40 anni dal governo Craxi/ 8/ Carmelo Conte
Quando don Macchi gli disse: se fossi rimasto con noi saresti diventato Papa Su Sigonella Reagan gli diede ragione, ma il giorno dopo la stampa Usa: Craxi sceriffo d’Italia

Pubblichiamo oggi una intervista a Carmelo Conte, avvocato, parlamentare per quattro legislature, sottosegretario, ministro delle Aree Urbane nei governi Andreotti e Amato,  uomo di punta del Psi nel Mezzogiorno.  

In questa intervista porta testimonianze di avvenimenti vissuti di persona, alcuni aneddoti e riferimenti testuali e documentari. Questo spiega anche la lunghezza delle risposte. Non le abbiamo ridotte sia perché filologicamente rispettiamo l’espressione compiuta del pensiero, sia perché sono ricche di spunti, aneddoti, citazioni, riferimenti testuali e documentari, analisi politiche approfondite, utili a capire meglio quella stagione di governo di cui ricorre il quarantennale. 

E non mancano accenti critici e autocritici come gruppo dirigente del partito, e principalmente riferiti a Craxi per quanto riguarda la conduzione dei rapporti con la Dc di De Mita.

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Il 2023 sono trascorsi 40 anni dal governo Craxi. Che cosa resta di quell’esperienza di governo durato quattro anni?

Va sottolineato innanzitutto un dato di realtà che da solo ne testimonia il carattere storico: è stato il primo governo a guida Socialista, costituito (1983) quando Presidente della Repubblica era un altro socialista, Sandro Pertini.               Eppure il Psi, per rappresentanza parlamentare, era il terzo partito dopo la Dc e il Pci. Una condizione straordinaria ma coerente col sistema elettorale del tempo e la storia dei partiti.  In Italia non c’erano mai stati governi di sola destra o di sola sinistra, ma solo di coalizione, all’interno delle quali le forze politiche, pur tenendo conto ai fini del potere della loro diversa consistenza elettorale, avevano pari dignità.                                                                                                                        Prima di Craxi era già toccato a Spadolini, leader del Pri, di guidare un governo di centro sinistra, con ls Dc partito di maggioranza relativa. Un modello che si era affermato (imposto) democraticamente, dopo le elezioni politiche del 1953, quando per la Dc non scattò il premio di maggioranza, della famosa legge truffa, e fu costretta a fare un governo di coalizione di centro. Una scelta che, arricchita e rafforzata, negli anni ’60, con la partecipazione al governo del Psi, ha reso non scontato il ruolo guida della Dc nel centro-sinistra, e creato le condizioni della cosiddetta alternanza.

Il Governo Craxi segnò, nel merito e nel metodo, una rottura con il passato e sollevò molte speranze nella società, influenzandone il modo di pensare e di operare. Nella storia del Novecento, scrive Marco Gervasoni, “pochi momenti sono stati pervasi da uno spirito così forte come gli anni ottanta, forse l’ultimo decennio definito da una marcata identità”.  Il vento degli anni Ottanta soffiò in Italia con maggiore intensità che l’America di Reagan e nell’Inghilterra della Thatcher per ragioni congiunturali e soprattutto per il ruolo svolto dal governo. È ancora da chiarire storicamente perché e per responsabilità di chi quelle premesse non abbiano avuto, poi, lo sviluppo che presupponevano.

 

 

 

Spieghiamolo ai giovani che al tempo del governo Craxi non erano neanche nati: in che cosa consisteva la novità del governo Craxi? Quali i suoi punti qualificanti?

Fu una novità sotto il profilo istituzionale, esprimeva contemporaneamente due tra le massime cariche dello Stato, Il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio dei Ministri; del metodo, per la sua sostanziale autonomia rispetto ai partiti, ai sindacati, alle organizzazioni sociali, che furono protagonisti dialoganti ma non condizionanti; e del merito per le politiche attuate.

