È meglio creare un amore o un’opera d’arte? Ci vuole una ‘’bella confusione’’ per diventare scrittori

(Sul libro di Francesco Piccolo, La bella confusione, Einaudi 2022)

La serata nel salotto di Enrico Steiner con il quadro di Felice Casorati, Le due sorelle (Libro aperto e libro chiuso), 1921, 121,5 x 119 cm, tempera su tavola, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto / Collezione VAF-Stiftung, INV. MART 10495 (qui la scheda nel catalogo online del MART: https://www.mart.tn.it/opere/le-due-sorelle-libro-aperto-e-libro-chiuso-110419), e una natura morta di Giorgio Morandi in La dolce vita. Regia: Federico Fellini. Produzione: Riama Film (Roma), Pathé Consortium Cinéma (Parigi) (Italia-Francia, 1960)

 

I film di Fellini non mi piacciono. Li ho visti quasi tutti diverse volte (tranne Il bidone), provando sempre un forte senso di inadeguatezza: Fellini è considerato un genio e, siccome non riesco a farmi coinvolgere dalle opere di un genio, di fronte ai suoi film nutro dubbi sul grado effettivo della mia intelligenza.

A sedici anni ho visto La dolce vita tre volte in videocassetta, volevo farmelo piacere a tutti i costi. Solo negli ultimi anni, rivedendo La dolce vita quando capitava (o decidendo di rivederlo, come ho fatto tre sere fa), ne ho finalmente apprezzato molto il lato figurativo e il lato tragico (mi godo meglio l’episodio a casa del futuro omicida-suicida Enrico Steiner/Alain Cuny, con il discorso su uno dei due quadri di Morandi e Libro chiuso e libro aperto di Casorati sullo sfondo del salotto, un’opera che ora è al MART di  Rovereto). Digerisco sempre a fatica a 8 ½, in cui la scena che mi piace veramente non nacque per essere montata nel film: il girotondo-parata finale sarebbe dovuto essere il trailer del film (però tutto quel compiacimento per l’iconografia e le sonorità dei circhi, fondamentali per Fellini, non mi va: a me il circo mette tristezza).

 

 

Pur se non riesco a farmi coinvolgere profondamente dai film di Fellini, ne apprezzo ovviamente molti aspetti. Per esempio, sono tutta contenta di vedere la fine miserabile che Fellini si inventa per quelli che fanno mestieri intellettuali, soprattutto se sono supponenti o troppo compresi nel recitare il proprio ruolo: “l’intellettuale è per Fellini sempre un disperato, che nel migliore dei casi s’impicca come in 8 ½, e quando gli scappa la mano come nella Dolce vita si spara dopo aver massacrato i figlioletti”.

L’analisi è di Italo Calvino, però è imprecisa sulla fine di Carini, che in 8 ½ non si suicida, ma viene impiccato in sala di proiezione da due scherani di Guido, che con un gesto sogna di liberarsi finalmente del tremendo grillo parlante. Le parole di Calvino su Fellini stanno in Autobiografia di uno spettatore del 1974, stampate come premessa a Federico Fellini, Fare un film (con una nota di Liliana Betti e una guida filmografica e bibliografica, Einaudi 1980 e 2015, p. XXII).

Fare un film è un’antologia che ricompone in un racconto diacronico diverse fonti felliniane, aspirando a offrire un profilo della formazione e del percorso da regista di Fellini. Quando Fellini riflette seriamente sugli intellettuali che parlano e scrivono di cose che quasi sempre non hanno mai fatto, offre un’analisi condivisibile (cedo pure io ai tic di scrittura che irritavano Fellini e non ci rinuncio neanche ora, mentre scrivo): “Ma come si fa, invece, ad essere d’accordo con quei critici che per la più modesta delle occasioni sbandierano immotivatamente la loro erudizione, trascrivono interi passaggi dei libri che hanno in biblioteca, confondono e si confondono in un mare di citazioni (per me sono anche un po’ maleducati) e parlano col distacco di chi sacerdotalmente riferisce il verbo della cultura, che poi sarebbe incarnato in loro, come sotto sotto mostrano di credere?” (Fare un film, p. 173).

