L’alchimia alla base della trasformazione di un oggetto con una funzione quotidiana in merce costosissima è stata spiegata nel 1899 dall’economista Thorstein Veblen nel libro La teoria della classe agiata.
Leggendolo scopriamo che la vera differenza tra poveri e ricchi non sta nel denaro di cui dispongono, ma nell’uso che ne fanno. I ricchi si riconoscono tra loro per il «consumo vistoso»: acquistano oggetti il cui costo spropositato travalica la funzione che devono svolgere e il cui possesso diventa vera e propria ostentazione del reddito.
Pertanto gli orologi non servono solo per controllare il tempo, le auto non servono solo per spostarsi, i monili non servono solo come pegno d’amore, i quadri non servono solo per arredare la casa. Ognuno di questi oggetti per svolgere la sua funzione sociale di “bene di posizione” deve costare moltissimo e avere un brand riconoscibile; nel caso di un’opera d’arte, l’autore deve essere un divo con una biografia attraente (il libro di un altro economista, Donald Thompson, Lo squalo da 12 milioni di dollari. La bizzarra economia dell’arte contemporanea, è un’istruttiva lettura di partenza).
Tra i generi di quadri a disposizione dei ricchi per decorare le pareti delle proprie case, quelli che rappresentano la vita dei poveri riscuotono un certo successo in tutte le epoche della storia dell’arte.
Nel Seicento Pieter van Laer e altri pittori olandesi chiamati Bamboccianti dipingono a Roma piccoli quadri per le case dei nobili e di ricchi e colti collezionisti: straccioni, ubriachi, zingari, per strada e nelle taverne, con la loro «povertà contenta» dilettano i ricchi «non mai contenti» (cito dal titolo del libro che fu il best-seller del 1650, pubblicato dal predicatore e storico gesuita Daniello Bartoli).
Nel Settecento Giacomo Ceruti dipinge tele per i palazzi dei nobili di Brescia: dalle pareti dei saloni in cui i ricchi ricevono i loro pari, mendicanti e lavandaie li osservano.
Nell’Ottocento pittori tedeschi e inglesi come Anselm Feuerbach e Frederick Leighton fanno posare la moglie di un calzolaio di Trastevere, Anna Risi detta la Nanna, come una musa fuori dal tempo, altera e regale. La moglie del calzolaio diventa anche l’amante del pittore Feuerbach .
Negli anni Sessanta del Novecento i poveri fanno un salto di qualità: oltre a sopravvivere mendicando, lavando i panni sporchi altrui, spogliandosi davanti ai pittori, guadagnano stipendi fissi come operai se accettano di ammazzarsi di fatica nelle industrie dei ricchi. Così, all’approssimarsi del 1968 Mario Schifano (sul quale è in uscita quest’anno Con lo Zingarelli sotto il braccio. I libri per Mario Schifano, nella Collana “Il Bosco Parrasio” dell’Accademia dell’Arcadia) dipinge Festa cinese, con dei cinesi che camminano con enormi bandiere rosse, per la boiserie della sala da pranzo della casa di rappresentanza a Roma del presidente della FIAT (la moglie Marella non la prende bene e fa portare via giù per le scale il quadro la mattina stessa della consegna pur essendo stata l’artefice della commissione).
Dagli anni Ottanta del Novecento i ricchi cominciano a desiderare grandi quadri che rappresentano soggetti simili a quelli violenti, ironici, coloratissimi realizzati dai writers (graffitisti) sui muri dei quartieri e nei treni della metropolitana da Rammellzee, rapper italo-afroamericano, o da Keith Haring, attivista gay bianco vittima dell’AIDS. L’arte pubblica del nostro tempo, la Street Art, si diffonde dagli USA negli anni Ottanta grazie a questi artisti.
Nel 1983 all’Università di Bologna Francesca Alinovi è pronta a storicizzare a caldo il passaggio della Street Art dagli spazi aperti dei poveri a quelli chiusi dei ricchi: «I graffitisti, perseguitati per anni dai poliziotti, dai cani e dagli arresti, stanchi di scendere con le loro bombolette sotto terra, lavorano alla luce del sole per i più prestigiosi galleristi, collezionisti e direttori di musei». Nonostante affondi le sue origini nella cultura pop e in un pressoché totale analfabetismo, la Street Art diventa un genere richiesto per opere su supporti mobili che anestetizzano i presupposti di partenza.
Il divismo individualistico dei writers e la mercificazione di un genere nato anche per contestare i valori a cui è allineato il sistema del mercato dell’arte si deve anche al più abile pubblicitario che lo abbia attraversato, Andy Warhol. Warhol ha promosso Jean-Michel Basquiat, afroamericano di Brooklyn, come un Caravaggio del ghetto. Basquiat prima si firma SAMO© (acronimo per “Same Old Shit”) sulle pareti di Manhattan, poi usa il suo nome per grandi tele con soggetti aggressivi e colorati, che assecondano il desiderio di brivido da salotto; ma in comune con la biografia della maggior parte degli Street Artists Basquiat ha solo il colore della pelle, la vita sregolata, la scomparsa precoce causata dalle abitudini di vita (muore per overdose da eroina), non i ricordi dal sottosuolo.
