“Elly Schlein deve mettersi nella testa di Giuseppe Conte, che punta non solo a vincere ma a tornare a Palazzo Chigi. Forse alla leader del Pd conviene ragionare su un campo meno largo e scegliere tra M5S ed ex terzo polo, viste le incompatibilità tra i leader e i ‘popoli’ di quei partiti”.
Beemagazine analizza il post voto in Liguria con Luigi Di Gregorio, politologo, docente di Comunicazione pubblica, politica e sfera digitale e di web e social Media all’Università della Tuscia viterbese. Insegna inoltre Campaign Management in diversi master. Oggi è consulente strategico del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, dopo essere stato capo della comunicazione istituzionale del Campidoglio. Il suo ultimo libro è War room. Attori, strutture e processi della politica in campagna permanente (Rubbettino, 2024). Spiega Di Gregorio: “Ha vinto Giorgia Meloni che ha scelto il candidato migliore, ma pensare che FdI sia andato male è un’illusione ottica”. E avverte: “La partita in Umbria è aperta, tanto più dopo il voto ligure che può avere effetto mobilitante a destra e deprimente a sinistra”.
Professore, nell’analisi del voto in Liguria partiamo dai vincitori. Ha vinto Giorgia Meloni, che ha azzeccato l’unico candidato possibile – Marco Bucci, un civico in grado di superare la palude dei veti incrociati tra partiti e i riflessi della vicenda Toti – nonostante FdI lasci sul campo oltre dieci punti rispetto alle politiche?
“Ha vinto Giorgia Meloni perché ha scelto il candidato migliore. Il centrodestra aveva la certezza di vincere nelle circoscrizioni di Imperia e di Savona. Doveva limitare i danni soprattutto a Genova città (che vale il 36% del corpo elettorale). Alle scorse Europee – 4 mesi fa – la somma dei voti dei partiti di centrodestra e di centrosinistra, a Genova, segnava un +23% per Schlein & co. Alla luce di quel dato, il -8% di Bucci nella sua città è stato in realtà una delle chiavi del successo”.
Anche perché le sue liste civiche sono andate molto bene?
“Sì, e quanto al dato di FdI, ovviamente bisogna considerare gli oltre 15 punti percentuali delle liste civiche di Bucci. È verosimile pensare che molti di quei voti, in assenza di liste civiche, sarebbero andati a FdI. Non vedo ragioni per cui un partito che in ogni sondaggio resta saldamente in testa e non perde terreno, dovrebbe crollare di 11 punti in Liguria in 4 mesi. Quindi ci sono due “illusioni ottiche” dietro a quei numeri. La prima: Genova non è andata male come sembra. La seconda: FdI non è andato male come sembra”.
Lega e Fi rimangono stabili. Cambia qualcosa negli equilibri della coalizione? L’anno prossimo si vota in Veneto che è difeso da Matteo Salvini ma ambito dagli uomini di Giorgia Meloni…
“No, non cambia niente, né credo che possa cambiare anche dopo il voto in Emilia-Romagna e in Umbria. Quanto al Veneto, si voterà anche in Campania e in Puglia, per citare le regioni più grandi, per cui ne vedremo delle belle sia a destra che a sinistra, dato che i presidenti uscenti non sono ricandidabili. Sono tutte scelte delicate e il modo in cui le coalizioni le affronteranno sarà sicuramente importante agli occhi dei cittadini. E stando a ciò che abbiamo visto quest’anno, sinceramente vedo più difficoltà a sinistra che a destra”.
Al riguardo, la metafora più usata dai commentatori è che il centrosinistra ha mancato un rigore a porta vuota. Colpa dei veti di Giuseppe Conte, delle giravolte di Matteo Renzi o della mancata sintesi di Elly Schlein?
“Difficile dirlo, forse un po’ tutte le cose insieme, oltre – l’abbiamo detto – alla buona candidatura del centrodestra. L’impressione è che a destra ci sia prima di tutto un popolo e di conseguenza una coalizione, che è la stessa da 30 anni. A sinistra quel popolo non c’è mai stato. E le uniche due volte in cui ha vinto le elezioni – con Romano Prodi – ha dovuto mettere insieme talmente tante sigle che governare si è rivelato molto complicato. Peraltro, una volta vinse perché la Lega andò da sola (nel 1996) e la seconda volta con meno di 30mila voti di scarto (nel 2006). Io credo che a sinistra si debba lavorare strategicamente, cioè non pensando di poter tornare al governo domani, ma cominciando a costruire un’alternativa credibile da qui a tre anni. In questo senso, però, forse bisogna fare una scelta tra M5S ed ex terzo polo, viste le incompatibilità tra i leader e tra i “popoli” di quei partiti”.
Al netto di come è finita, Prodi vinse però federando tutte le anime molto diverse tra loro, senza veti. Il dato ligure evidenzia che il centrosinistra – guai ormai a chiamarlo campo largo – è disarmato al centro? Incapace di offrire una proposta convincente agli elettori moderati?