Oltre che sulla visione degli intellettuali, concordo con Fellini sulla valutazione degli aristocratici privi di talenti, valida anche per i ricchi privi di talenti e, oggi, per quelli che ci governano intestardendosi a estendere la loro fierissima ignoranza made in Italy pure a coloro che non li hanno votati: “Il sentimento che si prova tra loro è l’imbarazzo: non si sa di che parlare, fanno domande mortificanti, non leggono. L’ignoranza è intesa come un diritto. […] Gli argomenti che li svegliano un po’ sono gli espropri, le tasse” (p. 146).

Mi sento un po’ meno distante da Fellini anche quando manifesta sensibilità per la storia dell’arte e per l’artigianato, coltivati fin da giovanissimo anche grazie alla familiarità con studi di artisti di provincia. Grazie a queste occasioni, Fellini apprezzava la scultura, raramente presente nel bagaglio culturale dei registi, più vicini, come è logico, al linguaggio più cinematografico della pittura. Ecco una carrellata di sue affermazioni affidate a Fare un film:

“L’altra mattina, sulla porta, sono apparsi mazzi di rose, come in un quadro del Botticelli” (p. 7); “Quando penso a Gambettola, a una monaca alta due centimetri, ai gobbi al lume del fuoco, agli sciancati dietro i tavolacci, mi viene sempre in mente Hieronymus Bosch” (p. 14). “Non avevo mai visto l’interno di una chiesa dopo il tramonto. Era immensa, altissima, il rumore dei passi risuonava in alto, nel buio, sotto le volte, come se un altro camminasse appresso a me lassù in aria. In fondo, vicino all’altare, in mezzo a una selva di ceri accesi, c’era Bonfante Bonfantoni, che era un pittore e lavorava a un grande affresco sul muro: Le sette piaghe d’Egitto. E io dovevo far da modello, non so per quale piaga, ma forse, poiché da ragazzino ero molto magro, si trattava di rappresentare la carestia” (p. 23).

“Ecco; da bambino costruivo da solo dei burattini. Prima li disegnavo sul cartone, poi li ritagliavo, infine mettevo insieme le teste con la creta o con l’ovatta imbevuta di colla. Di fronte a casa nostra c’era un giovanottone con la barba rossa, faceva lo scultore e veniva spesso a curiosare nel magazzino alimentare di mio padre esaltandosi davanti alle grandi forme nere e panciute di parmigiano. Per lui erano “pezzi di arte pura”. […] Un giorno mi vide in un angolino che pastrocchiavo per conto mio e mi insegnò a usare il gesso liquido e la plastilina. Fabbricavo da me anche i colori schiacciando i mattoni e riducendoli in polvere. […] Più avanti c’erano due fratelli gemelli, falegnami […]; anche nella loro bottega mi piaceva passare del tempo e portavo via delle tavolette di legno dolce. Insomma se ci ripenso mi pare che per me la fantasia è sempre stata legata al lavoro artigianale” (pp. 41-42).

“Seguendo Rossellini mentre girava Paisà mi parve improvvisamente chiaro, una gioiosa rivelazione, che […] i drammi, le fatiche, non erano poi molto diversi da quelli che soffre il pittore quando cerca sulla tela un tono e lo scrittore che cancella e riscrive, corregge e ricomincia, alla ricerca di un modo espressivo che, impalpabile e sfuggente, vive nascosto tra mille possibilità” (p. 45).

“Più tardi, mi capitò in mano il saggio di Jung su Picasso e ne rimasi abbagliato” (p. 92). “Picasso aveva disegnato cartoni: un successo enorme” (p. 109). Ci scappa pure un’immagine della realtà quotidiana in movimento, da Segno di energia di Schifano: “sto bene in macchina, con le immagini fluttuanti al di là del finestrino; e non riesco a immaginarmi nella situazione di quiete della vacanza” (p. 93). “Il pittore dà al suo quadro una luce ferma, fissa, immutabile, dove il colore è e resta così come è stato espresso” (p. 95).