Nel 1982 Basquiat realizza un grande quadro blu, nero e bianco intitolato Equals Pi. Lo compra subito a una mostra per 7.000 dollari la responsabile pubblicitaria di una rivista d’arte internazionale; nel dicembre 1996 lo comprano a un’asta Sotheby’s per 250.000 dollari i gioiellieri titolari di un negozio in via Montenapoleone a Milano, che recentemente lo hanno venduto per una cifra compresa tra i 15 e i 20 milioni di dollari alla famiglia che ha acquisito nella propria multinazionale una notissima azienda americana che produce gioielli.
La fama dell’azienda è legata al titolo di un film e a un oggetto: il film, tratto da un romanzo di Truman Capote e diretto da Blake Edwards nel 1961, è quello in cui Audrey Hepburn interpreta una prostituta in cerca di un marito ricco che finisce per ripiegare su uno scrittore povero; l’oggetto è l’anello di fidanzamento con diamante venduto in confezioni di un colore blu acquamarina simile a quello che fa da sfondo a Equals Pi e che avrebbe sollecitato l’acquisto dell’opera da parte dei proprietari dell’azienda.
La ragione dell’acquisto e la sovraesposizione mediatica del quadro hanno suscitato le proteste di un assistente di Basquiat che ha ritenuto «assurdo» il riferimento al «blu» brevettato dall’azienda e che «questa perversa appropriazione dell’ispirazione dell’artista sia davvero troppo». Il fatto è che Equals Pi è uno dei due oggetti protagonisti, dal 24 agosto, alla fotografia-pilota della campagna pubblicitaria dei gioielli venduti dall’azienda: il quadro fa parte di una still life in cui sono in posa due coniugi afroamericani uniti da un successo eccezionale nell’universo dello spettacolo, Beyoncé e JAY-Z, noti anche come The Carters.
Beyoncé esibisce un diamante unico al mondo dal valore inestimabile, «indossato soltanto da tre donne dalla sua scoperta nel 1877»; «in About Love, Beyoncé è diventata la quarta persona a indossare la leggendaria gemma da 128,54 carati» (dal testo di accompagnamento della campagna pubblicitaria nel sito dell’azienda), su un abito da sera nero e con un’acconciatura che dovrebbero evocare il personaggio della Hepburn. Il marito la guarda, seduto in poltrona, elegantissimo, con una spilla preziosissima sulla giacca e con le treccine afro che portava anche Basquiat.
Un valore immateriale che non si compra, l’amore, sancito e illustrato da oggetti, un quadro e un diamante costosissimi. Nel 2018 The Carters avevano affittato per una notte il tempio dell’arte occidentale, il Louvre, per girarvi il videoclip Apeshit il cui messaggio principale era: anche per coloro che nascono in condizioni svantaggiate esiste quello che una volta si chiamava l’ascensore sociale se, unendo le forze nella vita privata e nel lavoro, destinano i frutti dei propri sforzi a comprare le stesse cose che comprano i bianchi ricchi, fino a diventare addirittura divi invidiati da questi ultimi.
Così anche l’arte degli afroamericani (il rap e il trap dei Carters, la Street Art di Basquiat) è oggetto del desiderio dei bianchi, con un ribaltamento che non potremmo che apprezzare, se non fosse destinato a un’esplicita operazione commerciale.
L’amore, l’arte pubblica e i diamanti sono roba da poveri quando nascono: le pietre costose o costosissime esistono grazie ai lavoratori che li estraggono dalle miniere senza poterseli permettere per suggellare i loro fidanzamenti. Non è inopportuno ricordare qui che la domanda degli anelli di fidanzamento e il conseguente aumento del «prezzo dei diamanti a livelli vertiginosi, equivalenti a un vero e proprio furto» si deve a una campagna di marketing iniziata all’inizio del Novecento dalla «De Beers Consolidated Mines Ltd., la quale, sin dall’Ottocento, esercita un dominio incontrastato sull’industria diamantifera» (lo scrive la storica Wendy Doniger, L’anello della verità, p. 297); il meccanismo è simile a quello che fa salire vertiginosamente i prezzi di opere come Equals Pi.
Eppure la Street Art può essere considerata oggi l’unico genere figurativo davvero inclusivo e identitario: prevede l’anonimato di chi la esegue (anche con uso di pseudonimi: Banksy, Blu) gratuitamente in condizioni di clandestinità (o perlomeno in rapporto ambiguo o episodico con il mercato o con la committenza) e comporta il rifiuto pressoché totale del concetto tradizionale di autografia.
La vita della Street Art è indipendente dalla volontà degli autori e coincide con la vita degli abitanti del quartiere in cui l’opera nasce. La Street Art non era destinata inizialmente a diventare una merce ma intendeva rappresentare l’identità di luoghi e cittadini, con la funzione di dare forma allo spazio pubblico e di migliorarlo; «non puoi comprarla perché non è in vendita», valorizza l’autoidentificazione civile nell’arte contemporanea abolendo il divismo degli artisti che caratterizza il nostro tempo.
Perciò la Street Art può permettere un vero riconoscimento collettivo e «ha un enorme rilievo sociale perché entra nelle periferie rendendole spesso più abitabili»; è un’«arte di denuncia e di liberazione» in cui «i poveri, i sommersi, gli sfruttati» sono ancora una volta protagonisti, ma non del divertimento dei ricchi, ma di una «rivoluzione promessa» (Tomaso Montanari su «Artribune», 23 gennaio 2017, in Chi è Banksy? L’arte gentile dell’anonimato, «la Repubblica», 23 marzo 2016, e in L’ora d’arte, pp. 194-198 e La seconda ora d’arte, p. 182).
*Professoressa associata di Storia dell’arte nell’Università di Foggia. Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia