Uno slogan che si sente frequentemente nelle manifestazioni antisraeliane in seno al mondo arabo, soprattutto tra i palestinesi, suona così: “Khaybar, Khaybar, ya-iahud, giaish Muhammed sa-ya’ad” (“Khaybar, Khaybar, o ebrei, l’esercito di Maometto sta tornando”). Il riferimento a Khaybar contiene volutamente un messaggio implicito rivolto ai fedeli musulmani. Khaybar, oasi e fortezza, fu il sito dove nel 628 d.C. Maometto e un gruppo di suoi seguaci sconfissero in battaglia una tribù di ebrei che abitava nell’area, cacciando o sottomettendo i sopravvissuti.
Ci sono due osservazioni da fare a proposito di questo slogan. La prima, è il richiamo a un fatto storico avvenuto quasi 1400 anni fa che nella coscienza di chi ne fa uso è evidentemente ancora ben vivo, come se fosse storia di ieri. Per analogia, sarebbe come chi oggi in Europa, volendo manifestare contro la Turchia, ricordasse la battaglia di Lepanto nel 1571. La seconda, è il ricorso al termine “ebreo”, dando così, implicitamente, al conflitto con Israele una dimensione trascendentale, teologica, che investe tutti gli ebrei in quanto tali.
Per la mentalità occidentale, abituata a strumenti di logica razionale, c’è un’oggettiva difficoltà a includere nell’analisi di un problema una dimensione, come quella della religione, che agli occhi di molti in Europa e in America oggi può perfino apparire esoterica. Ma così non è quando si entra nella complessità di una regione islamica, come il mondo arabo, in cui il fattore religioso, per i fedeli osservanti di questa religione, resta ancora centrale. “L’uomo moderno occidentale, – afferma Bernard Lewis, uno dei maggiori orientalisti degli ultimi cinquant’anni – essendo in gran parte incapace di assegnare alla religione una ruolo dominante e centrale nella sua vita, non è preparato a pensare che per altri popoli in altre parti del mondo sia invece così ed è perciò stato costretto a trovare altre spiegazioni di ciò che a lui appare come un fenomeno religioso superficiale”. Per l’odierna mentalità di un occidente autocentrico, prosegue Lewis, “è inconcepibile che vi siano persone disposte in gran numero a combattere e morire per mere differenze di religione”.
In molte delle manifestazioni contro lo stato ebraico il linguaggio più violento viene da parte di organizzazioni islamiche che, in gran parte, si rifanno alla matrice ideologica dei Fratelli Musulmani (al-Ikhwan al-Muslimin), organizzazione panislamica salafita, ostile ai valori occidentali, fondata a Ismailia, in Egitto, nel 1928 da Hassan Al-Banna. Da allora i Fratelli Musulmani sono stati una presenza importante e influente nella storia contemporanea del mondo islamico. Talvolta tollerati e talvolta combattuti e perseguitati dai governi che negli stati arabi si sono succeduti.
Secondo la ricercatrice copta egiziana Cynthia Farahat, che all’argomento ha dedicato anni di studi, scavando pure nella vasta letteratura teologica su cui si basa l’ideologia dell’organizzazione, i Fratelli Musulmani sono nell’arcipelago del terrorismo di matrice islamica il gruppo più pericoloso. I Fratelli Musulmani, afferma, sono non solo un ordine con un apparato internazionale politico, militare e clandestino ramificato ma anche un culto di fratellanza che si ispira all’ Ordine degli Assassini (Hashashiyin), una setta di sicari di tipo religioso e militare, che fu attiva contro i suoi avversari politici e religiosi tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo in Persia e in Siria. Gli Assassini incutevano paura anche per la loro capacità di mimetizzarsi in seno ai nemici e di compiere attentati mortali.