Delle quali vanno ricordate, in particolare:

a) Il decreto legge cosiddetto di San Valentino del 14 febbraio 1984 che tagliava di tre punti della scala mobile, contro il quale fu promosso il referendum abrogativo fortemente voluto dal Pci e dalla Cgil. Questo animò una sfida politica nella sinistra, tra quella massimalista e conservatrice rappresentata da Berlinguer, e quella innovativa guidata da Craxi, come presidente del Consiglio dei Ministri. Il 9/10 giugno 1985, la bocciatura della proposta referendaria da parte degli elettori, sancì un successo personale di Craxi, determinò una svolta in economia, concorrendo ad abbattere l’inflazione e l’indebitamento pubblico; ed ebbe grande ricaduta politica generale nei rapporti politici e istituzionali. Spinse, tra l’altro, i sindacati, in particolare la Cgil, a ripensare la propria strategia e a sottrarsi alla tendenza a fare da cinghia di trasmissione del partito di riferimento.

 

 

 

b) La svolta in politica estera, testimoniata sul piano formale  da eventi incontrovertibili per il loro significato valoriale erga omnes: Craxi parlò con autorevolezza all’Assemblea dell’Onu e al Consiglio Europeo, promosse l’entrata dell’Italia nel gruppo delle sette nazioni più industrializzate del mondo con Francia, Canada, Germania, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti  (il G7, ora G8 con l’ingresso dell’Unione Europea); il sette marzo 1985,  parlò, applauditissimo, davanti al Congresso americano, privilegio che per il passato era stato riservato solo a altri due premier italiani, De Gasperi e Andreotti. Ma questo non gli impedì otto mesi dopo di ordinare ai carabinieri di accerchiare i militari della Delta Force americana per impedire che prelevassero, all’aeroporto di Sigonella, il “commando” responsabile del sequestro della nave Achille Lauro con a bordo seicento passeggeri in prevalenza italiani.  Questo non gli impedì inoltre, a conferma del principio “amici e alleati alla pari”, di opporre il no dell’Italia alla richiesta degli americani di usare le basi Nato in Sicilia per lanciare razzi diretti a colpire la Libia e a uccidere Gheddafi.

 

 

 

d) Il Nuovo Concordato tra l’Italia e la Santa Sede, un problema annoso, di cui si era discusso anche nell’Assemblea Costituente (1947) e nel Parlamento (1860), senza tuttavia arrivare a un risultato. Craxi, potendo contare sulla la disponibilità di Pertini, allora Presidente della Repubblica, riuscì, il 25 marzo 1985, dopo una lunga trattativa, a stipulare e a firmare l’accordo che integrava e completava quello firmato, l’11 febbraio del 1929, da Mussolini (i famosi Patti lateranensi), e consacrato nell’art. 7 della Costituzione.

Va ricordato che Craxi era un laico, ma era stato attraversato da ragazzo da un forte coinvolgimento religioso che, in questa trattativa, come egli stesso confidava in privato scherzando (o forse no), aveva avuto un suo peso. A sei anni, essendo irrequieto e incontrollabile, il padre, preoccupato, lo mandò in collegio a Cantù, dove il suo istinto ribelle si trasformò in fervore religioso.  Verso la fine del 1943 lasciò il collegio e prese a frequentare l’oratorio di san Giovanni a Milano, come chierichetto, voleva farsi prete, ma a 16 anni, come egli racconta, ritrovò la sua vera fede, quella laica. Ma non ha mai dimenticato quell’esperienza. Il suo vecchio rettore, don Pasquale Macchi, incontrandolo da presidente del Consiglio dei Ministri, gli disse:”perseverando con noi saresti diventato Papa”

Molti, ricordando il governo Craxi, si fermano a Sigonella, il punto più alto di affermazione della sovranità nazionale, che suscitò l’applauso alla Camera anche dei comunisti. Oltre Sigonella, che cosa andrebbe ricordato del governo Craxi?

