessuno ha fatto ricorso alle sue competenze professionali per le ferite rituali che si rimarginano in pochi minuti con l’infuso di rosmarino, ricco di tannino dal forte potere astringente). Non esiste neanche una letteratura di ordine giuridico a carico dei vattienti; fin dalla metà del secolo XIX abbiamo numerose testimonianze demologiche, ma nessuna attesta secondi fini negli intenti e nella prassi della flagellazione locale; pertanto è da ritenersi un’usanza sbocciata e mossa da genuinità d’animo.
Mi pare il suo un giudizio di parte professore…
«Le sto dando solo dei dettagli storici e incontestabili. Il rito del sangue nocerese è manifestazione di un popolo capace di autocontrollo civico e religioso. È la maturità del popolo nocerese che spiazza e turba; forse più della vista del sangue, sono i suoi aneliti di libertà e democrazia che richiedono istituzioni collaborative edificanti e pronte ad un diverso spirito di sacrificio che impegna più del rito del sangue».
Si racconta che a volte ci si “flagella” per conto di altri?
«Non so come spiegarglielo. Chi si “batte” mette a disposizione il proprio corpo perché il mito archetipico della morte e della rinascita possa essere percepito attraverso formule simboliche senzienti. Anch’io so di persone impossibilitate dal peso degli anni o delle malattie a completare il loro impegno votivo ed a ricevere l’inattesa solidarietà di un amico disposto a “battersi” per loro».
Se suo figlio le dicesse da grande “Voglio fare il Vattiente”, lei cosa gli risponderebbe?
«Perché no? Rispetterei fino in fondo la sua scelta e il suo desiderio. Mio padre avrebbe fatto lo stesso con me».
Pino Nano – Già Capo redattore centrale Rai