La Farahat sottolinea che “i Fratelli Musulmani, pur sostenendo di reagire principalmente alle sfide poste dai governi e dal colonialismo occidentali, sono una vera minaccia anche per quelle masse di musulmani che seguono interpretazioni più moderate dell’Islam”. È un punto, questo, che è importante evidenziare per non colpevolizzare intere comunità. Azioni terroristiche, come l’attacco alle Torri Gemelle a New York nel 2001, secondo Bernard Lewis, non trovano nessuna giustificazione nella dottrina o nelle leggi islamiche e non hanno precedenti nella storia dell’islam. Crimini contro l’umanità e la civiltà, sono pure – da un punto di vista musulmano – atti blasfemi, quando chi perpetra questi crimini afferma di agire nel nome di Dio, del Profeta e delle Sue Scritture.
Ciò nonostante, è innegabile che se, da una parte, la reazione di diversi musulmani fu di condanna dell’attacco, vi furono al tempo stesso anche vaste reazioni gioiose della piazza araba, soprattutto palestinese. Anche adesso, dopo la strage di 1200 israeliani per mano di oltre duemila terroristi di Hamas e della Jihad Islamica il 7 ottobre scorso, si sono sentite espressioni di condanna in seno al mondo arabo. Restano però voci isolate, soverchiate dall’ostilità delle piazze verso Israele e dalla timidità di chi, davanti alla violenza cieca, preferisce non esporsi.
Ma da dove nasce il fenomeno dei Fratelli Musulmani e di tutti quei gruppi che sostengono una visione radicale dell’Islam? Essi sono al tempo stesso fondamentalisti, perché vogliono un ritorno all’Islam puro dei primi califfi che sono succeduti a Maometto, e integralisti perché vogliono una società interamente sottoposta alla sharia (leggi canoniche islamiche). Nella loro visione, solo là dove regna l’islam e si applica la sharia c’è la pace (Dar al-Islam), altrove è invece terra di conflitti e di conquista (Dar al-Harb). Nella loro concezione tutti i territori dove una volta sventolava la bandiera dell’islam appartengono al Waqf (patrimonio islamico) e sono perciò inalienabili.
Ciò spiega l’aspetto teologico del rifiuto dei seguaci dell’islam radicale di accettare l’esistenza di uno stato ebraico in Palestina. Per loro, anzi, contro questo stato è obbligatorio condurre il jihad (guerra santa) ad oltranza. In situazioni di debolezza, tuttavia, davanti a un nemico molto più forte, tregue sono possibili ma senza mai perdere di vista l’obiettivo finale. I Fratelli Musulmani, secondo la ricercatrice copta, “usano il linguaggio come arma per celare o dissimulare, spesso ricorrendo a parole in codice e a una terminologia criptica”. Nei messaggi rivolti a un pubblico non musulmano usano argomentazioni meglio comprensibili per un occidentale e per l’odierna cultura woke, come autodeterminazione, lotta all’oppressione, diritto esclusivo dei palestinesi alla Palestina, condanna del sionismo e di Israele in quanto insediamento coloniale ebraico. In nome di una lotta comune essi mostrano di non aver alcun problema ad allearsi con gruppi della sinistra radicale, malgrado l’abisso ideologico.
Lo slogan, urlato nei campus e nelle piazze negli Stati Uniti e in Europa e in tante altre parti del mondo, fino al cuore stesso delle università più prestigiose, “From the river to the sea, all Palestine will be free (Dal fiume al mare tutta la Palestina sarà libera)”, si riferisce non solo alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza occupate ma anche a tutto il territorio di Israele. Un modo, questo, per invocare la scomparsa dello stato ebraico. Un altro modo è di dichiarare di volere, come afferma lo storico ebreo israeliano antisionista Ilan Pappe, “Una Palestina libera, democratica e desionizzata dal fiume al mare; una Palestina che darà un bentornati ai rifugiati palestinesi e costruirà una società che non discriminerà su basi culturali, religiose ed etniche”. Formula che però ignora, presumo volutamente, il fatto che non c’è un solo stato arabo che rispecchi il modello di società citato da Pappe. Inoltre, non ricorda, sulla base di precedenti storici anche recenti (Balcani), che la convivenza forzata di popoli, divisi da una lunga storia di conflitti, rischia di ottenere un risultato tragicamente opposto a quello sperato. Sorprende inoltre l’aperto sostegno a Hamas da parte di gruppi LGBT, che forse ignorano – a voler essere caritatevoli – che un gay a Gaza, sotto il governo di Hamas, sarebbe ucciso, visto che nell’islam l’omosessualità è un peccato mortale.
