Lo spiegò bene l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, durante una conferenza stampa nell’aprile 2021, quando, rispondendo ad una domanda sul presidente turco Racyyp Erdogan, affermò in maniera franca e senza fronzoli che “di questi dittatori si ha bisogno per collaborare, o meglio cooperare per assicurare gli interessi del proprio paese”.
A seguito di questa dichiarazione molti si scandalizzarono, affermando che queste frasi legittimavano l’operato politico del “Sultano di Ankara”, responsabile tra le tante cose di porre in essere da tempo un regime autoritario, in cui viene limitata la libertà di stampa, vengono perseguitati gli omosessuali e ancora, dopo oltre un secolo, negato il genocidio armeno.
Ma quella frase fu un chiaro esempio di realismo politico, perché da un lato affermare davanti a tutto il mondo che un Paese si sta allontanando dallo Stato di diritto e dalle libertà fondamentali è chiaro segno di serietà e coscienziosità, dimostrando che anche nella cooperazione esprimere la diversità di vedute è fondamentale; ma dall’altro affermare l’utilità di un dittatore e di conseguenza la necessità di cooperarci è, al contempo, totalmente coerente con l’uso della politica quale strumento per perseguire gli interessi nazionali e garantire un equilibrio internazionale. Cooperazione che per il nostro Paese è indispensabile, innanzitutto, perché le relazioni commerciali fra Italia e Turchia sono ottime ed in continua crescita.
Basti pensare che, secondo i dati forniti recentemente da Assocamerestero, l’Italia è al quinto posto tra i maggior partner commerciali con 26,4 miliardi di interscambio totale ed una quota del 3,9% sul totale importato dalla Turchia, e il nostro Paese, in ambito UE, si piazza al secondo posto, dopo la Germania e prima della Francia, mentre nell’area del Mediterraneo è il primo partner commerciale della Turchia.
E l’altro aspetto fondamentale è il ruolo cruciale della Turchia (così come la Tunisia di Saied) per l’UE in tema di immigrazione, al fine di limitare il flusso di migranti e stabilizzare la Libia, in cui Ankara gioca da tempo un ruolo preponderante. Questi due aspetti, analizzati in questa sede in maniera decisamente breve dimostrano dunque quanto le parole di Draghi fossero piene di concretezza politica.
Oggi, dopo il viaggio della presidente Giorgia Meloni in Tunisia per la firma del memorandum, quella frase, e soprattutto quella strategia, ritorna attuale, dal momento in cui Il presidente tunisino Kais Saied fa parte di quella cerchia di autocrati e dittatori, con cui però è necessario, e politicamente opportuno, instaurare un dialogo. Il nostro presidente del Consiglio è, infatti, riuscito in questi mesi a ritagliarsi un ruolo di primo piano in questa importante partita nella quale il nostro Paese per posizione geografica doveva da tempo vestire i panni del protagonista, riuscendo a strappare nella giornata di domenica 16 luglio un maggior controllo alle frontiere in uno dei luoghi cruciali di partenza dall’Africa verso l’Italia. Non solo: come, infatti, ha dichiarato l’on. Meloni subito dopo la firma, questo memorandum potrà costituire il modello per nuove relazioni con i Paesi del Nord Africa.
Eppure, già da tempo diversi esponenti politici hanno criticato la missione di Meloni proprio per la ricerca di dialogo con Saied, accusato di aver attuato gradualmente una svolta autoritaria nel Paese, incarcerando gli oppositori politici e limitando fortemente i diritti civili. Beppe Provenzano, responsabile esteri del PD, un mese fa, puntò il dito contro Meloni per il “feeling con l’autocrate di Tunisi”, così come l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, mentre il capo servizi esteri della Stampa Domenico Quirico, autorevole giornalista ed esperto di politica internazionale, ha spesso parlato di umiliazione dell’Europa “che si siede a tavola con il dittatore”. Anche diverse Ong in questi giorni stanno criticando fortemente il patto stipulato, puntando il dito contro un’Europa che “sta diventando un luogo in cui i diritti umani vengono negoziati e svenduti dalla destra”.
Naturalmente nessuno mette in discussione il fatto che Saied, tramite un continuo processo di crescente autoritarismo, (di cui la stessa Meloni ha parlato durante la prima visita in Tunisia) abbia tradito le aspettative del 70% di tunisini che lo hanno votato quattro anni fa, e nemmeno che il Paese sotto la sua guida stia sprofondando dal punto di vista economico. Ma il realismo politico, la cosiddetta Realpolitik, ci spinge a dire che la missione di Meloni è importantissima non solo per il tema immigrazione di cui tanto e giustamente si parla, ma anche perché, come ha ricordato in maniera molto precisa Paola Sacchi su StartMag, la Tunisia rappresenta da sempre un baluardo contro il fondamentalismo islamico, e diversi statisti italiani, da Craxi ad Andreotti, hanno negli anni dialogato con questo Paese.
Ecco perché la missione di Meloni conclusasi per ora con la firma del memorandum Tunisia-UE, fa parte di quelle operazioni di realpolitik, in cui accordi con dittatori o autocrati sono elementi decisivi per garantire equilibrio geopolitico e perseguire, senza ipocrisie, interessi nazionali.
Se poi torniamo indietro negli anni, la storia ci dimostra come da sempre Paesi democratici istaurano rapporti con paesi autoritari e dittatoriali. È successo durante la Seconda guerra mondiale con Inghilterra, Stati Uniti e Francia schierati con l’Urss di Stalin, con il quale subito dopo la guerra venne addirittura decisa la polarizzazione del globo e la divisione del mondo in due aree.
Sempre gli Stati Uniti, in un classico esempio di realpolitik, appoggiarono fortemente Saddam Hussein durante la guerra Iran-Iraq, in quanto il dittatore iracheno rappresentava il bastione contro il più grande nemico degli Usa di quel periodo dopo l’Unione Sovietica, cioè il regime iraniano. Non si può poi non citare il sostegno, sempre statunitense, alla monarchia saudita sin dal 1945.
Si potrebbero portare tantissimi altri esempi, come il rapporto portato avanti da Berlusconi con Gheddafi e Mubarak nei primi anni del duemila, e osservare come, una volta venuti meno questi due dittatori a seguito delle rivolte delle Primavere arabe, sia iniziata una fortissima destabilizzazione che ancora oggi il nostro Paese paga in prima persona.
Attenzione, questo non significa accettare in silenzio violazioni di diritti da parte di questi Paesi, lasciare mano libera a questi dittatori e legittimarli a scapito delle popolazioni che subiscono le loro tirannie. Ma significa – ferme restando le condanne pubbliche (così come fece Draghi nel 2021 o la stessa Meloni poche settimane fa) e sottolineando le differenze e gli aspetti negativi di questi regimi- riconoscere l’importanza del pragmatismo della politica al fine di salvaguardare interessi nazionali e garantire l’equilibrio geopolitico, avviando magari (come nel caso del memorandum Tunisia-UE) una partnership con quel Paese, cercando magari al contempo di facilitare il varo, all’interno di quel Paese, di alcune riforme modernizzatrici.
Francesco Spartà – Giornalista, Tutor accademico