C’è poi una lettura intelligente del rapporto instaurato dagli artisti rinascimentali con la tradizione classica: “Gli umanisti del Rinascimento si sono serviti dell’antichità per giustificarsi, esprimersi, proiettando sull’antichità una loro idea precostituita dell’antichità” (p. 101). Mentre immagina come può configurarsi il personaggio della “ragazza delle terme” affidato a Claudia Cardinale in Otto e ½, Fellini pensa a un contesto di provenienza che lega la storia dell’arte a una dimensione onirica; l’idea iniziale resta parzialmente nella sceneggiatura e Mastroianni la recita: “lei potrebbe essere la figlia del custode della pinacoteca del paese. Tutto uguale come atmosfera amorosa e familiare, in più la ragazza mostra al protagonista un quadro meraviglioso mezzo imballato in un angolo dello squallido camerone. Può essere il ritratto di una bella italiana del Cinquecento” (p. 78).

Se molte cose apprezzo, molte, forse troppe, mi infastidiscono anche nei veri e propri capolavori del regista. Ben prima dei movimenti neofemministi e del “Me too”, nei film di Fellini mi irritava la presentazione monolitica delle donne come oggetti, intellettualmente inferiori agli uomini e acquiescenti, per contratto, per piacere, per inferiorità intellettuale o per mercimonio. Mi infastidiva vedere che chi è donna in qualche modo si vende o è sempre prigioniera di un rapporto segnato da inevitabile sottomissione a un marito/compagno infedele, infantile e che cerca continue conferme della sua presunta irresistibilità.

Mi infastidisce il feticismo petulante insincero del regista per Giulietta Masina come attrice, che pare quasi un risarcimento per i tradimenti multipli perpetrati dal marito alla moglie. Mi rendo conto di ridurre la questione a un ragionamento un poco bacchettone e che finisco mio malgrado per ragionare come quella “ragazzetta” che si rivolse a Fellini così: “Lei, signor Fellini, fa film solo sulle puttane? Ma una donna che lavora, un’intellettuale, un’operaia, una donna vera, normale, non l’ha mai incontrata lei, signor Fellini?” (lo racconta divertito Fellini in Fare un film, p. 79).

Però, alla fine, la leggerezza prevale sulle valutazioni serie e mi diverto pure io. Mi piacque guardare a vent’anni per la prima volta il moralista Peppino De Filippo destabilizzato dai suoi incombenti scollacciati fantasmi erotici nell’episodio del Dottor Antonio in Boccaccio ’70 (anche se il Dottor Antonio è l’ennesima ripetizione di quelle trite e ritrite scene di seduzione solo fisica che tanto piacciono al regista).

Tuttavia in Boccaccio ’70 preferisco di gran lunga gli episodi diretti da Mario Monicelli e da Luchino Visconti, ispirati rispettivamente a Manzoni e a Maupassant. In Il lavoro, in particolare, Visconti copre eloquentemente la brillante infelicità di Pupe (Romy Schneider) col tweed di Chanel (comunque, Fellini spiega l’aspetto per me più interessante di Dottor Antonio in Fare un film, pp. 93-94, dove condivide osservazioni tecniche sui problemi di viraggio del colore dei marmi dell’EUR sotto la luce naturale di cui si accorge solo dopo avere girato, in proiezione).

Nei film di Fellini mi infastidisce anche un altro aspetto: hanno spesso una trama flebilissima senza che l’assenza di essa sia sostituita da una profondità introspettiva tale da lasciare senza fiato o da una dimensione visiva molto sostenuta; ma si tratta, probabilmente, di una mia forma di prevenzione, perché con altre trame semplici non mi succede (poche settimane fa mi sono smammolata di fronte alle trovate visive di Wes Anderson in Il capolavoro di cemento, che è una geniale versione del racconto feticcio per gli artisti del Novecento, Il capolavoro sconosciuto di Balzac: è andata che l’ho riguardato quattro volte in due giorni).