Quando si parla di islam, sostiene sempre Bernard Lewis, “da una parte si intende una religione, un sistema di fede e di culto, dall’altra una civiltà che è cresciuta e fiorita sotto l’egida di questa religione”. La parola islam, perciò, denota più di quattordici secoli di storia, circa 1,8 miliardi di persone e una tradizione culturale e religiosa di grandi diversità.
“Come i cristiani – scrive Lewis nel suo libro “Crisi dell’Islam” – anche i musulmani credevano che la rivelazione che è stata data loro fosse rivolta a tutta l’umanità e perciò fosse loro sacro dovere portare la rivelazione a chi non ne era a conoscenza o non l’aveva ancora accettata. Si tratta di un obbligo che la legge sacra definisce col termine jihad, solitamente tradotto come guerra santa”. Un musulmano che muore combattendo per la causa dell’islam diviene shahid (martire) e gli è assicurato un posto in paradiso dove lo attendono 72 vergini. Ancora oggi il tema del martirio resta di grande di attualità. Nel confronto con i valori occidentali, i fondamentalisti spesso sottolineano che, a differenza dei primi che danno priorità alla vita, essi celebrano la morte nel nome della loro fede.
Per l’islam i musulmani, ovunque essi si trovino, appartengono alla stessa Umma, intendendo con questo termine l’intero mondo musulmano o comunità di credenti. Come concetto teologico trascende le divisioni nazionali, etniche o di classe per unire tutti i fedeli islamici. In questo senso l’islam è anche un’ideologia politica che però rischia di sollevare serie difficoltà dottrinali nel confronto con la concezione europea di stato-nazione che ha una sua dimensione territoriale definita, una chiara divisione di poteri, l’uguaglianza tra i cittadini e dei sessi, il pluralismo delle idee, dove la religione riguarda solo la sfera privata del cittadino ed è separata dallo stato.
Ayaan Hirsi Ali è una scrittrice di successo di origini somale, non più musulmana, che ora vive negli Stati Uniti, studiosa del rapporto tra l’islam e l’occidente, ha rivolto severe critiche all’islam e, per personale esperienza, alla condizione delle donne nell’islam e per questo è stata minacciata di morte da estremisti musulmani. L’ islam, afferma, non è solo una religione ma “una filosofia politica che stabilisce come dovrebbe essere costruita e governata una società ed è incompatibile con la democrazia liberale costituzionale americana o con qualunque tipo di governo laico”. Secondo Hirsi Ali, “i Fratelli Musulmani vogliono far rivivere una visione romantica, talvolta fittizia, dell’islam primordiale per superare le sfide che pone la modernità. L’ occidente ha una visione critica della sua storia ma per i fondamentalisti islamici ciò significa una condanna della religione, della giurisprudenza islamica e della validità della teocrazia islamica”. Essi, inoltre, pensano in termini di lotta secolare nel corso della quale si possono perdere numerose battaglie nella convinzione che l’esito finale sarà comunque vittorioso.
