Parlamento bonsai, tagliare il numero è servito a qualcosa?

Un bilancio non esaltante dopo due anni dal taglio del numero dei parlamentari: risparmi irrisori e nessuno snellimento dei lavori, anzi qualche problema di funzionalità in più

Montecitorio

Tra le tante cose censurabili a carico della politica, un posto d’eccellenza spetta alla dimenticanza. Che non è solo lo smarrirsi nei labirinti di sinapsi sempre meno frequentate dalla scossa di una “visione”, e dunque disattivate per mancanza d’uso: c’è di più.

E quel di più è far calare un velo di silenzio sui tanti flop che vengono lasciati per strada e che a seguirli, uno dietro l’altro, come faceva Pollicino con le briciole di pane, ti portano dritti all’autore dei misfatti.

Nel caso di cui parliamo, però, non c’è una sola traccia da seguire perché  l’autore del misfatto è un “collettivo”, anzi, i colpevoli sono tutti i partiti, nessuno escluso, che votarono battendo le manine e lanciando urletti di esultanza per il taglio dei parlamentari, abbracciando il capolavoro della narrazione populista: “tagliamo così risparmiamo centinaia di milioni all’anno e per di più facciamo del Parlamento una modello d’efficienza”.

Montecitorio, la camera dei deputati

Montecitorio, la Camera dei deputati

Le conseguenze del taglio nel parlamento

Che cosa è successo di quella doppia promessa che il generone parlamentare, a cominciare da chi, come il Pd, aveva fatto in precedenza (e giustamente) motivate battaglie per contrastarlo, dimenticate in un baleno quando si trattò di entrare nel governo Conte II?

Nel silenzio dei colpevoli, media compresi che, per non carezzare il pelo del popolo dalla parte sbagliata, facevano la ola alla “grande riforma”, e degli innocenti, quel 30% di italiani che non si fidarono ed ebbero il coraggio di votare contro al referendum, si è levata solo l’attenzione di un settimanale, l’Espresso, dal passato glorioso e dal presente promettente. Per il resto il silenzio. Lo stesso che circondò le proposte alternative di chi contestava questo intervento “ad capocchiam”, come quella che non era necessario sfregiare la rappresentanza parlamentare disegnata in Costituzione perché, se proprio si voleva risparmiare, sarebbe bastato tagliare 5000 euro all’indennità di 13-14 mila percepite attraverso varie voci dai parlamentari ogni mese, per recuperare ciò che si voleva riducendo le assemblee ad un bonsai. Ingenuo il proponente: il parlamentare avrebbe mai potuto provvedere a tagliare gli emolumenti a se stesso?

Lo fece per i vitalizi degli ex certo, ma lì il coraggio del taglio si riferiva a chi era ormai fuori e in età avanzata.

Meno siamo meglio pariamo?

Ma cosa è successo in questi due anni di legislatura nata sotto il motto “meno siamo meglio pariamo?” Sembrerebbe molto poco di buono. Sul piano dei risparmi siamo alle briciole: i dati ufficiali, ricordati dall’Espresso, parlano di sei milioni alla Camera e qualcosa di più al Senato, che comunque si proietta verso bilanci con spese praticamente uguali a prima.

Si era parlato di risparmi pari a 100 milioni annui che in una legislatura avrebbero raggiunto mezzo miliardo di euro (fonti M5S ridimensionate dall’osservatorio sui conti pubblici della Cattolica di Milano, che parlava comunque di 57 milioni annui, ben lontani da quelli odierni).

Camera dei deputati

Il tabellone delle votazione alla camera dei deputati

Quanto ad efficientamento siamo, invece assai lontani, specialmente al Senato, dove 200 parlamentari devono reggere la mole di lavoro che prima veniva distribuita tra 315. Nè le prassi politiche o i regolamenti riformati- solo aggiustamenti minimali di riduzione del numero, senza però impiantare una necessaria diversa postura delle attività parlamentari- aiutano più di tanto ad affrontare la situazione.

Tre commissioni per un senatore

Facciamo un esempio: i governi sono ancora inzeppati, anche per le cariche minori, di sottosegretari e vice-ministri, cosicché accade che i parlamentari di maggioranza debbano sostituire deputati e senatori che hanno assunto incarichi. Nel governo Meloni si contano 45 parlamentari che sono sostituiti da colleghi nelle commissioni di Camera e Senato.

Per andare nel dettaglio: al Senato (dove i parlamentari al governo sono 19) il Regolamento consente ai gruppi che hanno un numero più basso di poter designare lo stesso senatore in tre commissioni diverse. E sia chiaro: il vero lavoro parlamentare, quello che produce i testi che saranno approvati anche in aula si svolge in Commissione, dove occorre una presenza ed una continuità di lavoro che non può essere né rapsodica né superficiale.

In Italia non esiste, come in Francia, la figura del supplente che sostituisce il parlamentare al governo fino a quando il titolare non cessa il mandato governativo, dunque 45 parlamentari nell’Esecutivo, pari a circa il 13% dei consensi ricevuti all’atto dell’insediamento del governo Meloni pesano non poco.

L’iniziativa del governo ai danni del parlamento

Ma c’è qualcosa che inquieta ancora di più ed è la supremazia assoluta del governo anche nell’azione legislativa che, nella classica visione montesqueiana dovrebbe, invece vedere attivo il Parlamento. Fino ad oggi alla Camera solo il 31% degli impianti normativi approvati ha un’origine parlamentare a fronte del 68% circa del governo.

Molto peggio va al Senato dove l’iniziativa legislativa del governo supera il 75% lasciando al parlamento un residuo 24%.

Senato, Palazzo Madama

L’assemblea del senato a Palazzo Madama

Non è un fenomeno nuovo, certo, ma adesso, a fronte della debolezza strutturale del Legislativo con le assemblee ridotte e la suggestione di un governo sostenuto dal premierato elettivo, e in presenza di leggi elettorali basate sulla cooptazione da parte del Capo (e dunque negazione dell’autonomia parlamentare sancita dalla Costituzione), la cosa desta preoccupazione.

Altro che efficienza del parlamento bonsai! In fondo, quando si giunse a quella scelta si celava probabilmente un sottotesto tristissimo, quello dell’accettazione di sua una irrilevante presenza nelle assemblee del rappresentante del popolo: forse un sussulto di onestà intellettuale residua, che faceva riconoscere ad ognuno fra i battenti le manine e lanciatori di urletti d’entusiasmo, la sua personale estraneità ad un corpo elettorale e dunque la sua sopprimibilità.

 

 

Pino Pisicchio Professore di Diritto pubblico comparato, parlamentare in varie legislature, già capogruppo, presidente di Commissione e sottosegretario

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