Sono trascorsi 62 anni da quando Charles Percy Snow (1905-1980), scienziato e scrittore inglese, nel 1959 pubblicò il suo ben noto libro Two cultures and the Scientific Revolution, derivato da una sua lezione all’Università di Cambridge nel maggio di quell’anno, nel quale denunciò la pericolosa divisione nel XX secolo tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, che si ignoravano a vicenda, anzi spesso si detestavano a vicenda.
Ma non era solo una questione di rapporti tra le due culture, perché quella divisione si traduceva in una separazione in due ben distinti campi di azione: la cultura scientifica dominava lo sviluppo sociale e della comunità, mentre quella umanistica dettava le linee delle scelte politiche. Snow sosteneva la necessità della presenza in entrambi gli àmbiti sia della cultura scientifica sia di quella umanistica, la sola circostanza a suo dire capace di dare profondità ed equilibrio di giudizio.
Nel momento in cui Snow scrisse il suo libro, la ricerca scientifica conosceva un grande sviluppo cominciato agli inizi del secolo, uno sviluppo che metteva in crisi la tradizionale superiorità della cultura di matrice umanistica. La rivoluzione industriale con l’impiego massiccio delle macchine permetteva alle masse certamente un migliore tenore di vita e con esso una radicale trasformazione nella società occidentale. Col suo libro Snow intendeva tra l’altro riequilibrare, per così dire, il rapporto tra le due culture, a suo avviso squilibrato a favore di quella umanistica.
Oggi non si può certo dire che le due culture si detestino a vicenda come ai tempi di Snow; anzi sono pochi quelli che credono all’esistenza di una dicotomia assoluta tra di esse; sembra assodato che lo scopo dell’una e dell’altra sia, se non la ricerca della verità, almeno la comprensione della realtà. Eppure nei fatti oggi assistiamo ad uno squilibrio a favore della cultura scientifica, e questo perché la vita nella società occidentale è diventata a tal punto complessa e veloce, da esigere sempre di più competenze non di intellettuali capaci di interpretare il mondo (filosofi, storici), bensì di tecnici capaci di farlo funzionare (economisti, giuristi, medici); una situazione denunciata dalla filosofa e storica della filosofia Martha Nussbaum nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, apparso nel 2011 e in traduzione italiana nel 2014.
In esso la Nussbaum da un lato sottolinea l’importanza della formazione tecnoscientifica, ma dall’altro esprime la preoccupazione che altri saperi possano perdere il loro tradizionale peso nella società, saperi basati sulla capacità di pensare criticamente, di superare individualismi e di porsi davanti ai problemi mondiali come cittadini del mondo, di porsi in maniera simpatetica nei confronti della categoria dell’altro. Di qui la necessità, secondo la Nussbaum, di inserire nell’educazione dei giovani la filosofia, la storia, la letteratura, discipline che specie nella società occidentale vengono via via sostituite da altre il cui scopo è quello di produrre profitti che tendono a vantaggi a breve termine.
Un significativo invito alle due culture a riconoscere a vicenda la propria storia e la propria importanza è venuta da Lucio Russo, fisico e storico della scienza, il quale nel suo libro Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista, apparso nel 2018, ha messo in evidenza tre dati a suo dire incontrovertibili: la cultura classica è assolutamente attuale in moltissimi aspetti della nostra vita; la nostra cultura ha le sue radici nella cultura greca e romana; il senso di queste radici si sta progressivamente perdendo.
In particolare nel mondo greco, secondo Russo, la cultura non conosceva àmbiti a sé: era un fatto normale che un intellettuale si occupasse di tutto lo scibile. L’assoluta unitarietà di quella cultura e il debito verso di essa della moderna cultura occidentale avevano posto la cultura classica alla base della cultura generale. Il Novecento ha portato alla frammentazione dei saperi, portando con sé lo specialismo, che ha riguardato anche gli studi classici, i cui cultori per lo più si sono occupati degli aspetti umanistici di quella cultura, soprattutto quelli letterari, trascurando gli àmbiti giuridici e musicali ed in genere la cultura scientifica. Di conseguenza, secondo Russo, se si guarda alla cultura classica dall’ottica degli attuali classicisti, viene meno il suo ruolo di fondamento della cultura generale.
Oggi l’uomo deve misurarsi con una situazione di grave squilibrio: da un lato l’aumento e l’affinamento della capacità tecnologica, che si sviluppa in maniera sempre più veloce e direi tumultuosa, dall’altro la nostra capacità politica, giuridica, economica, etica di controllarne gli effetti, di indirizzarli verso il bene comune dell’umanità.