Per i fondamentalisti islamici, come i Fratelli Musulmani, il ricordo dei secoli in cui l’islam era in piena fioritura, mentre l’Europa era immersa nelle tenebre del Medio Evo, e dominava territori che andavano dalla penisola iberica ai confini con la Cina, esercita grande suggestione. L’ideologia dei Fratelli Musulmani afferma: “L’ Umma islamica può recuperare il suo potere, essere liberata e assumere la posizione che le spetta, come intendeva Allah, di nazione celebrata dagli uomini e di maestri dell’umanità …. il jihad e i preparativi per il jihad non hanno solo il fine di respingere le aggressioni e gli attacchi contro i musulmani da parte dei nemici di Allah ma hanno anche lo scopo di realizzare il grande obiettivo di stabilire uno stato islamico, di rafforzare la religione e di diffonderla nel mondo – … il jihad per Allah non è limitato alla sola regione degli stati islamici. La terra musulmana è una ed è indivisibile. La bandiera del jihad è già stata innalzata in alcune delle sue parti e, con l’aiuto di Allah, continuerà ad esserlo fino a quando ogni centimetro di terra dell’islam non sarà liberato e lo stato dell’islam ricostituito”.
C’è, o si può intravvedere, in questo manifesto, che è anche un programma, un senso di rivalsa e di rancore nei confronti della civiltà occidentale e dei suoi valori che riflette un grande dibattito all’interno dell’islam tra diverse scuole di pensiero. Un passo indietro nella storia. Nel secolo diciannovesimo era sotto gli occhi di tutti la decadenza dell’impero ottomano, che per secoli aveva portato la bandiera vittoriosa dell’islam a dominare su vaste aree del nord Africa, nel Levante e nei Balcani, sotto la guida di sultani, più o meno illustri. Era un impero che ricordava quello islamico finito con le invasioni mongole e la distruzione del califfato abbaside a Baghdad nel 1258.
Davanti al sempre più prepotente incalzare, politico, culturale ed economico, delle grandi potenze coloniali europee e alle loro intromissioni nella vita dell’impero, molti esponenti delle classi urbane più colte tra i sudditi del sultano si chiedevano cosa fare per arrestarne la decadenza. Fu un dibattito che, sebbene cominciato nel diciannovesimo secolo, nemmeno oggi si può dire concluso nel contesto dialettico di un confronto tra islam e occidente. Dove trovare la giusta risposta? Emersero diverse scuole di pensiero, che mi limito a menzionare in modo molto schematico, nella piena consapevolezza che si tratta di una materia complessa, ricca di sfumature, controversa, sulla quale esiste una bibliografia immensa.
Una corrente di pensiero, soprattutto in seno a chi allora aveva soggiornato e studiato a lungo in Europa ed era poi tornato in patria pieno di ammirazione per i suoi progressi scientifici e tecnologici, sosteneva che per rivitalizzare l’impero, ridargli forza e promuoverne lo sviluppo politico, culturale, economico e sociale bisognava adottare il modello statale occidentale nel quale tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro religione o etnia, avrebbero condiviso il senso di appartenenza a una nazione invece di un obbligo di fedeltà alla famiglia regnante.
In Egitto (formalmente parte dell’impero ottomano ma di fatto pienamente autonomo), uno dei maggiori esponenti di questa scuola liberale fu lo sceicco Rifa’a al-Tahtawi (1801-1873) che al Cairo fondò una scuola di traduzione in arabo della filosofia, letteratura e scienze occidentali, sforzandosi di conciliare il pensiero islamico con quello occidentale. Secondo la Farahat, al-Tahtawi fu pure un deciso difensore dei diritti delle donne, delle libertà individuali e dello stato di diritto occidentale.
Al tempo stesso prendeva anche piede, in un impero che era multietnico, anche l’idea di stati nazionali che traeva ispirazione dai movimenti indipendentisti europei. Tra alcuni dei suoi maggiori sostenitori, soprattutto in Libano e in Egitto, ci furono pure intellettuali arabi cristiani, per i quali era assai più facile identificarsi con l’idea di uno stato separato dalla religione piuttosto che con uno dichiaratamente islamico.
Un’altra corrente di pensiero, definita di modernisti islamici, ritenne che, nel rispetto degli immutabili principi fondamentali della religione, adeguamenti alla realtà moderna fossero possibili. Il suo maggiore esponente, Muhammad Abduh (1849-1905), che a sua volta si ispirava agli scritti di un giornalista e agitatore politico iraniano, Jamal al-Din al-Afgani (1839-1897), sosteneva che l’islam non era incompatibile con le basi della civiltà moderna. Nelle sue opere – afferma lo storico Albert Hourani – “emerge una distinzione tra le dottrine essenziali dell’islam e il suo insegnamento sociale e le sue leggi. Fermi restando i principi fondamentali della religione, in tema di leggi e di etica sociale si trattava di applicazioni riferite a circostanze particolari di certi principi generali contenuti nel Corano e accettabili dalla ragione umana. Quando cambiano le circostanze esse pure dovrebbero cambiare; nel mondo moderno è compito dei pensatori musulmani collegare cambiamenti di leggi e costumi ai principi immutabili e così facendo dare a loro limiti e direzione”. Questa visione dell’islam è stata assorbita da molti dei musulmani istruiti nel mondo arabo e al di fuori di questo.
Un’altra scuola di pensiero, con una visione fondamentalista dell’islam, fu formulata dal teologo salafita Rashid Rida, nato nel 1865 in Libano, ex Siria ottomana, e morto in Egitto nel 1935. Per Rida la causa dell’arretratezza dei paesi musulmani era conseguente al fatto che si erano allontanati dai veri fondamenti dell’islam, solo nei quali si potevano trovare tutti i principi necessari per la felicità in questo mondo e nell’aldilà. Principi che si potevano ritrovare tornando agli insegnamenti di Maometto e alle pratiche religiose dei primi califfi.
Politicamente Rida fu ostile alle correnti laiche e nazionaliste che solcavano il mondo islamico dopo l’abolizione del sultanato ottomano. Fu invece convinto sostenitore di un programma panislamista mirante alla ricostituzione di un califfato islamico. Nella sua concezione il califfo dovrebbe assumere il ruolo di interprete supremo dell’islam e fungere da guida dei governi musulmani, indirizzandoli nella giusta direzione di un islam adattato alle necessità della società moderna.
Rida ebbe una grande influenza su un altro importante esponente del fondamentalismo islamico: Hassan al-Banna, fondatore dei Fratelli Musulmani, movimento la cui presenza è diffusa non solo in tutto il mondo islamico ma sempre di più anche in occidente, spesso in modo indiretto, tramite organizzazioni e associazioni con nomi diversi. In diversi stati arabi sono considerati una minaccia dai regimi al potere e le loro attività sono vietate.
Al-Banna, nato nel 1906 in una famiglia di piccola borghesia fortemente religiosa, stabilitasi a Mahmidiya, un piccolo centro nell’Alto Delta del Nilo, mostrò sin da ragazzo un forte attaccamento alla religione. Formatosi al Cairo in una scuola per la preparazione di insegnanti elementari, fu assegnato nel 1927 a una scuola di Ismailia, dove, non diversamente dal Cairo e da Alessandria, si era insediata già negli anni di costruzione del canale di Suez (completato nel 1869) una forte comunità occidentale i cui costumi però cozzavano con quelli della popolazione musulmana locale, fortemente tradizionalista, religiosa e influenzata dai predicatori nelle moschee.
Al-Banna trovò in seno al popolino un terreno fertile di predicazione di un messaggio fondamentalista islamico e di condanna dell’influenza occidentale nella vita dello stato. Nel 1928 fondò il movimento dei Fratelli Musulmani che nel giro di pochi anni raccolse l’adesione di centinaia di migliaia di correligionari egiziani, secondo un modello che una sessantina di anni più tardi sarà adottato da Hamas nella striscia di Gaza. Nello stemma del movimento sopra due spade incrociate in campo verde c’è il Corano e sotto le spade una sola parola: “preparatevi”.
Al- Banna, nel concepire la struttura del movimento fu fortemente influenzato, secondo la studiosa egiziana, dai modelli di società segrete europee e affiancò a un apparato ufficiale, operante alla luce del sole, un altro segreto col compito di svolgere attività illegali. Nell’organigramma dei Fratelli Musulmani c’è al vertice un Ufficio di Guida Generale che conta una quindicina di membri e ha il compito di gestire tutte le attività non segrete del movimento e dei suoi diversi dipartimenti. Al di sotto c’è un Consiglio della Shura, che funziona come assemblea consultiva e conta oltre un centinaio di membri. L’apparato clandestino, del quale il movimento ora nega l’esistenza, ha tra le sue attività segrete il compito di fare proseliti tra i giovani e di scegliere tra questi quelli da sottoporre a un vero e proprio lavaggio del cervello ideologico per prepararli a future operazioni terroristiche.
Nella fase iniziale il movimento si limitò a svolgere attività sociali, assistenziali e, al tempo stesso, di proselitismo in seno al proletariato. In seguito, il suo messaggio divenne anche politico. Inizialmente fu di denuncia del trattato anglo-egiziano del 1936 col quale l’Egitto autorizzava lo stazionamento permanente di forze militari britanniche a protezione del canale di Suez; si schierò inoltre apertamente al fianco dei palestinesi nella lotta contro il mandato britannico e il progetto sionista di creare uno stato ebraico in Palestina. Si pose poi in conflitto col governo egiziano che accusò di essere asservito alla Gran Bretagna. In questa battaglia i Fratelli Musulmani adottarono anche metodi di lotta violenta, assassinando nel 1948 il primo ministro Mahmud al-Nokrashi. Al-Banna, a sua volta, fu ucciso nel 1949, a quanto pare, da agenti del governo egiziano.
Un altro esponente di spicco del movimento fu l’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966), insegnante, prolifico scrittore, studioso dell’islam e rivoluzionario. Qutb si avvicinò all’islam radicale dopo un passato laico. Tornato in patria nel 1950, dopo una missione di studio di due anni negli Stati Uniti, divenne critico feroce della società occidentale, denunciandone il materialismo, i costumi, i valori e anche la disinvoltura sessuale delle donne. Qutb aderì ai Fratelli Musulmani e ne assunse poi la guida. Inizialmente ben visti dal presidente egiziano Nasser, i Fratelli Musulmani furono banditi dal governo egiziano, che arrestò diversi suoi esponenti, tra i quali Qutb.
Rilasciato dopo dieci anni di carcere, Qutb fu di nuovo arrestato poco tempo dopo con l’accusa di partecipazione a un complotto per assassinare Nasser. Fu impiccato nel 1966. Molti studiosi dell’islam ritengono che le opere di Qutb abbiano ispirato note personalità del terrorismo islamico, come Osama Bin Laden, capo di Al Qaida, e mente dell’attacco contro le Torri Gemelle di New York. Qutb è ritenuto uno dei maggiori ispiratori dell’idea di stato islamico, adottata da tutti o quasi tutti i gruppi terroristici legati all’islam. Sembra che anche l’Ayatollah Khomeini avesse grande considerazione per le opere di Qutb che avrebbe pure tradotto o fatto tradurre in persiano. “C’è una guerra ideologica sull’anima dell’islam – afferma la Farahat – tra i riformisti non teocratici e le sette islamiche e sciite che mira alla vasta maggioranza dei musulmani e all’occidente”.
In quanto movimento panislamico, i Fratelli Musulmani sono presenti, apertamente o segretamente, in tutti gli stati musulmani o con una forte presenza musulmana. Una presenza che si esplica attraverso partiti o organizzazioni locali. In Medio Oriente ci sono stati come il Qatar e la Turchia del presidente Erdogan, per citarne alcuni, dove hanno trovato un clima favorevole. Non è per caso che gli esponenti politici di Hamas si sono stabiliti a Doha dove godono della benevola ospitalità dell’Emiro Tamim Bin Hamad al-Thani. In altri stati, come l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti non sono invece tollerati e sono banditi.