“Il centro al momento è una polveriera. Qualcuno ha detto che ci sono più leader e sigle che voti… se a questo si aggiungono i veti – come quello di Conte su Renzi – le cose si complicano ancora di più. Servirebbe una leadership unitaria e una fusione di sigle per incrementare la massa critica e il peso specifico. E sono due cose al momento complicatissime”.
Al di là di essere “testardamente unitaria” come farà allora Schlein a fare il salto da leader di un partito, il Pd che ha preso un ottimo 28% in Liguria, a candidata premier di una coalizione competitiva?
“Deve, per quanto possibile, sfruttare questi anni di opposizione per creare quel popolo che non c’è, cimentandosi anche nella difficile operazione di uscita dalla “ZTL” e da quella spaccatura – che ormai è occidentale, non solo italiana – per cui la sinistra va bene nelle città medio grandi e poi perde ovunque, fuori da quei centri urbani. Le battaglie sulla sanità e sul salario minimo vanno in quella direzione. Certo, recuperare in poco tempo il “popolo perduto” non è facile…”.
Quanto ha inciso sul voto il duello all’ultimo sangue, e praticamente a urne aperte, tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo?
“In parte avrà inciso, ma ricordo che alle elezioni liguri del settembre 2020 – quando Conte era all’apice della popolarità, in era Covid – il M5S ha preso il 7%. Quel partito non ha mai realizzato grandi performance alle regionali perché non ha storia, non ha organizzazione, non ha territorio e dunque non ha preferenze. Il M5S dà il meglio di sé alle politiche e per qualche anno è riuscito anche in alcune elezioni comunali, ogni qual volta i suoi candidati andavano al ballottaggio. Perché la loro collocazione “oltre la destra e la sinistra” li rendeva appetibili sia a destra che a sinistra, al secondo turno”.
L’ex premier ha fatto prevalere la sua agenda partitica – apparire duro e puro senza cedimenti a Italia Viva e prevalere nell’imminente assemblea costituente – sacrificando il voto regionale con un candidato non M5S. Prima o poi Schlein dovrà fare i conti con l’indisponibilità contiana a fare da junior partner ai Dem?
“Credo che Schlein debba cominciare a mettersi nella testa di Conte, se vuole provare a capire cosa succede. Conte sa di avere un partito che registra le migliori performance alle politiche e sa anche che ogni volta che va da solo, limita i danni. E deve anche tenere presente che Conte non punta solo a vincere, punta a tornare a Palazzo Chigi… ciò significa che farà di tutto per ridurre il gap col Pd e per farlo deve mantenersi il più possibile autonomo. Ecco perché forse è il caso di cominciare a ragionare con un altro schema, che guardi a un campo un po’ meno largo, ma che provi a coprire il fronte moderato, sperando nel mentre di non perdere terreno a sinistra, proprio a favore dei Cinquestelle”.
Fra tre settimane si vota in Umbria ed Emilia Romagna. Un mese fa i pronostici favorivano un 3-0 per il centrosinistra oggi svanito. Come finirà?
“Sui pronostici non mi lancio… Certo il voto ligure può avere ripercussioni, una specie di effetto mobilitante a destra e deprimente a sinistra, che potrebbe alterare gli equilibri in Umbria. L’Emilia-Romagna, se guardiamo al voto europeo di quattro mesi fa, sembra una partita chiusa. L’Umbria invece oggi mi pare una partita aperta, a maggior ragione dopo il voto in Liguria”.
Ultimo argomento: l’astensione. Ormai consideriamo normale che oltre la metà del corpo elettorale diserti le urne: colpa della legge elettorale, dei partiti che non formano una classe dirigente strutturata, o – più in generale – della crescente disaffezione verso i corpi intermedi?
“Ci sono tantissimi fattori, alcuni politici, altri pre-politici, sociali e culturali, che riguardano tutte le democrazie occidentali, ormai da quasi 30 anni. Da un lato c’è l’impressione che la politica non sia più così determinante per le nostre vite. E non è solo un’impressione a dire il vero, nel senso che oggi un governo nazionale ha molte meno leve per incidere rispetto a 30 anni fa, a causa della globalizzazione, delle organizzazioni sovranazionali, ecc. Dall’altro, siamo sempre più una società individualizzata – per dirla con Bauman – in cui tutta la rappresentanza è in crisi, tutti i corpi intermedi arrancano”.
Gli elettori non votano perché non credono più alle promesse della politica?
“I cittadini sono – psicologicamente – sempre più consumatori, abituati a gratificazioni immediate e a una felicità “qui e ora” che la politica non può dare, se non rifugiandosi nell’ipercomunicazione degli effetti-annuncio e dello storytelling. Spera che il percepito plasmi il reale “dando l’impressione” di fare le cose solo annunciandole. Questo però, nel medio periodo, fa i conti con tante aspettative insoddisfatte e finisce per alimentare quella sensazione di inutilità che porta sempre più persone a disertare le urne”.
Federica Fantozzi – Giornalista