Le sanzioni non fermano le guerre e non abbattono i regimi

La guerra ucraina e il ritorno di Assad nella Lega araba ne sono conferma. Da oltre cento anni questo strumento peggiora le condizioni di vita dei popoli, ma non riesce a colpire quasi mai il cuore del potere politico, anzi, spesso lo consolida. Sempre attuale la frase di Gramsci ‘’la storia insegna ma non ha scolari’’.

Poco più di un anno fa, Nicolas Mulder, professore di Storia Moderna alla Cornell University, pubblicò un volume sull’uso delle sanzioni come strumento della guerra moderna (The Economic Weapon: The Rise of Sanctions as a Tool of Modern War), concentrandosi sull’aspetto più problematico, e al contempo decisivo, delle sanzioni, ossia il complesso rapporto tra le conseguenze e la loro efficacia.

Casualmente, il libro venne pubblicato esattamente un mese prima dell’invasione della Russia in Ucraina, e Mulder nei mesi successivi rilasciò diverse interviste sull’efficacia delle sanzioni al Cremlino, ponendo qualche interrogativo sulla capacità di queste ultime di riportare la pace e la sicurezza.

È sicuramente innegabile che le sanzioni abbiano messo in difficoltà la Russia dal punto di vista economico (sanzioni che, ricordiamo, l’Unione Europea attua in maniera progressiva sin dal marzo del 2014, un mese dopo l’invasione della Crimea).

Ma, come ha affermato Mulder, se l’obiettivo era quello di disincentivare Putin dal proseguire una guerra logorante o di porre le condizioni per l’inizio di una trattativa di pace, purtroppo bisogna constatare che si è ancora lontanissimi dal raggiungimento del risultato.

Ancora una volta, dunque, l’iconica frase gramsciana, “la storia insegna, ma non ha scolari”, si dimostra quanto mai vera ed attuale, dal momento in cui, se si analizzano gli effetti e le conseguenze delle sanzioni negli ultimi cento anni, ossia da quando sono diventate uno strumento per evitare i conflitti, regolare i rapporti tra gli stati e punire i soggetti responsabili di gravi crimini, risulterà evidente che spesso sono risultate inefficaci, soprattutto per l’abbattimento dei regimi totalitari.

Il nostro Paese può prendere come esempio le sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni nel 1935 a seguito dell’invasione dell’Etiopia, che non misero assolutamente in ginocchio l’Italia, anzi fornirono al regime fascista e alla retorica mussoliniana il pretesto per rafforzare il consenso interno e avvicinarsi sempre più alla Germania nazista, con le conseguenze che tutti, purtroppo, ricordiamo.

Anche a Cuba, l’embargo, che ha peggiorato fortemente la vita degli abitanti nel corso degli anni, non è riuscito a liquidare il regime socialista, con il sistema castrista che ancora resiste, nonostante le condizioni del Paese continuino ad essere disastrose. Non si può poi non citare il fallimento delle sanzioni inflitte all’Iraq dopo l’invasione del Kuwait nell’estate del 1990, che non impedirono né lo scoppio della prima guerra del Golfo né il mantenimento del potere di Saddam Hussein sino al 2003, con il conseguente collasso del Paese e le disastrose ripercussioni sulla popolazione.

Si potrebbero citare tantissimi altri casi, come quello della Corea del Nord, nei cui confronti Stati Uniti e UE continuano ad applicare sanzioni (ultima quella approvata congiuntamente da USA, Corea del Sud e Giappone il primo dicembre scorso), su cui però da tempo si discute sulla reale efficacia, anche in questo caso soprattutto in relazione agli enormi effetti collaterali che provocano in termini umanitari.

Sicuramente vi sono stati dei casi in cui le sanzioni sono state utili, come ad esempio quelle applicate nei confronti dell’Iran, riuscendo nel 2015 a portare il Paese al tavolo negoziale sulla limitazione del suo programma nucleare, o durante la crisi di Suez del 1956, quando gli Stati Uniti minacciarono di vendere le riserve statunitensi della sterlina, obbligando di conseguenza l’Inghilterra (con Francia e Israele) ad un cessate il fuoco. Ma difficilmente sono state uno strumento utile ai fini di un cambio di regime.