Fellini mi risulta addirittura insopportabile quando si atteggia a ignorante (come certi che fingono di non sapere credendo di stupire, provocando nell’interlocutore solo un’irrefrenabile voglia di darsela a gambe): “Non conosco i classici del cinema: Murnau, Dreyer, Eisenstein, vergognosamente non li ho mai visti”; “Anche al Casanova ho pensato, ma come si fa a leggerlo? […] È Flaiano che insiste sul Casanova, mi ripete spesso che leggerlo è per lui un riposo, un divertimento, lo ha sempre a portata di mano, insomma gli piace proprio. Anche Comisso stravede per Casanova. Ma perché questo soffocante interminabile librone piace tanto agli intellettuali?” (Fare un film, pp. 42, 85).

Fellini legge e apprezza il Satyricon, ma solo perché è breve; forse per le stesse ragioni conosce bene Kafka (l’ammirazione per lo scrittore è, però, comune alla maggior parte dei massimi artisti performativi attivi al cinema e in teatro nati nel Novecento, da Carmelo Bene a Orson Welles a Vittorio Gassman a Ulay): “mi sento come uno che per motivi che non conosce è stato imprigionato, irretito in un disegno che gli sfugge, come il protagonista del Colpo al portone di Kafka; un atto irrilevante mette in moto un oscuro processo, un’inevitabile condanna. Il film come punizione, espiazione…” (p. 175 di Fare un film).

Poi però Fellini tiene a raccontare che a scuola il suo gioco preferito era “la pugna”: con i suoi compagni recitava scene dell’Iliade, dei quali ognuno mandava a memoria i versi di un personaggio fino a identificarsi in esso e a subirne, in qualche modo, la sorte (Fare un film, pp. 12, 17-18, 34). Fellini legge le Memorie di Casanova costretto dal contratto per il film con Donald Sutherland protagonista.

A uno dei più prolifici sceneggiatori e registi italiani, Enrico Vanzina, che ha frequentato Ennio Flaiano, le amatissime Memorie di Casanova sono servite per la vivace trama del suo ultimo romanzo giallo, Il cadavere del Canal grande (del quale abbiamo scritto insieme qui: https://beemagazine.it/louvre-mon-amour-enrico-vanzina-racconta-a-floriana-conte-i-ricordi-figurativi-di-uno-scrittore-per-il-cinema/), in cui giocano anche tanti altri riferimenti cinematografici e letterari.

Un altro uomo di cinema, Gabriele Salvatores, ha dedicato a Casanova il suo ultimo film, Il ritorno di Casanova (nelle sale dal 30 marzo), nel quale il regista fa i conti con Otto e ½ senza farne un remake, ispirandosi fin dal titolo a Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler (scritto dall’autore del più straordinario monologo femminile del Novecento, La signorina Else).

 

La copertina della ristampa di Il ritorno di Casanova messa in commercio il 21 marzo in prossimità della prima del film Il ritorno di Casanova al BiF&st di Bari il 25 marzo

 

 

Fabrizio Bentivoglio e Toni Servillo in Il ritorno di Casanova. Regia: Gabriele Salvatores. Produzione: Indiana Production, Babe Film, Rai Cinema, Edi Effetti Digitali Italiani (Italia-Francia, 2023)

 

 

La colonna sonora di una bella scena di Il ritorno di Casanova (è nel trailer del film) è una delle più toccanti e ironiche canzoni mai scritte sul fallimento, Piano Man di Billy Joel. Contiene un verso emblematico del ruolo che l’arte, quando è davvero tale, ha sullo spettatore: un libro, una statua, un quadro, una musica, il teatro, un film, servono anche “to forget about life for a while”. Un effetto che dovrebbe avere anche l’amore: lo ricorda la scena finale del film (sottolineata dalla canzone premiata con l’Oscar Que sera, sera, cantata da Doris Day in L’uomo che sapeva troppo), che si chiude con l’invito a vivere senza paura di ciò che riserva il tempo che passa e a essere diversi da sé stessi, se rischiare aiuta a vivere meglio (ma è solo un film, appunto).

Insomma, davanti ai film di Fellini mi ero convinta che, perché i film di Fellini mi parlassero come mi parlavano quelli di Visconti, avrei dovuto studiare tanto e vedere e rivedere tanti altri film, così avrei avuto finalmente una sorta di rivelazione. Per quanto riguarda il mio mestiere, ho fatto la stessa cosa con Raffaello, del quale non ho compreso sul serio la grandezza fino ai miei ventitré anni (è un tratto comune ad altri storici dell’arte che conosco: non credete a chi vi dice che non gli è mai successo di sentirsi inadeguato davanti alle cose apparentemente prive di rovelli di Raffaello).

Di Raffaello comprendi la genialità universale solo quando, dopo mille letture, mille opere d’arte viste, riviste e confrontate, maturi almeno un po’ pure tu e sai e hai visto più cose. Con i film di Fellini è andata solo parzialmente come con le opere di Raffaello: negli ultimi anni ho finalmente apprezzato di più 8 ½  e soprattutto La dolce vita, anche per aspetti che riguardano proprio il mio mestiere. Per scrivere questo articolo ho rivisto entrambi i film.

La sollecitazione è arrivata dalla lettura del libro che in queste settimane Francesco Piccolo sta presentando in tutta Italia: La bella confusione, uscito da Einaudi. Piccolo è molto noto come sceneggiatore: ha scritto la sceneggiatura di due serie che possono causare dipendenza, L’amica geniale e La vita bugiarda degli adulti, e ha lavorato alle sceneggiature di film di Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Paolo Virzì. Di recente si è visto anche interpretare sé stesso sugli schermi cinematografici perché è uno degli interlocutori di Mario Martone nel bel documentario Lassù qualcuno mi ama (presentato alla 73ma edizione della Berlinale e il cui esordio mi ha spiegato che per capire i film di Massimo Troisi bisogna guardarli alla luce di quelli di Truffaut).

 

 

La bella confusione racconta in parallelo la realizzazione di Il Gattopardo di Visconti e di 8 ½ di Fellini nel 1963 e la responsabilità che il libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il film di Fellini hanno avuto nella vocazione alla scrittura di Francesco Piccolo.

Lo scrittore spiega che ciò che lo ha “condizionato di più nella” sua “idea di letteratura” è stato 8 ½: “è perché mi sono seduto davanti alla tv, ho visto 8 ½   e ho continuato a vederlo per mesi perché capivo che lì dentro c’era qualcosa che mi spingeva a pensare: anche io devo esprimermi e fare qualcosa” (p. 261). Prima ancora, ha appreso il piacere sistematico per la lettura e si è messo a scrivere egli stesso perché quando era uno studente liceale, per un compito assegnatogli, ha scelto di leggere Il Gattopardo.

Francesco Piccolo da ragazzo era talmente ossessionato da Otto ½ da rivederlo in videocassetta tutti i pomeriggi e da indurre il fratello a coniare per lui il soprannome “Fellini”, con il quale anche gli altri familiari si rivolgevano a lui senza alcuna intenzione di sfotterlo (p. 102): “Era diventato il mio soprannome. E il resto della famiglia gli rispondeva dicendo cosa facevo e dov’ero, come se io mi chiamassi ormai così. Ma dietro quel sarcasmo, mio fratello era davvero incredulo, pensava fossi impazzito. Il fatto che vedessi e rivedessi lo stesso film, e che poi quando arrivò la videocassetta di Amarcord lo alternassi con Amarcord, gli sembrava il comportamento di un folle”.

