Dal 2014 sono tutor del corso di formazione “Italiano”, Polo pugliese, progetto I Lincei per una nuova didattica nella Scuola, Accademia dei Lincei (https://www.linceiscuola.it/corso/pugliese-italiano-2021-2022/).
Il progetto è presieduto a livello nazionale da Luca Serianni, il Polo pugliese è diretto da Ferdinando Palmieri; destinatari dei corsi sono gli insegnanti di scuola secondaria superiore. Per via della situazione pandemica che ancora imperversa, dallo scorso anno il corso si svolge a distanza; quest’anno abbiamo anche adesioni di corsisti non pugliesi, forse per la maggiore accessibilità favorita dall’erogazione a distanza.
Gli incontri sono vivaci e partecipati, come mostrano i video delle lezioni che sono liberamente accessibili sul sito. Il 26 gennaio parleremo della didattica a distanza (DAD), anche sulla base della mia esperienza all’Università di Foggia, dove insegno Storia dell’Arte nei corsi di Lettere moderne e classiche e di Patrimonio e turismo culturale; dal prossimo anno si aggiungerà Educazione al patrimonio culturale, artistico e museale nel nuovo corso di Scienze della formazione primaria.
L’esperienza biennale della DAD con gli studenti è risultata progressivamente positiva, i voti degli esami sono migliorati. Ma forse non è un caso, nell’ateneo foggiano la DAD non è stata imposta all’improvviso dal confinamento del 6 marzo 2020. Ben prima della pandemia, l’attivissimo rettore Pierpaolo Limone aveva investito risorse cospicue nella formazione e nell’aggiornamento dei professori, nella didattica innovativa, nella piattaforma per l’e-learning, con docenti e tecnici di grande competenza (proprio mentre scrivo sono a metà della frequenza del secondo di due corsi di aggiornamento, coordinati da Isabella Loiodice, sulle metodologie didattiche innovative a cui collaborano numerosi esperti italiani e stranieri).
La didattica a distanza obbliga da due anni insegnanti di scuola e università a ripensare i fondamenti della disciplina che professano: la lingua deve essere chiara, semplificata, senza escludere i tecnicismi precisi; infatti, anche in presenza di un tecnicismo, gli studenti sono invogliati a chiedere il significato e le fonti che lo attestano, avvalendosi delle funzioni di comunicazione e verifica offerte dalla piattaforma.
Abituati a usare smartphone, tablet e computer, la timidezza che frenava gli studenti in aula è scomparsa con la DAD: intervengono, fanno domande, i più vivaci si adattano ai metodi del flip teaching e del Problem-based learning (PBL), che richiedono maggiore impegno individuale da parte loro e da parte mia. Nonostante la disponibilità di lezioni registrate con tempi fissi e offerte alla consultazione in linea di principio continua degli studenti, la DAD non riscuote grande successo presso gli insegnanti, che (soprattutto all’università) erano abituati ad andare in classe senza prepararsi e a parlare a braccio, sentendosi una via di mezzo tra il professore dell’Attimo fuggente e quello di La tigre e la neve, demolendo il nozionismo (quello virtuoso, coincidente con la memoria), forse anche perché alcuni (quanti?) non studiano più da decenni.
Ogni lezione registrata (e quindi non emendabile) spaventa: espone inesorabilmente al rilevamento di errori, refusi, lacune, e obbliga a non ripetere sempre le stesse cose tutti gli anni. La DAD, insomma, impone di guadagnarsi davvero lo stipendio, soprattutto all’università (a scuola è tutto il contrario: lo scrivo da fiera figlia di un’insegnante di scuola media, che credo abbia sempre lavorato il triplo rispetto a quanto credo di lavorare io ogni giorno e che ha trovato anche il tempo di insegnarmi a leggere a tre anni).
L’esigenza di essere chiari quando si fa lezione, scegliendo parole e argomenti appropriati, non nasce con la DAD sincrona (in diretta con gli studenti collegati; la lezione viene registrata mentre avviene e l’ora accademica dura 45 minuti intervallati da due pause di 5) e asincrona (la lezione si registra in assenza di pubblico e viene guardata in streaming dagli studenti, dura tra i 20 e i 25 minuti senza pause: in entrambi i casi, si tratta di direttive ministeriali, non di scelte autonome degli atenei).
Per restare nell’ambito che mi compete, la storia dell’arte, l’esigenza di chiarezza espositiva risale almeno a quando i tedeschi Erwin Panofsky, Rudolf Wittkower, Gertrud Bing, e i viennesi Fritz Saxl, Ernst Gombrich, Ernst Kris, Otto Kurz, furono costretti a rifugiarsi in Inghilterra e negli Stati Uniti per sfuggire alla svastica, oggi disgraziatamente tornata di gran moda anche in Italia.
L’esodo ha avuto profonda ricaduta anche sui metodi e sui contenuti della disciplina e sulle forme di trasmissione degli stessi, un intero gruppo di studiosi ha dovuto modificare la lingua in cui fare lezione e scrivere i propri saggi. Lo spiega al meglio Panofsky, quando fa un bilancio del suo lavoro negli Stati Uniti: «fu una fortuna l’esser costretto a esprimersi bene o male in inglese […]. In breve, quando parla o scrive in inglese, anche uno storico dell’arte deve più o meno sapere cosa vuol dire e deve voler dire quello che dice: una costrizione, questa, che fu incredibilmente salutare per tutti noi» (Tre decenni di storia dell’arte negli Stati Uniti, in Il significato nelle arti visive, Einaudi 1962, p. 313).
Non è casuale che libri coinvolgenti, che hanno cambiato la storia dell’arte, scritti da alcuni degli studiosi appena menzionati con risultati comunicativi insuperati, sono nati da cicli di lezioni orali destinate a un pubblico ampio. È il caso di Arte e anarchia di Edgar Wind, raffinato erede di Aby Warburg e primo professore di storia dell’arte a Oxford. Nel 1960 la BBC invita Wind a registrare sei lezioni nell’ambito della prestigiosa serie annuale delle «Reith Lectures», per un pubblico non specializzato (https://www.bbc.co.uk/programmes/p00h9lbs/episodes/player per le registrazioni di Wind e https://www.bbc.co.uk/programmes/articles/4ZTNLKgrG2mSzfgC1ZYlNmV/about-the-reith-lectures per la storia della serie di conferenze, inaugurata da Bertrand Russell nel 1948 e ancora attiva).
Wind si esprime in una lingua che egli stesso definisce il suo «esotico inglese», con cui deve comprimere ogni esposizione in ventotto minuti: un tempo equivalente a quello dell’ora accademica asincrona (vedi sopra) della attuale didattica a distanza, ma senza il supporto delle immagini. Wind risolve il problema individuando un macrotema, Art and Anarchy, all’interno del quale seleziona questioni della pratica artistica dal punto di vista della storia della tecnica e della conservazione, anche in relazione alla riproduzione meccanica (oggi consentita dal digitale), del declino dell’arte didascalica, dei metodi di attribuzione, fino al rapporto tra arte e scienza.
Ogni lezione risulta molto chiara anche grazie al ricorso a paragoni con arti immateriali, soprattutto la musica (confronto tradizionale, almeno da Leonardo a Kandinskij). Le sei Reith Lectures sono diventate presto celebri, in inglese e poi in italiano, grazie alla pubblicazione in volume nel 1963 e alla traduzione italiana nel 1968; favorito anche dall’attraente titolo Arte e anarchia, il libro ha avuto varie ristampe (per Adelphi).
Uno dei grandi classici della storia dell’arte deriva da sei brevi lezioni registrate da uno dei professori universitari più noti dell’epoca, in una lingua diversa dalla propria, in uno studio radiofonico, per ventotto minuti alla volta, in assenza delle opere d’arte antica e contemporanea e degli artisti viventi spesso evocati.
