Con la scomparsa di Gianni Minà – per un ragazzo classe ’90 – se ne vanno kefiah e manifestazioni, ribellismo e giovinezza: i giorni passati a tessere le belle illusioni. Perché – con il sottofondo della musica dei Modena City Ramblers- è stata proprio la lettura di “Un mondo migliore è possibile: da porto Alegre le idee per un futuro vivibile” ad aver incubato in tantissimi ragazzi dei primi anni del duemila l’ultima grande speranza: quella no global.
C’era allora che i grandi miti del socialismo – che pure lo stesso Minà aveva intervistato – stavano sbiadendo dopo il crollo del muro di Berlino. Chi voleva contestare il mondo per come era – anziché nella falce e nel martello – si riconosceva nel passamontagna del subcomandante Marcos e negli slogan di quei ragazzi – all’epoca più grandi di noi – che erano stati manganellati senza pietà a Genova al grido di “un due tre, viva Pinochet” da alcuni fascisti in divisa.
Le loro parole d’ordine – troppo spesso dimenticate dopo le torture di Bolzaneto – erano quelle che si possono leggere anche oggi in questa pepita di libro: la critica all’un per cento della popolazione che detiene il 99 per cento della ricchezza, la contestazione serrata alle multinazionali e quelle prime Cassandre che molto prima della crisi del 2008 avevano anticipato i rischi predatori di una finanza senza lacci. Avventurarsi nel libro di Minà significa ripercorrere rabbie e speranze di quelli anni: il socialismo cristiano di Frei Betto, i diritti delle popolazioni indigene rivendicate dalla premio Nobel Rigoberta Menchù e ancora il serrato disvelamento dei meccanismi del consenso ad opera di quel genio che risponde al nome di Noam Chomsky.
Allora era un altro mondo – dove al grido di “Liberi tutti”, celebre canzone dei Subsonica – non ci si accontentava di sopravvivere seguendo le regole della società ma si provava a vivere mettendo in discussione l’esistente. Lontani dalle logiche gladiatorie dei social – tutto insulto e qualunquismo – in quei primi scorci del nuovo millennio si apprezzava ancora la discussione: Minà – a noi altri che pensavamo di avere ragione – ha insegnato attraverso le sue interviste che potevamo avere anche torto.
In quelle pagine – da rileggere tutte in occasione dell’addio al grande giornalista torinese – si annida l’ultima grande resistenza culturale che gli intellettuali hanno provato a opporre al dominio capitalista: il noi verso l’io, i deboli uniti contro i forti e l’anonimato contro il culto narcisistico della personalità. Ricordate il subcomandante Marcos in passamontagna? È stato lui il simbolo più grande di quelli anni, Minà lo aveva capito: un uomo che diventa famoso celando la sua identità a vantaggio di un gruppo dal quale – anziché impartirli – riceve ordini.
Quella sinistra no global- che emerge da queste interviste – sarà stata pure sgangherata ma non ha mai condiviso l’amore, oggi acritico e smodato, verso il Vangelo della modernità e della tecnica. Animata anzi da vaghe idee di ambientalismo, intendeva difendere le tradizioni locali e le comunità. La sua unica stella polare, i più deboli: ecco le parole del Subcomandante, Gianni avrebbe apprezzato: “Marcos è gay a San Francisco, nero in Sudafrica, asiatico in Europa, chicano a San Isidro, anarchico in Spagna, palestinese in Israele, indigeno nelle strade di San Cristóbal, ragazzino di una gang a Neza, rocker a Cu, ebreo nella Germania nazista, ombudsman nella Sedena, femminista nei partiti politici, comunista nel dopo Guerra fredda, detenuto a Cintalapa, pacifista in Bosnia, mapuche nelle Ande”.
Andrea Persili – Giornalista