Si terrà il 15 novembre prossimo, a Lecce, presso l’Università del Salento, un convegno dal titolo “Scrivere per il Foro, scrivere per le Istituzioni”, nel corso del quale sarà presentato un interessante volume: “La lingua e la scrittura forense: storia, temi, prospettive”, curato da Maria Vittoria Dell’Anna, docente presso l’Ateneo salentino. Il tema, del convegno e del libro, è – manco a dirlo – quello della comunicazione giudiziaria e, più nello specifico, del linguaggio delle sentenze e degli scritti di parte nei processi. Un tema divenuto, soprattutto negli ultimi tempi, di scottante attualità, tale da appassionare linguisti e giuristi, ma soprattutto, i cittadini, essendo sempre più avvertita la necessità di una profonda rivisitazione del modo di scrivere dei magistrati in questo specifico settore; la quale, tuttavia, tarda a venire.
Una trentina di anni fa Indro Montanelli, rispondendo ad un lettore (nella “stanza” che teneva nel Corriere della Sera), ebbe a censurare pesantemente il “linguaggio iniziatico” (sono parole sue) in uso nell’amministrazione della giustizia italiana, considerato come strumento di potere invece che di servizio, da parte – scriveva il grande giornalista – di “una casta di burocrati (giudici ed avvocati) preoccupati solo di tenere lontano il cittadino da quella specie di arcana imperii che sono leggi, procedure e sentenze”.
Prolisse e indecifrabili
Difficile dargli torto. Un discorso analogo può farsi, con ancora più ragione, a proposito della scrittura delle leggi, divenute, soprattutto negli ultimi anni, sempre più prolisse e indecifrabili, tanto da risultare indigeste agli stessi addetti ai lavori.
Montanelli stigmatizzava il “linguaggio ermetico e sciaradesco”, buono per “tutte le interpretazioni e il loro contrario” tale da allontanare i cittadini dalle istituzioni ed alimentare, al contempo, il discredito “nei confronti della giustizia e dei suoi sacerdoti”. Il pensiero corre ad Alessandro Manzoni e al suo dottor Azzeccagarbugli, che nei Promessi sposi, a proposito delle cose della giustizia, così si esprime: “A saper maneggiare bene le grida (le leggi del tempo: n.d.r.) nessuno è innocente e nessuno è colpevole”.
Come dire che il linguaggio giuridico, anche a causa della intermediazione degli avvocati “azzeccagarbugli”, è fattore di confusione, tanto che lo stesso testo di legge può essere utilizzato per provare una tesi ed il suo esatto contrario. Eppure già Cesare Beccaria aveva censurato l’oscurità dei testi di legge come “un male grandissimo per il cittadino”, tale da impedirgli di “giudicar da se stesso quale sarebbe l’esito della sua libertà”.
Da qui una inquietante domanda: per chi scrivono giudici ed avvocati? La risposta è (dovrebbe essere): per i cittadini, ma la distanza siderale del linguaggio giuridico da quello comune fa fondatamente dubitare che sia così. Il linguaggio giuridico è contorto, ermetico, infarcito di bizantinismi e non può essere giustificato dall’essere anche il diritto una scienza che, come tutte le scienze, possiede una sua specificità tecnica: ciò può valere, al più, per il mondo accademico, ma non certo per le sentenze e i provvedimenti giurisdizionali, il cui destinatario è il cittadino, il quale deve ben comprendere il contenuto delle statuizioni che vi sono contenute.
Magistrati malati di ridondanza
Ma non è solo questione di chiarezza. Un altro problema è la ridondanza. A fronte, infatti, di disposizioni codicistiche che, con riferimento alla motivazione, richiedono “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto”, si assiste spesso ad esercitazioni ampollose e retoriche.
Scriveva anni fa Franco Cordero: “Nell’ambiente italiano il vizio più comune, sotto vari aspetti funesto, è l’eccesso verbale… Alcuni giusdicenti disquisiscono, arringano, predicano; quante più parole volano, tanto meno nitidi riescono i discorsi”. E aggiungeva: “Lo stile italiano è lingua morta inidonea a comunicare: discende dal latino bastardo che infestava l’uso curialesco; lessico oscuro … prolisso, vago. … Lo stile appartiene all’imprinting: improbabile che … muti spontaneamente”.
