Le migrazioni sono consustanziali alla dimensione umana, e su questo credo che non ci piova. Siamo quel che siamo – e soprattutto siamo sopravvissuti a evi remoti assai più impervi di quello attuale che non è affatto facile di suo- perché abbiamo mescolato sangui diversi, irrobustito caratteri, imparato cose nuove che hanno fatto più forti le nostre vite.
Gesù fu un esempio universale di migrante e ognuno, nella sua famiglia italiana, se guarda con attenzione, estrae un parente che andò a cercar fortuna nelle Americhe, piuttosto che nell’Europa più ricca, o nel Nuovo Mondo degli oceani più remoti. I nostri figli oggi sono migranti: laureati, specializzati, colti: migranti di lusso, certo, per scelta professionale e non per mera sopravvivenza, chiaro, ma la cosa non è meno urticante per le famiglie e il Paese che li ha cresciuti, li ha formati, ha speso una piccola fortuna per prepararli e poi li vede andar via, perché qui da noi avrebbero un futuro “retrocesso”.
Il punto è che lo spostamento di masse in fuga dalle guerre e dai cataclismi mondiali, soprattutto nelle aree più calde del pianeta, e una di queste è l’Africa, rende complicata la gestione delle accoglienze nei paesi di approdo.
Adesso che la pandemia ha allentato la presa sui Paesi dell’Europa comunitaria, si riapre l’esodo, sospinto dalla buona stagione e dal perpetuo ribollire della Libia e delle altre aree critiche del medio-Oriente. Il warning è riferito ai migranti in rotta per le coste italiane, spagnole, greche, maltesi e cipriote: è l’Europa mediterranea che, a partire dalle primavere arabe, sopporta a nome del continente il carico di un impatto che ha conosciuto solo solidarietà formali dall’UE e nessuna concreta ipotesi risolutiva, tanto da far dichiarare al Presidente Mattarella, la cui prosa è un manuale di sobrietà istituzionale, che sui migranti Bruxelles mantiene “regole preistoriche”.
La nuova crisi migratoria nell’area mediterranea è l’esito di molti fattori, tra cui appare evidente il fallimento delle politiche di “esternalizzazione dei confini” praticato attraverso la devoluzione a Paesi terzi del compito di sigillare le frontiere, spostate ai limiti dei Paesi di emigrazione. A parte l’obiezione sull’uso controverso dei fondi europei destinati alla cooperazione ma impiegati per il pattugliamento militare delle frontiere, questa strategia, adottata in chiave di autotutela elettorale dei governi dei paesi membri UE per fronteggiare l’ondata sovranista, con evidente sottovalutazione dei profili di compatibilità con i diritti umani dei migranti, ha dimostrato di non funzionare.
Se non bastasse l’aggravamento dell’instabilità strutturale della Libia, il perdurare dell’inumana condizione in cui versano i migranti nei suoi centri di detenzione, la finzione di considerare quel paese come “zona sicura” alla stregua delle regole che la stessa UE si è data, sarebbe sufficiente ad illustrare il fallimento della politica europea di esternalizzazione l’ingloriosa fine dell’accordo del 2016 con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan per bloccare i migranti diretti in Europa dai teatri di crisi in Medio Oriente.
Il nuovo allarme su nuovi e ingenti flussi migratori nel Mediterraneo, comunque, è reale e certamente non può ritenersi frutto di eventi eccezionali e destinati a non ripetersi nel tempo. È necessaria, dunque, una presa di posizione urgente da parte delle istituzioni europee, che affronti il tema con risposte strutturali, tornando alle radici del problema che si chiama riforma del regolamento di Dublino.
Rispetto al passato, sostanziali passi avanti non si scorgono, soprattutto a favore dell’Europa mediterranea nel suo insieme, cui difetta, probabilmente, anche la capacità di assumere un’iniziativa corale che faccia sperare sulla consapevolezza del ruolo della parte meridionale dell’Unione nella dialettica politica del continente. Infatti, a fronte delle dichiarazioni di apertura e di condivisione formale, espresse dalla Presidente della Commissione Von der Leyen, a partire dal suo insediamento, passi concreti sul tema della riforma delle “Regole preistoriche” di Dublino, non se ne sono fatti. Né sono all’orizzonte ipotesi concrete di lavoro, che punti alla creazione di un’accoglienza poggiata su un meccanismo chiaro, di carattere obbligatorio ed automatico, per l’attribuzione della responsabilità sulle richieste di asilo, “fondato su una distribuzione pro quota per ogni Stato membro”.
L’obbligatorietà, contrapposta alla volontarietà e la gestione della ripartizione delle quote attraverso un sistema centralizzato a livello europeo, rappresenterebbe il vero elemento di novità rispetto al sistema vigente. Ma quella novità è stata sempre osteggiata dagli Stati membri del centro nord e dal gruppo di Visegrad (Ungheria, Cechia, Slovacchia e Polonia), qualche volta incontrando solidarietà sovraniste persino in qualche paese Mediterraneo. Ma basterebbero solo i veti di Visegrad , peraltro riabilitata al cospetto del mondo per la grande apertura ai profughi ucraini, per bloccare sempre tutto. Insomma: nella stagione delle “accoglienze selettive” concesse in base al colore della pelle c’è da domandarsi se possa esistere anche qualche altra via per affrontare la questione dei flussi migratori concretamente e senza ipocrisie, in attesa di una svolta normativa da parte dell’UE.
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Giovanni Piccolillo prova a disegnare un’ipotesi, che propone uno schema operativo inedito e destinato a sollevare discussioni e forse polemiche. Si muove in una logica che guarda da un lato alle città-Stato dell’Oriente Estremo, come Singapore o Hong Kong e dall’altro sembra rispondere al precetto, caro alla politica, dell’“aiutiamoli a casa loro”.
Il progetto Nuova Sirte
Come risolvere, allora, il problema dell’immigrazione? C’è un’alternativa a respingimenti, muri, sbarre, spesso drammatici quanto inefficaci? E come garantire a chi arriva un livello di vita civile e desiderabile per tutti?
La nostra visione è che una soluzione è possibile. Complessa, ambiziosa, ma concretamente realizzabile. Eccola.
L’idea è far nascere sulla costa africana del Mediterraneo un’enclave di civiltà, sicurezza e libertà sotto il controllo italiano o europeo in cui offrire asilo a tutti i migranti diretti in Italia. Assumeremo nel seguito – a titolo di esempio – di creare un protettorato italiano sulle coste della Libia, non escludendo altre soluzioni.
L’area di insediamento – che provvisoriamente chiameremo nuova Sirte – dovrebbe avere una dimensione adeguata: ad es. 150 chilometri di costa per 150 chilometri nell’entroterra. Un’area che potrebbe ospitare agevolmente oltre 10 mln di persone a una densità di abitanti metà di quella di Dubai, ma di minimo impatto in un territorio enorme come quello libico.
L’area dovrebbe essere posta sotto il controllo italiano in modo da garantire il rispetto dei diritti umani e civili degli abitanti, e la salvaguardia degli investimenti pubblici e privati. Sarebbe quindi sottratta alla giurisdizione libica, anche con un patto di restituzione a lungo termine (99 anni), in cambio di contropartite: un piano di opere civili, un corrispettivo in denaro e/o altro da concordare con il governo libico, in modo da garantirne la buona accettazione.
All’area, per il primo periodo, dovranno essere destinati fondi pubblici, attingendo a quelli attualmente stanziati dall’Italia e dall’Unione Europea per la gestione dell’immigrazione. E garantita sicurezza e il rispetto degli accordi internazionali, tramite un adeguato presidio militare.
Con i fondi a disposizione e il lavoro dei primi migranti, si realizzerebbe la prima infrastrutturazione: un porto, un aeroporto, strade, case, reti (acqua, fognature, energia), ospedali, scuole, università, carceri.
Da subito potrebbero cosi avere una collocazione stabile e un lavoro non solo gli espulsi dall’Italia ma chiunque, rispettando le regole democratiche costitutive della nuova entità, volesse accedervi.
Molte le opportunità di valorizzazione economica dell’area: produzione di energia eolica e solare, di idrogeno verde, turismo, agricoltura sostenibile, piscicoltura, artigianato, commercio, sviluppo immobiliare, etc.
Si tratta di tutte attività ad alta intensità di manodopera, in grado di offrire occasioni di lavoro a tutti gli immigrati, e anche a parecchie aziende italiane, configurando così un contesto civile e sostenibile.
Uno status di forte vantaggio fiscale (porto franco) potrà attirare in breve tempo consistenti investimenti privati e produrre lo sviluppo atteso della zona.
La possibilità di una espulsione semplificata e veloce dall’Italia verso il nuovo territorio riveste un ruolo fondamentale perché interromperà da subito le traversate e le morti in mare, rendendole inutili: sarà preferibile per un immigrato accedere direttamente al nuovo territorio con pieni diritti e un futuro desiderabile, piuttosto che sopportare costi e rischi per sbarcare clandestinamente in Italia, nella certezza di essere poi comunque lì facilmente espulso.
Trascorso il periodo iniziale Nuova Sirte diverrebbe dapprima economicamente autosufficiente, per poi svilupparsi intensivamente, contribuendo allo sviluppo delle aree circostanti, del nord Africa e del Mediterraneo.
Di certo si tratta di un’idea innovativa che muove da intenti solidaristici e non di chiusura. Un’idea capace di fornire una soluzione per milioni di persone. Certamente non semplice da realizzare, ma possibile e già realizzata in passato. Comunque una possibilità che si contrappone alle “soluzioni” attuali che inevitabilmente devono ricorrere alla violenza e alla coercizione contro persone nella massima parte in cerca di diritti e di libertà.
Vale la pena di rifletterci sopra.
Pino Pisicchio – Professore ordinario di Diritto Pubblico comparato – Già parlamentare, presidente di commissione e di gruppo, sottosegretario
Giovanni Piccolillo – Ingegnere