Ri-Maturità, un interessante “esperimento” a Firenze

Il 14 maggio oltre 140 ex studenti, di varie generazioni e in gran parte donne, torneranno sui banchi del "liceo Galilei" di Firenze per sostenere di nuovo l’esame di latino. Alla base di questa singolare iniziativa ci sono varie motivazioni. Il liceo è stato frequentato, tra gli altri, da Oriana Fallaci, Giovanni Spadolini, Eugenio Garin, Margherita Hack

Uno degli argomenti di più facile consumo per gli avversari dell’importanza riconosciuta all’insegnamento delle lingue classiche nella scuola italiana era costituito dalla loro, almeno apparente, utilità pratica. Era una motivazione comune alla sinistra marxista, ma non a tutta – basti pensare alla difesa della classicità da parte di Concetto Marchesi, – ad alcune toghe progressiste e a una certa destra di miracolati del boom, scettici nei confronti di quanto non promettesse un immediato ritorno economico.

“Ma a che serve il latino?” era il refrain di molti nuovi ricchi degli anni Sessanta, stanchi di spendere per le ripetizioni ai figli rimandati a settembre cifre quasi pari a quelle sborsate al maestro di tennis; il che non impediva loro di iscrivere lo stesso la prole al liceo, perché avere un figlio che frequentava il classico o almeno lo scientifico era considerato uno status symbol come le librerie riempite di libri comprati al metro quadro o le pareti arredate con costosi quanto ermetici dipinti astratti.

A questa interrogazione retorica, che si era sentita più volte rivolgere, avrebbe potuto rispondere, molti anni dopo, la vaticanista dell’Ansa Giovanna Chirri, cui proprio la padronanza della lingua di Cicerone consentì di realizzare uno scoop senza precedenti. Quella fatale mattina dell’11 febbraio in cui papa Ratzinger annunciò le dimissioni, la giornalista udì, a circuito chiuso, il pontefice dire ai cardinali “ingravescit aetas” e comprese che stava accadendo qualcosa senza precedenti dal tempo in cui Celestino V fece, per dirla con Dante, “il gran rifiuto”.

Che il latino sia qualcosa di più di una lingua morta, e non solo per quanti ambiscono a una carriera di vaticanista, continuano a pensarlo in molti. Senza dubbio, lo pensano gli oltre centoquaranta ex studenti di uno dei più blasonati licei classici fiorentini, il “Galileo“, che torneranno il 14 maggio prossimo sui banchi dello storico istituto di via Martelli in cui hanno studiato per affrontare di nuovo la versione di latino. Il tutto nel quadro di quella che è stata subito definita una ri-maturità: un’occasione d’incontro fra ex studenti desiderosi di tornare a misurarsi con una delle più temute prove scritte dell’esame di Stato per i licei.

I partecipanti alla prova saranno in prevalenza donne, difformità indicativa della diversa composizione negli anni più recenti degli iscritti a quella che fino al ’68 era stata la porta d’oro dell’università: i maschietti ormai preferiscono gli scientifici o gli istituti tecnici, considerati propedeutici a impieghi più al passo con i tempi, e magari più utili per superare i temuti test d’accesso a ingegneria o a medicina. Naturalmente non sarà in palio nessun premio, a parte quello di aver avuto il coraggio di partecipare a un coraggioso amarcord. Anche le valutazioni saranno diversificate: se 42 concorrenti hanno scelto di affrontare la prova competitiva, per gli altri non ci saranno voti, ma semplici menzioni.

All’origine dell’iniziativa si possono ipotizzare molti fattori. Ricordare con nostalgia gli appuntamenti più impegnativi della giovinezza fa parte della natura umana. Questo aiuta a spiegare la memoria indulgente con cui sono in molti a ricordare l’esame di maturità, come, un tempo, il servizio militare o addirittura la guerra. È un atteggiamento in cui l’orgoglio per le asperità affrontate trascolora nel rimpianto di un tempo che non tornerà più; nasce anche di qui il fascino di pellicole come l’inossidabile “Notte prima degli esami”.

Ma gli amarcord fra compagni di scuola possono rivelarsi pericolosi: ci si incontra, e a volte ci si scontra, per contare le rughe oltre che gli anni, e magari per fregare la ragazza al più “patata” della compagnia, come capita in un crudelissimo film dei tardi anni Ottanta: “Compagni di scuola”, con e di Carlo Verdone.

A rendere meno preoccupante la ri-maturità fiorentina è però il suo carattere, se così può dirsi, diacronico. I partecipanti non saranno infatti studenti della stessa classe, ma delle più diverse classi anagrafiche. Fra di loro prevalgono i maturati degli anni Ottanta, gli anni del “riflusso” e del ritorno alla serietà degli studi, ma non mancano gli ultrasettantenni, visto che i più anziani fra i concorrenti, fra cui un sacerdote, si sono diplomati alle soglie degli anni ‘60. E ci saranno alcuni maturati del 2021, “graziati” dalla versione a causa del Covid e desiderosi di misurarsi con la più temuta prova d’esame. Più che uno scontro fra coetanei sarà un confronto fra generazioni, e Dio sa se ci sarebbe bisogno di iniziative che contribuissero a rompere il muro d’incomunicabilità che divide boomers e millennials, per certi aspetti il nuovo muro di Berlino di questi anni Venti.

A questo occorre aggiungere che, pur ridimensionato nel rigore delle prove e nell’ampiezza dei programmi, l’esame di Stato conserva almeno in parte quel carattere di temuto rito di transizione dall’adolescenza alla piena giovinezza che presentava sino al ’69 e alla sua prima riforma. Chi scrive, figlio di genitori già in là con gli anni, ha conosciuto amici di famiglia diplomatisi negli anni Trenta che confessavano di avere come “incubo preferito” trovarsi dinanzi a una temutissima commissione di membri esterni, presieduta nella maggior parte dei casi da un cattedratico. Uno di loro mi confidò di avere sostenuto l’esame di fisica con un giovane assistente universitario di nome Enrico Fermi e ricordava ancora la domanda che gli aveva posto: se in una stanza ermeticamente chiusa si tiene un frigorifero aperto, la temperatura calerà o aumenterà? (la risposta era “rimarrà uguale” perché il freddo ottenuto sarà compensato dal calore generato dal motore dell’elettrodomestico).

Ma per le nuove generazioni la maturità ha un effetto traumatico anche perché, a parte la licenza media, è il primo vero esame sostenuto, e questo aiuta a comprendere al di là di altri fattori i casi di studenti con “crisi di panico” che chiedono previo certificato medico il rinvio della prova alla sessione suppletiva di settembre. Chi arrivava all’esame di Stato nel liceo classico prima del 1969 di esami ne aveva superati già quattro: quello di seconda elementare per passare al “secondo ciclo”, quello di licenza elementare, quello di terza media e quello di licenza ginnasiale, sostenuto in tutte le materie, orali e scritte, dinanzi ai professori di liceo.

I meno giovani avevano fatto in tempo a sostenere dopo la licenza elementare anche l’esame di ammissione alle medie, forse più selettivo dell’odierna maturità, senza aver superato il quale si poteva accedere solo all’”avviamento”.

L’altro motivo per cui i centoquaranta e passa ex studenti del “Galileo” hanno deciso di misurarsi di nuovo con la prova è costituito dal fascino discreto che, nonostante la dilagante anglomania, continua a esercitare il latino. Certo, non viviamo più in un’Italia latinocentrica com’era quella della prima metà degli anni Sessanta, in cui l’idioma dei padri era la lingua della Chiesa come quella dei produttori di profilattici (il più diffuso preservativo italiano deve il suo nome dalla contrazione delle prime sillabe dell’espressione “habemus tutorem”), oltre naturalmente che del diritto: sarebbe stato inconcepibile un giudice o un avvocato che non conoscesse la lingua di Ulpiano o di Cicerone.

Eppure piace pensare che la consapevolezza che la cultura classica costituisca il fondamento della nostra cultura sia più intensa fra gli ex allievi di una scuola che ha avuto fra i suoi allievi Oriana Fallaci e Giovanni Spadolini, Tiziano Terzani e Margherita Hack, lo studioso dell’umanesimo Eugenio Garin e lo storico marxista Ernesto Ragionieri.

A proposito della prova cui si sottoporranno gli studenti, è doverosa però una considerazione: un tempo, a differenza che per il greco, l’esame di maturità (e anche quello di licenza ginnasiale) chiamava a dimostrare l’acquisita conoscenza della lingua di Cesare con due versioni: una dal latino all’italiano e l’altra dall’italiano al latino. La seconda era la più temuta, anche perché come testi da tradurre erano spesso proposti testi di autori classici come Machiavelli, non sempre di facile interpretazione. Si diceva che tale prova volesse vedere l’uomo in faccia, perché non erano possibili scappatoie come la traduzione “a senso”, ma per superarla onorevolmente era necessaria una perfetta conoscenza della grammatica latina.

In realtà, però, anche la versione dal latino, quella con cui si cimenteranno gli ex studenti del “Galileo”, presenta le sue insidie. Il corpo docente è sempre stato diviso fra i fautori di una traduzione letterale, che dimostri la perfetta conoscenza dei meccanismi sintattico-grammaticali, e una versione più libera, che non ricalchi pedissequamente la costruzione latina. Se, infatti, condicio sine qua non di ogni buona traduzione dovrebbe essere di non far capire da che lingua è stato tradotto un testo, il candidato dovrebbe volgere il testo latino in un italiano scorrevole: compito non facile, se si vuole rispettare l’originale, vista la prevalenza nella nostra lingua delle costruzioni paratattiche, ben lontane dalla impalcatura sintattica dell’idioma di Cicerone.

La conciliazione fra le due esigenze è meno facile nel corso dell’anno scolastico, quando si impara a conoscere le preferenze dei propri docenti; assai meno in un esame di Stato in cui a correggere il compito potrebbero essere insegnanti sconosciuti. Chi scrive ha sempre pensato che la soluzione potrebbe essere la suddivisione della verifica in due fasi: una versione “tecnica”, in cui il candidato dimostri la conoscenza del testo facendone l’analisi grammaticale come nei vecchi “traduttori”, un’altra “stilistica”, in cui, provata questa padronanza della materia, ricrei il testo in un italiano moderno, anche a costo di mutarne sintassi e punteggiatura. In mancanza di tale opportunità, la maggior parte dei candidati per prudenza rimaneva prigioniero della logica del “cum col congiuntivo”, traducendo con un’overdose di gerundi i rotondi testi ciceroniani. Il risultato era – e forse ancor oggi è – che il maturato del liceo, quando proponeva i suoi primi testi a una redazione, doveva disimparare abitudini considerate virtuose quando andava scuola, pena sentirsi dire dal redattore capo, con intenti non certo elogiativi, “Si vede che lei ha fatto il classico: nel suo articolo ci sono troppi gerundi”.

In bocca al lupo, comunque, coraggiosi vecchi scolari del “Galileo”, per una prova che, prima che con Seneca o con Tacito, sarà soprattutto con voi.

 

Enrico NistriSaggista

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