Questo squilibrio condiziona le vite di tutti noi, che viviamo divisi tra un mondo gerarchizzato e bisogno di eguaglianza, tra produzione capitalistica e necessità di tutelare l’ambiente e la salute, tra scelte di investimento e priorità di vita. Aldo Schiavone nl suo libro Progresso apparso nel 2020 parla in proposito di «asimmetria del progresso», nel senso che l’impetuosa evoluzione della scienza e della tecnologia non è compensata dalla presenza di un progetto politico, culturale, umanistico che corregga questa asimmetria.
C’è bisogno, per Schiavone, di un nuovo umanesimo, che si fondi sulla necessità per l’uomo di ritrovare la sua storia e con essa il suo futuro, nel senso di ritrovare una forma politica ed etica del mondo capace di reggere il peso del proprio sviluppo tecnologico e di proiettarlo indefinitamente nel futuro «oltre la chiusura accecante della fitta siepe che ce lo sta nascondendo».
Ma quale fiducia possiamo nutrire nel futuro in questi anni di drammatica pandemia? Può confortarci la collaborazione tra medici e scienziati che si è rivelata fondamentale, eppure manca un progetto politico e sociale, la ragionevolezza, l’inclusione, l’interesse democratico di tutti e non di pochi: sono, queste idee, capisaldi dell’approccio umanistico al mondo perché permettono a noi, cittadini tra cittadini, di guardare agli altri, di rispettarli, di solidarizzare con loro.
Esiste certo la necessità della sostenibilità ambientale, vale a dire la salvaguardia degli ecosistemi fondata sul rispetto delle esigenze dei territori; ma da sola essa non basta, come da sola non basta la sostenibilità economica; esiste anche la necessità della sostenibilità sociale, vale a dire l’insieme delle azioni vòlte a raggiungere un equilibrato sviluppo della società, sviluppo che si realizza con l’eliminazione della povertà, con l’assicurare pari dignità e diritti all’uomo e alla donna, con il garantire a tutte le persone condizioni di vita dignitose, con il preoccuparsi dell’oggi, senza dimenticare il passato e senza compromettere il futuro, esigenze che certo non possono essere soddisfatte con la mera tecnologia, per quanto raffinata essa possa essere.
Di qui l’importanza della presenza nella formazione delle attuali e delle future generazioni di discipline come la storia, la filosofia, il diritto, la letteratura; certo, anche la letteratura, perché si può imparare, e imparare molto, anche dalla lettura di un romanzo.
Purtroppo viviamo tempi di cancel culture, di «cultura della cancellazione», espressione che già in sé rivela di essere miserabile: la cultura la si condivide, la si discute, la si respinge, ma non la si può cancellare, perché essa è nella storia, essa è storia e la storia non si cancella. Così come non finisce. La cultura della cancellazione è un pericoloso virus dello spirito che ha inizialmente portato alla distruzione di statue, poi si è estesa, specie nel mondo americano, alle discipline umanistiche. La situazione è certo paradossale: gli Stati Uniti, che si sono fondati sul pensiero occidentale, rinnegano la cultura classica, che è alla base di quel pensiero. È qualcosa di più che il rinnegare se stessi, è divorare se stessi.
Quello che invece deve allarmare noi cultori degli studi umanistici è purtroppo la pericolosa tendenza in atto nel nostro Ministero dell’Università e nelle nostre autorità governative a privilegiare corsi di laurea proiettati su discipline scientifiche e tecnologiche con la motivazione che il mondo dell’industria e la società è di esse che avrebbe bisogno. Spie di questa tendenza sono il dibattito sulla pretesa inutilità o obsolescenza del liceo classico, il tentativo di eliminare la storia dalle prove delle maturità, la semplificazione della traduzione e addirittura la ventilata eliminazione degli scritti in queste stesse prove. C’è il concreto rischio che i corsi di laurea di impianto umanistico diventino la cenerentola della nostra struttura universitaria.
È contro questo rischio che dobbiamo tutti quanti vigilare; ma l’umanesimo è nato da noi, siamo noi che abbiamo dato al mondo questo termine, umanistico; è da questa consapevolezza che dobbiamo partire. La difesa delle nostre discipline non deve essere una questione di parte né di corporazione, ma un illuminato agire formativo che serva a sanare gli squilibri che certamente possono derivare dalla ricerca indiscriminata del profitto e da un impetuoso sviluppo tecnologico, due mostri che, come ha recentissimamente affermato il filosofo francese Edgar Morin in occasione del compimento del suo centesimo anno di vita (Sette, Supplemento del “Corriere della Sera” 1 luglio 2021), possono portare alla degradazione del pianeta: «La nostra civiltà produce gli strumenti della propria stessa morte». Per Morin abbiamo perciò bisogno urgente di grandi riforme morali e intellettuali.
Un compito delicato attende dunque i cultori delle discipline umanistiche: quello di dissipare la vena di pessimismo che attualmente intride l’idea del nostro futuro.
*Ordinario di Papirologia nell’Università del Salento. Presidente nazionale dell’Associazione Italiana di Cultura classica