La vicenda di Sigonella non è stata solo una solenne e straordinaria occasione di affermazione della sovranità nazionale, ma qualcosa di più. Craxi, qualche tempo dopo di quello episodio, si recò in visita negli Stati Uniti e, come si usa in questi casi, convocò una Conferenza stampa nella quale parlò dei fatti di Sigonella. Il giorno dopo, le sue dichiarazioni vennero riportate dalla stampa statunitense in quarta pagina, un chiaro messaggio di sottovalutazione e di risentimento personale per  Craxi che convocò una nuova conferenza stampa, nella quale esordì mostrando un’audiocassetta e disse: ho qui la registrazione di un colloquio telefonico , avvenuto la notte di Sigonella, tra me e il vostro Presidente (Reagan), nel quale è documentato  che  ha egli condiviso le mie tesi: “l’Italia è un paese sovrano, della trattativa per liberare per liberare l’Achille Lauro, con a bordo seicento passeggeri in gran parte italiani, sono responsabile io e devo la riuscita ad Arafat, al quale ho assicurato il salvacondotto per il commando palestinese che è, pertanto, una condizione insuperabile, è un impegno dell’Italia”.  Il giorno dopo, i giornali americani titolarono in prima pagina: “Craxi lo sceriffo d’Italia”.

 

 

 

Più in generale, va ricordato che, nel 1983, quando si costituì il suo primo Governo, c’era una crisi politica che sembrava senza sbocchi.  Era venuta meno per la Dc, proprio in coincidenza con la segreteria di De Mita che ne era stato uno dei fautori, la possibilità di coinvolgere nella maggioranza, se non nel Governo, il Partito comunista che, dopo la morte di Berlinguer, si era trasformato in un partito di mera critica.  Alle difficoltà del quadro politico faceva riscontro una crisi economia e sociale senza precedenti: l’inflazione al 21%, il costo del denaro al 20%, la disoccupazione al 18% (al Sud era al 25% con quella giovanile a oltre il 30%), il gettito del Pil era negativo da tre anni, la bilancia commerciale in rosso, si era sostanzialmente bloccata la crescita del numero delle imprese.

Dopo quattro anni di Governo Craxi, insieme alla crescita di prestigio internazionale, i dati economici risultavano tutti cambiati in positivo: la disoccupazione e l’inflazione erano scesi al di sotto del 10%, l’Ocse certificò la crescita del Pil al 3,5%, le agenzie di rating assegnarono all’Italia la tripla A, l’Italia superò la Gran Bretagna di Margaret Thatcher per il livello di reddito.  La gran parte degli italiani guardava al futuro con fiducia. Preoccupava solo il debito pubblico che, nel 1988, incideva sul Pil per circa il 96%, ben al di sotto della percentuale fatta registrare nel 2023 che è del 143, 5 %.   

La Repubblica, il 9 luglio ‘89   titolò, “l’azienda Italia tira alla grande” e il 29 luglio, “Lira forte, specchio dell’Italia che va”.

Della Grande Riforma, che Craxi agitò come bandiera di rinnovamento dello Stato, quali proposte conservano una validità e attualità? Che cosa andrebbe rilanciato?

Nell’autunno del 1979, a commento dei risultati della tornata elettorale politica di qualche mese prima dichiarò”: “Una legislatura già nata sotto cattivi auspici, minata dal pericolo di un voto politico distruttivo, vivrà invece con successo se diventerà la legislatura di una Grande Riforma.”

Nel suo intendimento, il processo riformatore doveva intervenire, come egli scrive nella sua prefazione al libro, Una costituzione per governare di Sandro Amorosino, “in ogni campo, sulle strutture economiche e amministrative, sulle regole e sull’ordinamento Costituzionale.  Bisognava restituire il massimo di efficacia, di autorevolezza, di responsabilità a tutti i poteri democratici”

La proposta aveva un profilo essenzialmente politico e istituzionale: il riequilibrio tra i poteri, che non rispondeva più, per le mutate condizioni sociali e politiche, ai principi costituzionali che l’avevano ispirato.

La riforma contemplava l’istituzione del Presidenzialismo e la revisione di tutta la catena della pubblica amministrazione fino all’anello finale, i Comuni ai quali i socialisti guardavano come a un fondamento della democrazia: l’Italia dei comuni recitava un manifesto della direzione nazionale del Psi.

Nel 1985, Craxi, pose, per la prima volta in maniera esplicita il problema della giustizia che tendeva a differenziarsi dal costituzionalismo europeo e a ispirarsi a quello americano.

Giova ricordare che, dopo la guerra di indipendenza, negli Stati Uniti si affermò il principio della prevalenza dei diritti fondamentali dei cittadini anche contro le decisioni del Parlamento (le leggi); e la magistratura divenne, così, un contenimento del potere legislativo; mentre la Francia rivoluzionaria non si rivoltò contro il parlamento, ma contro il re e i suoi giudici. Una rottura rispetto al passato, caratterizzata da un Parlamento con poteri sovrani, unico garante dei diritti dei cittadini, il modello al quale si ispira la nostra Costituzione. Un principio che, nella pratica, è stato oggetto, grazie a interpretazione giurisprudenziali all’americana, di una progressiva erosione che ha, di fatto, minato il giusto equilibrio democratico tra i poteri.

L’obiettivo della Grande Riforma era ripristinare questo equilibrio e dare nuova efficienza operativa al potere esecutivo, e non si proponeva di ridimensionare il potere giudiziario, come si è tentato di sostenere. Basti considerare che, anche nei momenti di maggiore tensione, Craxi non ha messo in discussione “il principio di giustizia”, ma l’interpretazione delle leggi che ne facevano alcuni magistrati. Tant’è che, al fine di contenerne gli eccessi e gli abusi, promosse un referendum, celebrato il l’8 e il 9 novembre 1987, che riguardava la loro responsabilità civile, non la loro funzione.

Mal gliene incolse perché l’iniziativa referendaria fu rappresentata come un attacco alla magistratura, tanto da determinare uno scontro che si è trasformato, per Craxi, in un travaglio personale conclusosi con il suo esilio e, per l’Italia, in una crisi dalla quale potrà liberarsi solo rilanciando i motivi per i quali la Grande Riforma venne proposta, che sono ancora attuali.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, presero ad affermarsi pratiche giudiziarie che sembrano ispirarsi a una devastante categoria del diritto, elaborata dal giurista tedesco Jacobs Gunther, il diritto penale del nemico, che non indaga il cittadino come individuo comune ma il cittadino come nemico pubblico sulla base di “azioni o anche dichiarazioni teoriche.” Tale principio normativo seleziona i presunti criminali con principi soggettivi e entra, il più delle volte, in conflitto finanche con i diritti umani.

Per esempio la battaglia per la delegificazione, la polemica sul Parlamento che perdeva tempo a fare leggi sui molluschi eduli lamellibranchi o sulla eviscerazione degli animali da cortile, invece di far procedere con atti amministrativi? Il Parlamento continua in questo andazzo?

In Italia, nella Prima Repubblica, vigevano oltre diecimila leggi, ciò ne rendeva impossibile la conoscenza e il rispetto da parte dei cittadini.   Bisognava – e bisognerebbe farlo ancor di più oggi perché la situazione non è migliorata ma si è aggravata – ridurne il numero delegiferando e concentrare le rimanenti per materia in testi unici.

In Parlamento, si discuteva di tutto e di più, non c’erano limiti di tempo per agli interventi e per gli emendamenti alle leggi e c’era il voto segreto. Questo consentiva alle opposizioni di fare ostruzionismo e di essere determinanti per lo svolgimento dei lavori.  Il problema fu risolto, almeno in parte, con la modifica del Regolamento, fortemente voluto da Craxi, per riconoscere ai gruppi un tempo proporzionato alla loro consistenza e per limitare il voto segreto solo ai casi che riguardano diritti fondamentali e comunque quando ne faceva richiesta un gruppo costituito da più di venti componenti.

Ora, il Parlamento si è trasformato in una palestra per dichiarazioni roboanti, approva leggi che per il 95 sono di iniziativa del Governo, quelle di iniziativa parlamentare sono riferite a materie che non incidono sulla realtà e sul sistema Italia. Si sono consolidate forme di populismo parlamentare, affiorate già a cominciare dai primi anni Novanta, che sono divenute il terminale del populismo mediatico e del populismo sociale. Questo ha consentito che, nel volgere di un decennio, prima la Lega, poi il M5S e infine Fratelli d’Italia, da piccoli partiti divenissero partiti di maggioranza relativa. Un salto nel vuoto? Molto dipenderà dallo sviluppo che avrà questa legislatura targata Meloni.

Il modus operandi del governo Craxi prevedeva riunioni preparatorie, in organismi istituiti ad hoc, come il consiglio di Gabinetto. Un metodo che poi è stato abbandonato. Sarebbe ancora valido?

Craxi non aveva una conoscenza specifica della burocrazia, come Andreotti, anche se aveva fatto esperienza come assessore al comune di Milano. Era un leader, e come tale sapeva motivare i collaboratori, sapeva dirigere e aveva capacità di sintesi. Soprattutto era un decisionista, qualità che tutti gli riconoscono, ma non decideva inaudita altera parte, faceva discutere, ascoltava e poi decideva. Mi piace ricordare un episodio che ne dimostra il modo di procedere. Nel 1980, dopo il terremoto che aveva devastato la Campania e Basilicata, mi chiese di fare una relazione alla Direzione nazionale del partito (ero responsabile del Dipartimento Mezzogiorno) che illustrasse la nostra proposta per la ricostruzione delle zone colpite.                                                                      Il nodo da sciogliere era se gli interventi per la ricostruzione dovessero essere gestiti dal sistema delle autonomie (Regioni, Province e Comuni) o da grandi gruppi nazionali sotto la responsabilità del Governo. Un giorno prima della direzione gli portai la relazione che proponeva la competenza degli enti locali e aggiunsi, a voce, che su questo, da me interpellati, si erano dichiarati d’accordo Giorgio Napolitano per il Pci, De Martino, Mancini, Signorile e Giorgio Ruffolo per il Psi, esponenti del meridionalismo; lui di rimando rispose: “io no, serve l’esperienza dei grandi gruppi nazionali, il sistema locale non è attrezzato per un’opera di tale portata.” Non cambiai idea, presentai la mia proposta alla Direzione, precisando doverosamente che vi erano due ipotesi per la realizzazione degli interventi, ma riconfermai che, per ragioni politiche e istituzionali, la competenza per gli interventi di ricostruzione di rilievo locale dovesse essere della filiera dell’autonomie locali direttamente interessate, con l’esclusione delle grandi infrastrutture che restavano di competenza dello Stato.  Craxi seguì attentamente il dibattito, nel quale intervennero a sostegno della mia proposta tutti i maggiori esponenti del partito, e alla fine, dopo un suo breve suo intervento conclusivo, alzò la mano per primo e la proposta fu approvata all’unanimità

Questo era il vero Craxi nel partito e questo è stato come uomo di governo.

Per la sua opera di Primo Ministro si dotò di un gruppo di lavoro, nel quale ognuno dei componenti si occupava dei singoli ministeri. In tal modo poteva seguire, con riservatezza, l’attività dei vari Ministeri e avere, quindi, la possibilità di intervenire, se necessario, esercitando il suo potere di coordinamento. Della preparazione del Consiglio dei Ministri si occupava Giuliano Amato, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.               A compiti generali, riservati e di segreteria era preposto Gennaro Acquaviva. Il Governo aveva, inoltre, consulenti per l’economia di alto valore scientifico, come il premio Nobel Franco Modigliani, ma non si avvaleva di una consulenza politica: per garantire univocità di comandò Craxi attivò l’istituto del Consiglio di Gabinetto, costituito da un numero ristretto di ministri scelti in base alla loro competenza, nel quale si discutevano problemi che richiedevano libere valutazioni ma anche  riservatezza, per poi portare al consiglio dei Ministri le decisioni prese per la sola ratifica.

Rapporti con Berlinguer: i rapporti tra i due furono pessimi. Il segretario del Pci, invece di salutare la novità del primo presidente del Consiglio socialista, lo definì un pericolo per la democrazia. C’erano anche motivi caratteriali nei loro rapporti?

Sull’Unità del 18 luglio del 1976, a soli due giorni dalla sua elezione a segretario del partito, Fortebraccio definì Craxi, il “Nihil, il signor nulla”. Fortebraccio era dotato di “veleno e invettiva” e con i suoi corsivi interpretava o seguiva il volere di Berlinguer che aveva anche brigato per impedire l’elezione di Craxi a segretario del Psi nel comitato centrale del Midas. Il suo candidato preferito era Antonio Giolitti. Nel 1976, Berlinguer fu disponibile a far nascere, con l’astensione del Pci, ii governo Andreotti senza porre alcuna vera condizione, mentre si oppose con determinazione alla nascita del governo Craxi, nel 1983.

Craxi fu definito sull’Unità “un pericolo per la democrazia.” Gli uomini di Enrico, scrive nell’ottobre del 1983 Giampaolo Pansa, dicono che Craxi può essere il nuovo “Mussolini”.

Di contro, Berlinguer, l’11 maggio del 1984, al congresso socialista di Verona fu accolto da una selva di fischi che Craxi non tentò di bloccare, anzi, qualche giorno dopo, dirà di non essersi associato a quei fischi perché non sapeva fischiare.

I motivi non erano personali, Craxi aveva tentato più volte di stabilire con lui rapporti amichevoli; lo aveva fatto, anche con la mediazione di Willy Brandt, nel giugno 1977, in occasione della riunione dell’ Internazionale e poi, nel 1981, in un incontro all’Hotel Excelsior di Roma con la presenza di Arafat.

Il duello tra Berlinguer e Craxi non è stato solo di scontro, ma anche di reciproche influenze e punti in comuni. Si erano formati rispettivamente come i “pupilli” di Togliatti e di Nenni, e hanno fronteggiato un periodo di eccezionale instabilità nazionale, cercando entrambi di riposizionare i rispettivi partiti nella sinistra, nelle alleanze internazionali e nazionali, nel mondo cattolico e nell’economia di mercato.

Berlinguer era convinto che il suo partito fosse, alla base, profondamente togliattiano ovvero “di lotta e di governo” e che ne potesse disporre solo a condizione che non ne forzasse la storia. Non a caso, Salerno che era stato il luogo della Prima svolta, quella di Togliatti, per la partecipazione al Primo governo del dopoguerra, fu scelta anche per lanciare la Seconda svolta, quella dell’alternativa democratica

Come si potrebbe definire o descrivere lo stile di governo del presidente del Consiglio Craxi.

Ha guidato il Governo con lo stesso stile e la stessa autorevolezza con le quali ha guidato il partito, coltivando la forma per dare visibilità alla sostanza. È stato un leader democratico che ha incarnato il modo di essere capo così come, fatte le debite differenze, lo descrive Gramsci nel suo saggio intitolato appunto Capo: “Ogni Stato non può non avere un Governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza”.    E Craxi possedeva “capacità” e “chiaroveggenza”, non era, infatti, un manager né un tattico, ma appunto un leader “capace di convincere gli altri a fare le cose” attraverso la sua visione della politica.

È stato interprete di un mutamento democratico grazie alla sua autorevolezza e non in quanto espressione dei partiti o di poteri esterni. Ha impresso al ruolo di Premier il suo stile rendendolo più autorevole e incidente anche a livello internazionale; ma ha “accusato”, a sua volta, i cambiamenti che quella funzione imponeva, e il caso di dire che l’abito, in questo caso, ha fatto il monaco e non solo mentre era in carica: dopo la fine del suo governo e il ritorno al partito, egli non era più quello di prima, aveva perso parte dell’istinto a lottare che gli era stato proprio e aveva guadagnato in capacità di mediazione.

E questo gli ha fatto commettere, dopo le elezioni del 1987, l’errore storico di un nuovo accordo con la Dc di De Mita, fondato sull’alternanza tra loro due per la guida del governo.

Qual è la cosa meglio riuscita del governo Craxi?

La politica per il Mezzogiorno, mi riferisco, in particolare, alla legge 1° marzo 1986 n.64, “Disciplina Organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno”, con una copertura finanzia in nove anni di 127.400 miliardi, della quale sono tata relatore.  È stato Il più grande intervento riformatore realizzato per il Mezzogiorno, della stessa portata Della Cassa per il Mezzogiorno, di cui costituiva il superamento e lo sviluppo. Nel 1991 la legge fu riformata (di fatto revocata) per impedire la celebrazione del referendum abrogativi promosso dalla Lega che, se svolto, si sarebbe trasformato in un plebiscito contro il Mezzogiorno.

Per superare l’opposizione e l’opposizione del Pci e quella strisciante di alcuni settori della Dc su questo disegno di legge, Craxi convocò una riunione dei capigruppo nell’antisala del Consiglio dei Ministri, tra i quali Giorgio Napolitano per il Pci e Vincenzo Scotti vice segretario della Dc. La riunione fu presieduta da Giuliano Amato, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Vi partecipò, come consulente, su invito di Craxi, Franco Modigliani, il primo e unico italiano che ha ricevuto il premio Nobel per l’economia (1985).                           Il suo intervento fu determinante per validare i contenuti della proposta che io illustrai brevemente e soprattutto per giustificare la copertura a debito della legge. Lo fece con richiami culturali ed economici, citando, fra l’altro, una fase della sua famosa lettera a Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti: “Durante una recessione è la spesa in deficit del governo l’unica maniera sicura per garantire in fretta una produzione in crescita con prezzi in salita”. Un chiaro richiamo alla programmazione e alla cosiddetta funzionalizzazione dell’iniziativa economia.

E quella non realizzata o rimasta incompiuta perché non ci fu più tempo o perché non era possibile?

Sul piano politico, la Grande Riforma. È restata solo una proposta, per l’opposizione della Dc che aveva costruito nelle istituzioni il suo nido di potere e ne temeva il cambiamento; e del Pci che non la considerava una riforma di struttura, Alessandro Natta sostenne, sul Corriere della Sera, che “occuparsi delle istituzioni prima che della struttura della società non è marxista”. Una tesi ideologica impropria e infondata, perché erano proprio le istituzioni politiche e amministrative che andavano riformate, in nome di una democrazia governante, che avrebbe potuto fare le riforme di struttura. I socialisti erano nel giusto idealmente e storicamente ma non ne trassero le conseguenze, avrebbero potuto e dovuto forzare i tempi nei confronti della Dc; e potevano farlo con successo perché erano determinanti per formare il governo. Una mancata scelta di cui porta la responsabilità maggiore Craxi che non osò per due ragioni: che la Dc, messa alle strette, potesse nuovamente aprire al compromesso con il Pci; e perché dalla DC poteva venire il sostegno per assumere la guida del governo.          Resta da capire cosa poteva fare il Psi per impedire che, dopo il governo Craxi, il sistema Italia cadesse, nel volgere di qualche anno, in una crisi, sulla cui ineluttabilità Giuseppe De Rita, ha fatto un’analisi impietosa: “ci sarà solo da capire se vinceranno i gestori delle piazze più o meno mediatiche, a forte carico di delegittimazione decapitante (vincerà Robespierre); o se invece le grandi tecnoburocrazie economiche, finanziarie, giudiziarie (vincerà Bonaparte).”

È andata peggio dell’alternativa ipotizzata da De Rita: hanno vinto sia i gestori delle piazze mediatiche sia le grandi tecnocrazie, perché sono due facce della stessa medaglia.

Invero la riforma delle riforme era quella della politica che postulava il funzionamento del Parlamento non come “democrazia formale”, le politiche del lavoro non come “integrazione neocapitalistica”, le politiche europee non come “internazionalismo e “antimperialismo”.

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

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