Non solo nell’immaginario di ogni cristiano, ma anche nella realtà, Betlemme era davvero un piccolo borgo, arrampicato sulla dorsale interna delle montagne che dividono il Mar Morto dalla costa mediterranea, qualche chilometro a sud di Gerusalemme, dove i tratturi che scendono nei uidian[1] del Deserto di Giuda raggiungono la strada che porta a Hebron. Un paesino, tale e quale quelli che possiamo ammirare nei presepi.
Per questo, quando i pellegrini arrivano al muro di cemento che oggi circonda la cittadina palestinese restano scioccati. Lo street artist Banksy, qualche anno fa, ha cercato con varie opere di stigmatizzare quanto questo muro rappresenti una ferita non solo simbolica per l’Umanità.
Oltre il check-point, Betlemme è distesa sulla collina. Tutt’attorno sono piccole perle paesaggistiche: le cosiddette “Piscine di Salomone”, grandi vasche costruite dal califfo ottomano Sulaymān, Solimano il Magnifico (1494-1566), sfruttando mille anni dopo gli acquedotti costruiti magistralmente dalla X. Legio Fretensis, la legione romana inviata a sedare la rivolta giudaica[2]; il paesino di Beit Jala, con il grande convento di Cremisan, dove i salesiani veneti producono lo chardonnay della Terra Santa; il villaggio di Battir, costruito su terrazze digradanti come un borgo dell’Umbria o della Lucania, la piccola valletta verdeggiante del Uadi Artàs, dove da un lato sono stati trovati resti paleolitici e calcolitici, dall’altro si può ammirare ancora una volta la canalizzazione romana circondata di mandorli e olivi.
Sul versante nord-orientale, invece, lo sviluppo della città è stato vertiginoso negli ultimi venti anni e, complice anche la situazione politica, il bucolico “campo dei pastori”, è stato quasi completamente circondato da case e alberghi. Alla mia domanda rivolta ad una collega palestinese sul perché di questa edilizia infestante, la risposta è stata “i nostri figli da qualche parte devono pur vivere”.
A breve distanza è la “Milk Grotto”, dove Maria ha allattato Gesù (appena partita, dopo l’avviso degli angeli, per l’Egitto, la sacra famiglia dovette fermarsi per allattare), diversa dalla grotta dove è nato Nostro Signore, che si trova sotto il transetto della vetustissima e, oggi – grazie all’Italia e ai Padri Francescani – nuovamente splendente di oro e colori, Basilica della Natività. Suddivisa in cinque navate da quattro file di colonne romane riutilizzate, a croce latina, decorata con mosaici bizantini e affreschi, questa chiesa per tre secoli ospitò insieme cristiani e musulmani: da quando il califfo Omar la conquistò nell’aprile del 637 d.C., riservando ai musulmani per il culto la sola navata meridionale, fino a quando il fatimide al-Hakim la distrusse completamente nel 1009.
Seguì la prima Crociata. L’Imperatore di Bisanzio Manuele I Comneno (1143-1180) la rivestì di mosaici.
Prima di tutto questo, però, Beth-Lehem, “Casa della carne” in arabo, o “Casa del pane” in ebraico, dove “casa” sta per “mercato”, fu una città dei Cananei, tra 2500 e 1200 a.C. Piccola, ma significativa, tanto da diventare centrale nelle narrazioni bibliche, come luogo di nascita di Davide (che, però, probabilmente non era nato lì, visto che la dovette conquistare: inutile chiedere ai testi sacri di essere storicamente coerenti). Lo stanno dimostrando le ricerche archeologiche spronate dal ritrovamento di alcuni corredi tombali trafugati. La polizia del turismo palestinese, formata dai nostri Carabinieri, ha intercettato dei tombaroli.
Questo ha portato all’identificazione di una serie di necropoli, situate sui versanti rocciosi a est della città (a 2 Km dalla Basilica della Natività), che sono state scavate dal Dipartimento di Archeologia del Ministero del Turismo assieme all’Università di Roma «La Sapienza» dal 2015 a oggi. Più di cento tombe familiari, utilizzate per secoli (precisamente tra 2300 e 700 a.C.), testimoniano la vita degli abitanti di Betlemme. Pastori, mercanti, guerrieri, ma anche contadini, produttori di olio d’oliva e di mandorle, di cui oggi pur non conoscendo il nome, possiamo sapere il patrimonio genetico, attraverso l’analisi del DNA antico. Può accadere così di scoprire che un guerriero fosse di origini greche e uno provenisse dalla Persia (nell’antichità si viaggiava come oggi, facendo meno file).
Non si tratta di necropoli qualsiasi. Siamo pur sempre nel cuore di un paesaggio sacro.
San Girolamo, tra i primi a subire il fascino della parva Betlemme[3], si stabilì qui negli ultimi decenni del IV secolo, in una delle tante grotte che costellano gli uidian e vi fondò un monastero (oggi dedicato a Santa Caterina). Lo fece per tradurre la Bibbia in latino (la ‘Vulgata’) e nel far questo identificò ogni pietra della Terra Santa con quanto descritto dalle scritture (ispirandosi a quanto fatto da Sant’Elena, madre di Costantino [248-330]). Lo seguirono e finanziarono alcune matrone romane, affascinate dalla sua sapienza e dalla sua missione: riconoscere dove i fatti narrati si erano effettivamente svolti. Il paesaggio della fede si è così sovrapposto a quello naturale e antropico e si è intrecciato con quello scavato dall’archeologo o tagliato dalle costruzioni moderne. Difficile capirci qualcosa e, soprattutto, rimanere indifferenti, sapendo che tutta questa storia – sacra o profana, materiale o genetica – costituisce una porzione non piccola di un passato da rispettare, riunire e condividere, anziché spezzare con un muro.
* Professore Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico nell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza»
[1] Uadi = corso d’acqua stagionale che dà vita ad un vero e proprio canyon, scosceso e ripido o ampio e assolato, colmo di pietraie. I uidian (plurale di uadi) popolano i terreni montuosi desertici del Vicino Oriente e del Nord Africa.
[2] La X. Legio Fretensis era comandata allora (67-70 d.C.) dal legatus legionis Marco Ulpio Traiano (30-100? d.C.), il padre del quasi omonimo imperatore Marcus Ulpius Nerva Traianus (98-117).
[3] «O Bethlehem parva, sed jam magnificata a Domino!» così la città è chiamata da un altro santo, S. Bernardo da Chiaravalle (In vigilia nativitatis Domini, Sermo I,4).