Quando ci accingiamo alla didattica innovativa, a distanza e no, della storia dell’arte, noi insegnanti, agevolati dalla possibilità di servirci di quelle riproduzioni meccaniche delle opere oggetto di una delle lectures di Wind, dovremmo tenere a mente l’ammonimento con cui il professore introduce la versione stampata e annotata delle lectures: «sei conversazioni di ventotto minuti ciascuna su un argomento vasto e nebuloso sono fatte apposta per suscitare, ma non certo per appagare, un legittimo appetito di conoscenze» (Prefazione alla prima edizione, p. 13.).
Il nostro obiettivo non cambia poi molto rispetto a quando insegnavamo esclusivamente in aula (altra cosa è insegnare in presenza delle opere d’arte, come bisognerebbe sempre fare; ma in territori con grandi divari sociali e con trasporti pubblici disastrati o inesistenti è impresa difficilissima).
Se dopo un semestre di didattica a distanza riusciamo a suscitare negli studenti un desiderio irresistibile: di leggere Il rituale del serpente di Aby Warburg (il discorso d’addio pronunciato nel 1923 dal geniale storico, erede di una dinastia di banchieri, davanti ai medici e ai pazienti del manicomio nel quale era stato internato per sei anni per dimostrare che non era pazzo); di possedere tutte le edizioni esistenti di Mecenati e pittori di Francis Haskell (il professore che ha insegnato a Oxford dopo Wind e autore di libri memorabili); di leggere a diciott’anni ciò che Roberto Longhi ha pubblicato prima del 1950 sentendosi eletti perché si riesce a capirlo; di dedicare giornate a leggere le spy stories attributive di Federico Zeri (di cui la Fondazione Zeri, diretta da Andrea Bacchi all’Università di Bologna, ha celebrato il centenario della nascita: https://fondazionezeri.unibo.it/it); di destinare i soldi risparmiati per andare a vedere l’emozionante pala di Tanzio da Varallo a Pescocostanzo (su cui ho scritto Tra Napoli e Milano. Viaggi di artisti nell’Italia del Seicento. I. Da Tanzio da Varallo a Massimo Stanzione, Edifir 2012), il Museo del Bargello a Firenze (dove il 19 marzo, in collaborazione con Palazzo Strozzi, si inaugura l’attesissima mostra Donatello, il Rinascimento, a cura di Francesco Caglioti), o le prime opere pubbliche di Caravaggio nella Cappella Contarelli in San Luigi dei francesi, aborrendo le numerose mostre-specchietto-per-le-allodole, avremo assolto a una parte consistente del nostro compito, anche civico, di insegnanti.
Sforziamoci dunque di utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione per suscitare il desiderio di conoscenze che poi solo il contatto diretto, visivo e tattile, con gli oggetti e con tutto ciò che li riguarda può appagare.
Cominciamo dai libri e dalle trasmissioni scientifiche disponibili grazie al servizio pubblico: le brevi lezioni su singole opere d’arte affidate ognuna a uno storico dell’arte per Museo nazionale di Radio tre; le bellissime monografie a puntate di Tomaso Montanari su Caravaggio, Velázquez, Bernini e Tiepolo per la Rai.
Ognuno di noi svolge per ogni corso universitario almeno 36-40 ore accademiche. Roberto Longhi, che prima di essere assunto all’università insegnò nei licei Tasso e Visconti a Roma, si pose un obiettivo con i suoi studenti: «L’essenziale [si manifesta] quando uno solo di voi, dopo quarant’ore di storia dell’arte, creda di potersi ricordare qualche volta che oltre la bistecca e la sigaretta c’è il quadro e la statua» (Breve ma veridica storia della pittura italiana, Sansoni, Firenze 1980, pp. 107-108).
Questo auspicava nel 1914, in uno scritto che allora si chiamava dispensa, il maggiore storico dell’arte italiano del Novecento, a conclusione di un ciclo di lezioni scolastiche in cui bisognava, allora come ora, capire «fino a che punto la parola può correre parallela all’immagine» (Goffredo Parise che scrive per presentare i quadri di Mario Schifano nel 1965).
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte all’Università di Foggia – Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia