Pasqua, la ricorrenza tra parole e gesti

C’è un brano, tra i più significativi del Vangelo, in cui la ‘parola’ del Signore si fa “gesto” carico di un contenuto nuovo e che ci aiuta ad entrare nella Pasqua del Signore. Il gesto, sappiamo, è sempre un linguaggio che rafforza la parola, anzi la rende non di rado più suggestiva. Veniamo al brano nella narrazione che ce ne dà l’evangelista Luca: il Maestro è a Gerusalemme in occasione di quella che sarà la sua ultima Pasqua; egli aveva ampiamente parlato della vigilanza, mettendo in guardia dall’ipocrisia e dagli inganni; stando poi nell’Atrio del Tempio, volle commentare un gesto quasi insignificante e nascosto, l’obolo di una povera vedova che entrando nella Casa di Dio donava il proprio contributo di due soldi, tutto ciò che aveva; fu un gesto di amore molto bello per quel Luogo che era lo spazio della presenza gloriosa dell’Altissimo in mezzo al suo Popolo: la Shekinah di Dio; su Gerusalemme Gesù aveva anche preannunciato il giorno in cui la Città santa sarebbe stata umiliata, distrutta e privata della propria nobiltà spirituale. Era stata una giornata faticosa e allora di sera se ne andò sul costale del Monte degli Ulivi per pregare avendo a fronte la Città di Davide. Chi ha visitato Gerusalemme conosce bene questo suggestivo luogo che guarda ancora oggi le mura imponenti e la spianata del Tempio. Il giorno dopo, desiderando celebrare la cena Pasquale, Gesù mandò Pietro e Giovanni a preparare il necessario: luogo, pane, vino, erbe amare, dicendo: «Andate a preparare per noi la Pasqua» (Lc 22, 8). La Pasqua ebraica, così ricca di simboli per Israele, è per Gesù l’ultima, ma anche l’occasione per un ‘evento’ nuovo che egli ha nel cuore: l’istituzione di quella che per la Chiesa diverrà la Pasqua sacramentale, l’Eucaristia: «Quando fu l’ora prese posto a

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Mattarella chiama la classe politica e il Parlamento alla responsabilità

Mattarella chiama la classe politica e il Parlamento alla responsabilità Mario Nanni Non erano pochi coloro che si aspettavano, dopo il bis di Mattarella, anche il bis di un discorso al Parlamento duro e ruvido come quello che fece Napolitano nel suo discorso dopo essere stato rieletto nel 2013. Un discorso che rimarrà negli annali parlamentari per la sua singolarità: più il presidente Napolitano fustigava i parlamentari e più questi applaudivano. Un atto di irripetibile ,sgangherato masochismo parlamentare. Nulla di tutto questo con il discorso del Mattarella Secondo. E’ stato allora un discorso tenero, indulgente? Nient’affatto. Per la semplice e principale ragione che ognuno ha il suo stile, e, pare quasi ovvio sottolinearlo,, Mattarella non è Napolitano. Mattarella, che qualche giornale ha definito l’ultimo grande democristiano, In certi suoi passaggi del discorso, sia come approccio sia come modalità di affrontare i problemi di lunga gittata, ricorda lo stile di Moro: concetti profondi, di sistema, ma esposti con tono deciso ma mite, con profonda convinzione ma cortese, con passione e determinazione: questa è, ed è sempre stata, la cifra espressiva ma anche lo stile politico e umano di Sergio Mattarella.. La sua allocuzione per certi versi, nella sua articolazione e nella ampiezza dei temi richiamati, ha ricordato i discorsi di fine d’anno, invece si rivolgeva a un Parlamento che un po’ ingloriosamente si avvia alla fine della legislatura. E pur nella consapevolezza che a questo Parlamento – sempre che non succedano cose per cui debba essere sciolto anzitempo, specialmente se i leader della maggioranza dovessero rendere impervia la strada e il lavoro di Draghi – resta appena un mese di lavoro , Mattarella ha richiamato tutti al senso della responsabilità, all’attaccamento a questo Paese per farlo crescere e prosperare. L’idea sottintesa, che Mattarella non esprimerebbe mai in modo così esplicito, sembrava:

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