La settimana santa, con i suoi riti e le sue tradizioni, ci introduce al momento culminante della religione cristiana: la celebrazione della morte e resurrezione di Gesù. Per i credenti sublimazione del mistero del rapporto fra l’uomo e Dio, che diventa sublimazione della croce e dell’amore.
Ma, religione a parte, quell’evento – che certamente ha segnato la storia dell’umanità – pone, ancora oggi, numerosi e talvolta inquietanti interrogativi.
Il primo: furono davvero i giudei a chiedere e ad ottenere la morte di Gesù? Per secoli questa è stata una incontrovertibile verità e, forse, per qualcuno è ancora così. In realtà – scrive George Bernanos – “i veri deicidi appartenevano alla razza dei devoti” e l’antisemitismo dei cristiani è stato il modo più comodo di “lavarsi le mani” del sangue di quel giusto, a nulla importando se, poi, il popolo ebreo ne abbia subito la più tragica delle conseguenze.
Il secondo interrogativo attiene più strettamente al processo: chi fu, in realtà, a giudicare Gesù, i sinedriti o, invece, il prefetto romano Ponzio Pilato? E si trattò, poi, di un regolare processo, conforme alla legge del tempo, o furono, invece, perpetrate patenti violazioni della legge ebraica e di quella romana?
Confesso che il “processo a Gesù”, certamente il più famoso processo della storia, mi ha da sempre affascinato, sia, ovviamente, per l’eccezionale grandezza della vittima, sia per la descrizione che ne danno i Vangeli (che, partecipi e commossi, ascoltiamo nella lettura del “passio”, la Domenica delle Palme e durante la cerimonia eucaristica del Venerdì Santo); sia, ancora, per la grande suggestione che esso oggettivamente suscita anche in riferimento a questioni più spiccatamente giuridiche, sia, infine, per la potente forza evocativa rinvenibile nell’omonimo capolavoro di Diego Fabbri, in cui le rievocazioni dei testimoni del “processo” costituiscono, in realtà, il pretesto per un’indagine serrata ed emozionante su una società, l’attuale, che sembra aver perso la speranza della salvezza, la fiducia nella condivisione e nell’amore e che, pur avvertendo il bisogno di Dio, in realtà se ne allontana, disperdendosi nelle strade dell’individualismo e dell’edonismo.
Ma, restando alle problematiche giuridico-politiche, la prima cosa da rilevare è che Gesù venne sottoposto non ad uno ma a due processi: uno ad opera del Sinedrio e l’altro da parte di Pilato. Il Sinedrio era il solo consesso ebraico competente per i reati di indole religiosa, al quale, di regola, era però preclusa la potestà di irrogare la pena di morte (non tragga in inganno il fatto che talvolta i processi si concludevano con la dichiarazione che il perseguito era “reo di morte”, trattandosi di mera proclamazione che necessitava dell’avallo dell’autorità romana).
Questo organismo era presieduto da un Gran Sacerdote (in carica per un anno) ed era composto da settanta membri, scelti in parti uguali (23) fra i sadducei (la “casta” religiosa), gli scribi (esperti della legge) e gli anziani del popolo. Secondo il Talmud, l’accusa, per portare ad una condanna, doveva essere validata da almeno due testimonianze credibili e coerenti: questo spiega perché, di fronte a tante testimonianze contraddittorie, alla fine la sentenza di morte resa nei confronti di Gesù si basò sulla stessa parola dell’accusato, autoproclamatosi “figlio di Dio”, che gli comportò l’ascrizione del reato di blasfemia (Luca 22,70).
Durante la dominazione romana, dunque, le condanne a morte pronunciate dal sinedrio (di solito mediante lapidazione o strangolamento) erano sostanzialmente inefficaci, dal momento che – come detto – solo l’autorità giudiziaria romana aveva il potere (ius gladii) di dare ed eseguire le pene capitali. Per questo motivo Gesù fu condotto dinanzi al prefetto di Roma Ponzio Pilato. Nell’ordinamento giuridico del tempo, caratterizzato ormai dalla preponderante auctoritas dell’imperatore (che aveva soppiantato quella del Senato), al processo di tipo accusatorio diretto da un magistrato dinanzi ad una giuria popolare (iudicia populi), si andava gradualmente sostituendo un processo di tipo inquisitorio (cognitio extra ordinem) che, soprattutto nelle province, si svolgeva davanti ad un funzionario imperiale (prefetto o pretore) nel ruolo di inquirente e giudice. Tale, infatti, era Ponzio Pilato, dinanzi al quale fu condotto Gesù. I sinedriti, che già lo avevano condannato a morte per blasfemia, consapevoli che questo reato era insussistente nell’ordinamento romano, dopo un vivace scambio di battute col Pretore romano, pur mantenendo fermi i fatti, ebbero l’accortezza di cambiare il capo d’accusa, da blasfemia in sedizione (“Si è fatto re e chiunque si fa re è contro Cesare”), per il quale, trattandosi di un crimen maiestatis, era prevista, anche dall’ordinamento romano, la pena di morte.
Il momento più interessante del processo innanzi a Pilato è certamente quello dell’interrogatorio. Gesù, ad un certo punto, richiesto di spiegare chi fosse, dopo aver confermato di essere Re, risponde a Pilato: “Per questo io sono nato e sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla Verità ascolta la mia voce”, dando, così, una significazione trascendente alla sua vita e alla parola “verità”, quale caratteristica essenziale dell’Essere supremo.
Questa sfumatura non può, però, essere colta da Pilato, pragmatico uomo di legge, il quale, quasi a bruciapelo, di rimando gli chiede: “Cos’è la verità?”, intendendo riferirsi probabilmente alla verità processuale, la sola che poteva interessargli in quel momento, quella relativa alla fondatezza dell’accusa che gli israeliti avevano mosso contro il suo imputato, che non sembrava sorretta da vere prove e che lo metteva in estrema difficoltà, stretto com’era fra la voce della coscienza, che gli suggeriva di mandare assolto quell’uomo e la canea dei sinedriti che, invece, gli chiedeva a gran voce di pronunciare una sentenza di morte.
Il resto è noto. Pilato, dopo aver cercato vanamente di liberarsi di quel “fastidio”, declinando la propria competenza e rimettendo il processo a Erode (che, però, glielo restituì immediatamente), sobillato dai sinedriti, condanna Gesù a morte per sedizione, validando l’accusa del giudice ebraico e facendo apporre sulla croce una tavoletta con le ragioni della sentenza. Si compie, in tal modo, con un processo forse formalmente corretto ma sostanzialmente ingiusto, il più grande mistero della storia dell’umanità, fulcro del cristianesimo.
Resta, invece, ancora aperto – e lo resterà per sempre, perché riguarda l’uomo, la sua finitezza – il problema della verità in rapporto al processo, cui è ricollegato quello dell’errore giudiziario (problema che si ripropone quotidianamente – e drammaticamente – nelle aule di giustizia). Alla domanda “quid est veritas”, la risposta del giudice, di ogni giudice, non può che essere una sola, quella che qualifica la verità raggiunta al termine del giudizio, semplicemente, come “processuale”, la sola umanamente perseguibile. E, per scongiurare i possibili danni da errore giudiziario, il dovere di ricordare la famosa frase pronunciata dall’imperatore Traiano: “Meglio cento colpevoli in libertà che un innocente in galera”.
Roberto Tanisi – Presidente del Tribunale di Lecce, già presidente della Corte d’Appello