Approfittando delle libertà democratiche i Fratelli Musulmani e gruppi affiliati sono riusciti a infiltrarsi nella società occidentale, in particolare in Europa, Stati Uniti e Canada, con ramificazioni in Australia e Nuova Zelanda, tramite centri studi e associazioni dalle credenziali apparentemente insospettabili, per diffondere, dietro le quinte, un messaggio fondamentalista, prima di tutto in seno alle comunità musulmane, cominciando dai giovani. Con lo sguardo rivolto al lungo periodo sono riusciti a introdursi nelle organizzazioni studentesche musulmane e nei campus universitari, dove si formano le classi dirigenti future, e a diffondere così la loro interpretazione fortemente politicizzata dell’islam, spesso con connotazioni ostili agli ebrei. In quest’opera hanno goduto e godono del sostegno finanziario di stati come il Qatar le cui simpatie per i Fratelli Musulmani sono note.
Il Dipartimento per l’Istruzione degli Stati Uniti, in un’inchiesta condotta nel 2020, afferma: “Ci sono reali motivi per temere che fondi stranieri stiano comprando influenza e controllo sull’insegnamento e la ricerca”. Il dipartimento ha espresso particolare disagio per donazioni anonime dall’ Arabia Saudita e dal Qatar, oltre che dalla Cina e dalla Russia. Secondo un’indagine dell’analista politico americano Mitchell Bard, il totale dei contributi finanziari arabi, pubblici e privati, affluiti nelle università degli Stati Uniti, tra il 1986 e ottobre 2022, è stato di circa 11 miliardi di dollari.
Secondo una dettagliata analisi del fondamentalismo islamico in Europa dello studioso Lorenzo Vidino, lo sceicco Yusuf al-Qaradawi (1926-2022), considerato teologo ufficioso dei Fratelli Musulmani, definisce il movimento islamico come “l’attività organizzata e collettiva svolta dalla gente per riportare l’islam al suo ruolo di guida della società” al fine di ristabilire “in posizione di comando il sistema del califfato islamico come chiede la sharia”. In Europa i musulmani – seppure con diverso grado di attaccamento alla religione – sono 50 milioni e una presenza ormai radicata. Qaradawi propone perciò la costituzione di comunità musulmane “con proprie istituzioni religiose, educative e ricreative” in modo da formare “ghetti musulmani” nel contesto più ampio della società del paese. Il religioso lascia intendere che dovrebbe essere la sharia a disciplinare le relazioni all’interno di queste comunità. L’islam, afferma ancora, tornerà in Europa da vincitore e da conquistatore ma questa volta “non con la spada ma con la predicazione e l’ideologia”.
Le infiltrazioni del fondamentalismo islamico nella società occidentale sono un fenomeno pericoloso che, al livello di minaccia terroristica, impongono l’attenta vigilanza dei servizi di sicurezza. Sul piano ideologico, trovo condivisibile la tesi di Hirsi Ali quando, citando il filosofo austriaco Karl Popper, afferma: “Sarebbe certamente poco saggio sopprimere filosofie intolleranti fino a quando possiamo controbatterle con un ragionamento razionale e tenerle sotto il controllo dell’opinione pubblica. Ma dovremmo rivendicare il diritto di sopprimerle, se necessario con la forza. Dovremmo dichiarare che si pone al di fuori della legge ogni movimento che predichi l’intolleranza e dovremmo considerare criminali l’incitamento all’intolleranza e alla persecuzione nello stesso modo in cui consideriamo l’incitamento all’assassinio, al rapimento o alla ripresa del commercio degli schiavi”.
Giorgio Raccah – Giornalista – Già corrispondente dal Medio Oriente ed esperto dei problemi di quell’area