L’ossessione di Piccolo per 8 ½, manifestata solo in famiglia, svela al ragazzo che farà lo scrittore e che si occuperà di cinema: “Quando vivevo ancora a Caserta e pensavo di voler scrivere e soprattutto ero completamente immerso in questa euforia appassionata – ero abbonato a riviste letterarie e cinematografiche, compravo settimanali, leggevo libri, vedevo film, compravo videocassette; ritagliavo articoli, conservavo gli inserti culturali.

L’“autobiografia è una delle questioni fondamentali di questo libro e quindi non ho nessuna intenzione di sfuggirle”, dichiara Piccolo (a p. 179). Le parti più originali di La bella confusione sono infatti quelle, dichiaratamente autobiografiche, che Piccolo dedica alla genesi e alle ragioni del mestiere di scrittore: sono pagine ricche di verità, nelle quali qualcuno si potrà riconoscere, e nelle quali si rinnova lo spirito di certi giovani di provincia ambiziosi e pieni di talento raccontati da Balzac (Balzac stesso, del resto, scrive accanitamente tante cose contemporaneamente, cercando attraverso il lavoro matto e disperatissimo una via d’uscita a una vita da migliorare); si scorge in controluce anche la mania di Fabietto Schisa, l’alter ego del giovane Paolo Sorrentino che in È stata la mano di Dio guarda sempre la videocassetta di C’era una volta in America.

La descrizione della vita quotidiana di chi fa mestieri connessi alla scrittura è da mandare a memoria anche per chi a leggere libri non è abituato e non sa, non capisce, che ogni libro non è un successo piccolo o grande ma una punizione, che sottrae chi l’ha scritto ai rapporti umani due volte, prima mentre scrive, poi quando il libro esce perché suscita reazioni contrastanti tra le persone vicine e lontane: “Uno scrittore, secondo me, assomiglia molto agli introversi, e un po’ perfino ai sociopatici. In pratica il suo sistema di vita è organizzato intorno a un luogo chiuso, davanti a un computer, e si basa sul tentativo di avere a disposizione una giornata vuota. E quindi uno scrittore […] usa e ha potuto usare come me il tempo per la quarantena come un tempo perfetto per andare avanti; e andare avanti voleva dire anche andare avanti in un mondo che in fondo non andava avanti, ed era anche esaltante per certi aspetti. È un po’ come quando si lavora di domenica, o quando si lavora ad agosto: tutti sono fermi e tu recuperi terreno sulla vita e sul mondo. Questa sensazione qui per qualche mese è stata forte”(pp. 112-113).

La bella confusione è uno dei libri che sono nati anche grazie all’isolamento da Covid 19. Come è successo a molti professionisti della scrittura, il periodo della peste è servito per fare autoanalisi attraverso la scrittura autobiografica, facendo emergere coraggiosamente o autoironicamente racconti, passioni, esigenze narrative e scientifiche che la corsa della vita precedente, o a volte il buonsenso, avevano obbligato a mettere da parte. Solo chi scrive sa bene che, già in condizioni prive di emergenze, l’arte, propria o soprattutto altrui, aiuta “to forget about life for a while”, a stare da un’altra parte e a fuggire per molte ore al giorno da una vita che altrimenti in certi casi sarebbe impossibile, o noiosa, da vivere fino in fondo.

Francesco Piccolo ha beneficiato di questo incantamento reso possibile solo dalla creazione, come spiega a p. 113: “Ma questo libro in particolare, al contrario di tutti quelli che ho scritto finora, mi ha aiutato a tenermi lontano, fuori dal presente. Ero nel 1954, nel 1962, nel 1963, in un mondo distante da quello che stavo vivendo, chiuso in casa e in isolamento. Questo libro mi ha permesso di vivere gran parte della giornata con la testa lontana da quello che succedeva intorno”.

Poi c’è un’altra rivelazione, altrettanto sincera. Alla fase più dura della pandemia Piccolo ha reagito positivamente: si è dedicato alla scrittura. Molti hanno approfittato di quel tempo insperato per scrivere o finire libri e gettare le basi per rapporti lavorativi che, naturalmente, poi hanno richiesto incontri in carne e ossa. Chi di mestiere fa lo scrittore e, per farlo, deve stare molto tempo da solo, schivando le necessarie incombenze quotidiane, e chi, per necessità o imposizione altrui, passa molto tempo in un luogo che ne limita possibilità e desideri, durante il primo anno di pandemia si è sentito libero, invincibile, perfino superiore agli altri, perché poteva finalmente fare tutto quello che aveva lasciato indietro e la gabbia in cui stare rinchiusi non era più un’eccezione, riguardava anche tutti gli altri.

E allora la sfida diventava: “vediamo cosa riuscite a fare chiusi in gabbia, voi abituati a starne fuori, e vediamo cosa riesco a fare io, che in gabbia sono abituato/a a stare”. Piccolo lo racconta meglio di come faccio io dalla gabbia nella quale devo continuare a stare chiusa comunque per un certo numero di ore al giorno per fare tutte quelle cose che poi permettono di scrivere: “Sono una persona che negli anni, ossessionata dal lavoro, si è chiusa sempre di più. […] Ho lavorato a questo libro soprattutto durante il lungo periodo della pandemia; ma questa clausura è stata diversa, perché è stata di tutti; e infatti, in qualche modo, si è trattato di un tempo fermo per tutti, per gli amanti delle feste e per chi alle feste non ci andava, per i sociopatici, o anche per quelli che non potevano partecipare a qualcosa. In pratica è stata la fine del sentirsi diversi perché non c’erano più frustrazioni sociali. […] Questa cosa, credo, ha reso gli introversi delle persone più forti. […] chi aveva maggiori difficoltà sociali stava resistendo meglio alla quarantena perché in qualche modo traeva delle forze da sé stesso che gli altri non avevano. Gli altri si sono trovati in una prigione: chi in prigione c’era già, sapeva come resistere” (La bella confusione, p. 112).

La copertina di La bella confusione riassume in un seducente ritratto in bianco e nero di Claudia Cardinale la storia dei due film: Visconti e Fellini, infatti, misero entrambi sotto contratto Claudia Cardinale, che si divise tra i due set. Gli effetti superbi del bianco e nero, sui volti di Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, sono anche gli aspetti visivi che in 8 ½ e in La dolce vita non ho mai avuto difficoltà ad ammirare fin da subito; Fellini ha spiegato che la scelta del bianco e nero era dovuta spesso anche a ragioni di filologia visiva, “non essendo possibile girare a colori con una totale garanzia di sicurezza espressiva” (Fare un film, p. 96); vale la stessa cosa per la storia dell’arte, dove per lo studio e l’attribuzione delle opere d’arte a partire dalle sole fotografie il bianco e nero è spesso ancora la scelta più prudente, soprattutto su carta fotografica.

Per il genere letterario al quale appartiene, La bella confusione non ha bisogno di note, non ha bisogno di citare puntualmente le fonti, se non quelle orali e qualche fonte epistolare; la bibliografia finale con i riferimenti principali è intitolata riassuntivamente Fonti (pp. 276-282). Chi voglia conoscere puntualmente una ricostruzione del percorso artistico dell’artista che in La bella confusione è il rivale di Fellini, Luchino Visconti, legga il libro Giovanni Testori, Luchino, curato benissimo da Giovanni Agosti per Feltrinelli e scritto in una lingua precisa e coinvolgente; Luchino rappresenta, di fatto, con gli apparati di note e i saggi iniziale e conclusivo, il libro più affidabile e anche meglio congegnato per chiunque voglia avvicinarsi all’opera, e alla biografia, di Luchino Visconti (il libro, uscito a ottobre 2022 e contenente anche diversi riferimenti a Fellini, non è citato tra le Fonti di La bella confusione, che circola dal marzo 2023).

 

 

La lettura affiancata di questi due libri così diversi ma in qualche modo complementari (un’autobiografia che è anche un romanzo, un saggio scientifico che è anche autobiografia) ha avuto un senso, per me, perché fin da giovane, per ragioni stratificatesi nel tempo e non solo culturali, mi riconosco in molta parte del composito mondo figurativo ed emotivo di Luchino Visconti; rimpiango di essere nata un anno e cinque mesi dopo la sua morte e di non avere potuto vedere le sue regie teatrali e operistiche, quasi sempre ritenute scandalose dai contemporanei e che forse tali sarebbero ritenute anche adesso.

Il tema del Visconti “rifiutato” (come Caravaggio, come gli impressionisti prima che diventino tali) compare en passant nel libro di Piccolo alle pp. 68, 85, che su Visconti in generale la pensa come molti: “Da Visconti ero affascinato ma mi metteva soggezione, non come Fellini che sembrava parlasse direttamente a me” (p. 100) (sui “violenti dissensi da parte della critica”, che Visconti ha subito per regie teatrali e cinematografiche, che si traducevano perfino in interventi della celere e in prese di posizione della chiesa, si vedano i riscontri di Giovanni Agosti in Luchino, pp. 147-148, 211).

La bella confusione mi ha spiegato le ragioni di alcune delle idiosincrasie delle quali ho scritto all’inizio. Il fastidio che provocano in me le trame flebilissime e superficiali di La dolce vita e di Otto e ½ mi viene spiegata da Piccolo, a p. 46, come una delle caratteristiche di Fellini dopo La dolce vita: “Fellini riesce a imporre un’idea improducibile: un film senza trama, senza mai una sceneggiatura definitiva”. Piccolo aggiunge (a p. 155): “I film si raccontano. Anche i romanzi, di solito, e fino a un certo punto, è stato sempre possibile raccontarli. Poi sono arrivate delle opere che non si potevano più raccontare, ma bisognava vederle realizzate per capire cos’erano. […]  Forse l’importanza di 8 ½   sta anche in questa impossibilità di raccontarlo”.

Anche sulla rappresentazione felliniana delle donne sposate, o comunque stabilmente legate a un uomo, Piccolo chiarisce a p. 183: “la moglie, nell’harem, è una specie di cameriera servizievole; nella realtà è una donna sofisticata, libera, intristita dalla distanza che ormai c’è tra loro”. Sul feticismo per le qualità di attrice della moglie Masina, Piccolo racconta un episodio che mi fa sentire meno cretina, dato che ne è protagonista Luchino Visconti che, vedendo La strada a Venezia la sera del 6 settembre 1954 in prima visione, avrebbe esclamato che la moglie di Fellini sullo schermo sembrava Macario (Piccolo lo racconta a p. 21).

In La bella confusione un pezzo autobiografico riguarda il rapporto tra creazione artistica e amore (p. 65). Piccolo vede due alternative: o “un amore è un mezzo per realizzare un’opera” o “un’opera è un mezzo per realizzare un amore”. Piccolo dichiara di preferire la prima opzione perché ha “il culto del lavoro”; anche io ho maturato, a modo mio, il culto del lavoro, che si è sempre manifestato come il mezzo migliore, quasi più alto, per arrivare all’amore creando qualcosa o, più prosaicamente, per arrivare ad avere contatti duraturi, magari per fondare amicizie, con persone per le quali provo ammirazione professionale o curiosità umana.

Proprio in questa bella confusione sta la parte migliore del bel libro di Francesco Piccolo: l’amore, l’amicizia, perfino la passione forse possono durare se canalizzate in un progetto creativo comune che resta e che non può tradire (che nella vita reale solo gli oggetti non tradiscono, gli uomini quasi sempre sì, non lo insegna Fellini ma il suo rivale Visconti: il film è Gruppo di famiglia in un interno).

 

Floriana ConteProfessoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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