L’ultima recentissima prova di come le sanzioni non riescano ad abbattere dittatori ed autocrati, è la riammissione della Siria all’interno della Lega Araba, dalla quale era stata sospesa nel novembre del 2011 a seguito della violenta repressione attuata dal presidente Bashar al Assad nei confronti degli oppositori del regime, sfociata poi nella guerra civile (ancora in corso) che ha dilaniato il Paese con mezzo milione di morti e oltre 5 milioni di sfollati (dati, secondo l’Unchr, in continuo aumento da mesi a seguito del terremoto del 6 febbraio).

Le sanzioni, scattate per la prima volta nel 2011 per via statunitense ed europea, e dirette sia ad Assad e alla sua famiglia, sia ai funzionari del governo e agli imprenditori che lo sostengono, hanno riguardato embargo sulle importazioni di petrolio, restrizioni sull’esportazione di tecnologie e limitazioni agli investimenti dovuti al congelamento di fondi di investitori legati ad Assad.

Tutto questo, nel corso degli anni, ha ostacolato qualsiasi forma di ricostruzione del Paese, senza al contempo impedire la normalizzazione (ormai totalmente compiuta) del regime siriano.

A pagare il prezzo delle pesanti sanzioni, anche questa volta non è stato l’autocrate, ma il popolo, così come i venezuelani che da anni pagano una crisi umanitaria enorme, mentre Maduro rimane saldo al suo posto, così come tutti gli esempi sinora citati.

Diverse e autorevoli sono le voci che continuano a chiedere lo stop alle sanzioni (a seguito del terremoto gli USA hanno deciso di sospendere per sei mesi una delle numerose sanzioni imposte alla Siria per facilitare l’arrivo degli aiuti umanitari), dalla Comunità di Sant’Egidio a vari esponenti del mondo della Chiesa, tra cui l’arcivescovo cattolico greco-melchita di Aleppo monsignor Jean-Clément Jeanbart, il quale da tempo afferma che “le sanzioni commerciali e finanziarie impediscono la ricostruzione, la riabilitazione e la rinascita economica della Siria”.

È necessario, inoltre, constatare che l’isolamento internazionale imposto alla Siria, sin dall’amministrazione Bush, fu dal punto di vista geopolitico un errore di calcolo perché istigò il regime ad avvicinarsi proprio a chi non si voleva, cioè l’Iran, anch’esso ostracizzato da Washington, facilitando la narrazione di Assad nel definire Iran, Hamas in Palestina e Hezbollah “Asse della Resistenza” contro Stati Uniti ed Israele.

Adesso, la riammissione di Damasco nella Lega Araba costringerà gli Stati Uniti e l’Unione Europea a ripensare il loro approccio verso il presidente siriano (che già da qualche mese sta riallacciando i rapporti con Erdogan). Questa situazione costituirebbe un’ulteriore vittoria per Assad, il quale va sempre più incontro ad una riabilitazione totale, senza pagare alcun prezzo per i crimini commessi durante questi dodici anni di guerra civile.

Ecco perché dopo altrettanti anni di sanzioni inflitte al dittatore siriano, possiamo dire che le conseguenze più pesanti sono state pagate dalla popolazione e non da Assad e dai suoi sherpa.

È sicuramente vero che, come afferma l’Economist nel suo penultimo numero, se le sanzioni non sono in grado di deporre Assad, non significa che siano inutili, dal momento in cui possono dare un incentivo a lui ed ai vari dittatori nei cui confronti vengono applicate, a migliorare certi comportamenti, e che in questi casi anche piccolissimi progressi a beneficio della popolazione valga la pena di coglierli.

Ma finora, tenendo conto dei precedenti storici e del rapporto costi-benefici delle sanzioni applicate, siamo obbligati a chiederci: vale la pena che civili non colpevoli delle condotte dei despoti che li governano, subiscano gli effetti negativi delle sanzioni (crisi alimentare, mancanza di farmaci e dei servizi igienico-sanitari, assenza di elettricità e di acqua pulita), per un conflitto che non hanno scelto, senza che queste sanzioni si dimostrino strumenti in grado di favorire cambi di regime?

 

 

Francesco SpartàGiornalista

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