Yemen, la guerra dimenticata: l’intervista alla professoressa Farian Sabahi

Il ruolo che ha la vendita di armi da Usa ed Europa. Proverbio vicino orientale: l’odore dei soldi cambia anche il corso dei fiumi

Ci sono conflitti che vanno avanti da così tanto tempo che per molti sono diventati la triste normalità. La guerra in Yemen ormai va avanti da anni nell’indifferenza dell’opinione pubblica ma meriterebbe maggiore spazio nelle sezioni esteri dei quotidiani nazionali. Abbiamo intervistato Farian Sabahi, autrice del volume “Storia dello Yemen” e docente all’Università John Cabot di Roma sulla guerra civile.

Qual è la situazione politica attuale nello Yemen?

Secondo le Nazioni Unite, la coalizione guidata dai sauditi e gli Huthi hanno esteso la tregua per ulteriori due mesi. La tregua era iniziata all’inizio del mese di Ramadan. La situazione politica è di stallo, con due emergenze: la mancanza di cibo dovuta al fatto che il 46 percento dei cereali proveniva dall’Ucraina e l’aggressione russa a Kiev ha bloccato i flussi peraltro già insoddisfacenti a sfamare la popolazione. La seconda emergenza, che interessa anche i Paesi limitrofi, è il rischio di inquinamento ambientale da parte della petroliera Safer al largo delle coste yemenite, in Mar Rosso.

Quali motivi ci sono alla base del lungo conflitto?

La coalizione a guida saudita ha iniziato a bombardare lo Yemen quando i miliziani sciiti Huthi hanno preso il controllo della capitale Sanaa nel momento in cui le loro reiterate richieste non venivano esaudite dal governo di Mansour Hadi succeduto, in seguito alla primavera yemenita, al presidente Ali Abdallah Saleh che nei loro confronti aveva usato la strategia della “povertà imposta”.

In altri termini, il presidente Ali Abdallah Saleh, che pure apparteneva come gli Huthi alla minoranza sciita, aveva deliberatamente deciso di non dotare l’area settentrionale abitata dagli Huthi delle infrastrutture indispensabili alla prosperità della popolazione locale: strade, scuole ed ospedali.

Quando gli Huthi hanno colto l’occasione per prendere il potere nella capitale Sanaa, i sauditi hanno reagito militarmente perché non potevano tollerare che una fazione sciita – in qualche misura simpatizzante con la Repubblica islamica dell’Iran – fosse al governo in un Paese della penisola araba perché avrebbero costituito un esempio da imitare per altre minoranze sciite della regione.

In primis per quel 15 per cento della popolazione saudita che professa la fede musulmana nella sua declinazione sciita e risiede nella regione orientale dell’Arabia Saudita, la più ricca di petrolio: se gli sciiti sauditi rivendicassero l’autonomia, potrebbero gestire un patrimonio ingente.

Ci sono nazioni che traggono beneficio dall’instabilità yemenita?

Sì, i Paesi che vendono armi a coloro che bombardano lo Yemen. In primis Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma non solo. Anche l’Italia ha venduto mine utilizzate nella guerra in Yemen. Un’industria, quella degli armamenti, che fa girare l’economia a stelle e strisce, creando posti di lavoro: l’appalto di ManTech International a Fairfax (Virginia) per la manutenzione degli F-15 vale 175 milioni di dollari. Della vendita di armi di Boeing e Trexton si occupa il governo statunitense, ottenendo una commissione del 7% che va a finanziare altre iniziative sullo scacchiere internazionale. Gli interessi economici in gioco sono tanti. Senza contare che nel deserto sud-occidentale dell’Arabia Saudita la CIA ha una base da cui partono i droni (che vanno a colpire, tra gli altri, lo Yemen).

 E gli europei?

Gli Europei non sono meno complici di Washington. Secondo l’organizzazione Campaign Against Arms Trade, il Regno Unito ha fornito un miliardo di sterline in aiuti umanitari allo Yemen.  Al tempo stesso, ha però concesso una licenza del valore di 6,5 miliardi di sterline per la vendita di armi ai paesi che lo bombardano. È difficile trattare questi interessi economici e strategici con il rispetto dei diritti umani. Come recita un proverbio vicino-orientale, l’odore dei soldi cambia anche il corso dei fiumi.

Che sfide dovrà affrontare il popolo yemenita in ambito politico e sociale?

Quando il conflitto avrà fine, sarà necessario ricostruire lo Yemen. A cominciare dalle sue infrastrutture: strade, ospedali, scuole. In questi sette anni e mezzo di guerra, molti esponenti della società civile yemenita sono scappati all’estero e ci si augura che tornino in patria per costituire la dirigenza politica. Il problema è che un’intera generazione è stata sterminata dalle bombe, dalle malattie e dalla fame.

Ad oggi che rapporto c’è tra Italia e Yemen?

I rapporti tra i due Paesi sono storicamente molto buoni, anche grazie alla presenza in Yemen, fin dalla prima metà del Novecento, di medici italiani. Con la guerra, l’Italia ha venduto armi alla coalizione guidata da Riad e, al tempo stesso, le nostre organizzazioni non governative hanno cercato di aiutare la popolazione. Operazione non facile, tenuto conto del blocco aeronavale imposto dalla coalizione a guida saudita che ha impedito agli aiuti umanitari di giungere a destinazione.

L’Ue come si è posta rispetto al conflitto?

In modo oserei dire ipocrita: da una parte diversi Paesi europei hanno venduto alla coalizione guidata da Riad le armi che hanno distrutto lo Yemen; dall’altra, l’UE ha mandato aiuti umanitari pagati da noi contribuenti europei. In altri termini, se Bruxelles avesse impedito ai membri dell’UE di vendere armi ai sauditi, i nostri soldi di contribuenti europei sarebbero andati ad altre iniziative.

 

Francesco Fatone – Giornalista

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