Come dargli torto?! Montanelli faceva l’esempio della parola “attore” che, nell’uso comune, indica “l’interprete di un’azione drammatica rappresentata scenicamente” (così nel vocabolario Treccani), mentre nel linguaggio giuridico indica colui che promuove un giudizio civile. E che dire, poi, del seguente scampolo, colto in una sentenza: “in presenza di un paritetico apporto causale colposo in ragione della presunzione posta dall’art. 2054, comma 2°, c.c., con conseguente onere della non offerta prova liberatoria, all’attore, in virtù del combinato disposto di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c., dovrà essere risarcita solo la metà del danno”.
Un modo, evidentemente contorto, per dire che senza prova chiare, il sinistro va attribuito, in parti eguali, alla condotta dei due conducenti. Il contenuto di quella sentenza sarà compreso, al più, dall’avvocato ma non certo dal cittadino, per il quale dovrebbe essere invece utilizzato un linguaggio semplice e chiaro, tale da essere inteso (per tornare a Montanelli) anche “dall’ultimo venditore di latte dell’Ohio”.
La Magna Charta dei giudici
È per scongiurare situazioni di tal fatta che, sempre più di frequente, giuristi illuminati come Giovanni Canzio (già Primo Presidente della Corte di Cassazione) si adoperano, anche attraverso l’adozione di linee-guida, per far sì che la motivazione delle sentenze consista – come richiesto dal codice – “in una concisa esposizione dei motivi della decisione”, espressa con chiarezza, specificità e precisione nello sviluppo degli argomenti.
D’altro canto, anche nella cosiddetta “Magna Charta dei giudici europei” del 2010 e nelle raccomandazioni che si sono susseguite è raccomandato ai giudici di redigere i loro provvedimenti con “linguaggio semplice, chiaro e comprensibile”. A queste sollecitazioni hanno poi fatto seguito quelle del Consiglio Superiore della Magistratura e, ancor più recentemente, gli indirizzi della Scuola Superiore della Magistratura.
Da ultimo, in un parere rilasciato dal Consiglio Consultivo dei giudici europei (CCJE) di qualche anno fa si legge: “Nella chiarezza della motivazione e dell’analisi si rinvengono i requisiti-base delle decisioni giudiziarie… La decisione giudiziaria deve essere percepita dai destinatari e dalla società in generale come il risultato dell’applicazione pertinente delle regole di diritto…”.
Evidente allora che qualcosa occorre fare. Per esempio, sotto il profilo stilistico, vanno evitati inutili appesantimenti, mentre vanno subito individuati gli argomenti rilevanti, in fatto e diritto, sui quali riposa la decisione. Scritti, magari, con periodi brevi, non infarciti di latinorum (talvolta inserito a sproposito) e con una punteggiatura che non ricordi… l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce (ossia privi di punteggiatura).
La lezione di Italo Calvino
Tornano utili, a questo proposito, le Lezioni americane di Italo Calvino. Nelle prime tre egli indicava come essenziali, per la scrittura del terzo millennio, i requisiti della leggerezza, della rapidità e della esattezza. Gli stessi sono stati richiamati anche dal Presidente Canzio: leggerezza, intesa come scrittura nitida, non ridondante e, se possibile, priva di formule curiali; rapidità, intesa come agilità di ragionamento, essenzialità degli argomenti, brevità dei periodi; infine esattezza, nel senso di precisione, determinatezza e soprattutto chiarezza nella ricostruzione dei fatti, nell’utilizzo delle prove, nel ragionamento giuridico.
Tre doti, queste, che possono rendere la scrittura giuridica comprensibile a tutti, finalmente libera da schemi precostituiti o da aspirazioni di vanità intellettuale del redigente, si tratti del giudice o dell’avvocato.
Perché – come ricordava Piero Calamandrei – “se il linguaggio della burocrazia è un gergo di pigri e sfiduciati automi … quello della giustizia sia l’umana parlata della gente semplice”.
Roberto Tanisi – Magistrato. Già presidente del Tribunale e della Corte d’Appello di Lecce