Tre banchi di prova per una vera discontinuità

Delegificazione, leggi semplici e chiare, niente abusi di decreti legge, burocrazia dal volto umano

“Le leggi son ma chi pon mano ad esse?”

Già ottocento anni fa Dante aveva posto il problema: le leggi ci sono, ma chi le applica, chi le fa rispettare? Aggiornando la domanda dantesca e applicandola ai nostri tempi: se le leggi ci sono e non vengono applicate e rispettate, i motivi possono essere almeno due.

Il primo: le leggi sono troppe, lo sono da tempo, tanto che un bel giorno il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli si presentò in una caserma e diede letteralmente fuoco a decine di migliaia di leggi  impacchettate in tanti scatoloni (il cosiddetto falò di Calderoli).

 

E pazienza che poi nel furore inceneritorio di tante leggi inutili e superflue, ci andarono di mezzo leggi giuste e necessarie – per esempio quella che vietava la ricostituzione del partito fascista! – e furono subito ripristinate.

L’altro punto del discorso non è meno intrigante: le leggi son, ma non vengono applicate, o vengono aggirate, perché non sono scritte in modo chiaro, cristallino, incontrovertibile. Tra le loro pieghe ci sono zone d’ombra, talvolta commi vaghi e indecifrabili come i responsi della sibilla.

Una festa e un affare per avvocati, legulei, azzeccagarbugli.

E aveva proprio questo nome, anzi soprannome, un personaggio manzoniano, che a un certo punto a Renzo Tramaglino, andato a chiedergli un parere contro i soprusi di Don Rodrigo, dice queste testuali parole: a saper maneggiare i codici, nessuno è colpevole e nessuno è innocente.

Quest’ultima parte della frase – lo diciamo incidentalmente –  avrà fatto felice Piercamillo Davigo, un componente del pool Mani pulite, secondo il quale non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca ( nel senso che non sono stati ancora scoperti). Non sappiamo se questa bella idea garantista Davigo la nutrisse anche quando faceva parte del pool milanese guidato da Borrelli, ma il dubbio che ce l’avesse fa un po’ accapponare la pelle.

Oppure, altro campione di garantismo, l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando (Cascio, aggiungeva allusivamente Cossiga marcando l’altro cognome di Orlando),  secondo il quale “il sospetto è l’anticamera della verità”. Frase da far sembrare l’Inquisizione spagnola un cenacolo di ferventi garantisti.

Stiamo divagando? Forse no, perché il tema resta sempre quello delle leggi, come sono scritte, come sono approvate.

Intanto sono troppe, e lo ribadiamo. Negli anni Ottanta Craxi, nell’ambito della “Grande Riforma” e dell’ammodernamento del sistema politico e amministrativo, denunciò il fenomeno della eccessiva proliferazione delle leggi. Per ogni problema, anche secondario,  una legge. E nel congresso di Verona del 1984, mentre era presidente del Consiglio, deplorò il fatto che il Parlamento dovesse impegnare giornate di dibattito per occuparsi di temi come l’eviscerazione degli animali da cortile, o i molluschi eduli lamellibranchi ( le cozze), quando sarebbe stato necessario e sufficiente procedere con atti amministrativi. La cosiddetta de-legificazione, soluzioni amministrative invece di atti legislativi).

Se n’era occupata anche la prima commissione bicamerale per le riforme, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, ma decadde con le elezioni anticipate del 1983. Sulla spinta di questa onda lunga, dopo alcuni anni si arrivò ai falò di Calderoli. Che dovrebbero essere ripetuti, visto che l’Italia tra i suoi primati negativi detiene anche quello del maggior numero di leggi in vigore.

Il nostro Bel Paese, da questo punto di vista, l’Italia resta pur sempre il Paese delle gride manzoniane, disattese, inascoltate, inapplicate, che debbono essere ribadite, “aggravate”, inasprite per avere qualche effetto.

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Chiarezza delle leggi, l’appello di Montanelli a Bassanini

Quando Franco Bassanini era ministro della Pubblica amministrazione, Indro Montanelli gli si rivolse con questo appello che era anche una pressante esortazione: semplifica le leggi, falle scrivere in modo che le capiscano tutti. Se ci riuscirai, passerai alla Storia.

Bassanini forse alla Storia passerà, ma non per questo, perché il compito che gli prospettava Montanelli era semplicemente titanico, e non poteva affrontarlo un uomo solo.

Può provare ad affrontarlo però questo governo, tantopiù che la presidente del Consiglio nel suo discorso programmatico alle Camere ha fatto un cenno alla necessità di scrivere leggi chiare, leggi che, ci auguriamo, vengono capite dalla gente comune, senza che ci si debba rivolgere all’avvocato, al fiscalista, all’esperto di settore.

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Chiamare i docenti d’italiano a verificare i testi delle leggi!

La chiarezza delle leggi è un problema di democrazia, e ora che il progresso ha debellato l’analfabetismo, anche quello di ritorno – in taluni casi persiste però quello di… andata, ma sono casi isolati – leggi chiare e semplici sono un diritto per il cittadino e un dovere per il legislatore.

È un compito facile?

Nient’affatto. Però anche questo governo potrebbe tentare l’impresa, in cui altri governi hanno mancato in tutto o in parte il bersaglio. Ma a patto che non faccia scrivere i testi delle leggi ai burocrati, in quella lingua, il burocratese, polverosa e antiquata che non ha nulla di chiaro e nulla di umano. Si affidi ai linguisti, ai professori di italiano. Ecco, appunto: le leggi vengano scritte semplicemente in lingua italiana.

Sembra l’uovo di Colombo. Ma proprio questa apparente ovvietà misura la gravità del fenomeno delle leggi inestricabili e incomprensibili. Inestricabili come una foresta dove prevalgono i sentieri interrotti che non portano da nessuna parte.

Provate a prendere una legge qualsiasi e a leggerla: c’è una serie di continui rimandi a commi e leggi precedenti, in una specie di gomitolo che si avvolge su se stesso, e in pochi minuti il cittadino si perde nella matassa.

Una proposta: non si potrebbe mettere in coda al testo di una legge una nota aggiuntiva con tutti i rimandi alle leggi citate, e scrivere nel testo legislativo semplicemente e unicamente che cosa si prevede, che cosa si prescrive, che cosa si vieta? È proprio così difficile?

Non la vogliamo farla facile, intendiamoci: in certe leggi ci sono aspetti tecnici e meccanismi che non è agevole semplificare, per cui margini di tecnicalità a volte sono ineliminabili. Ma qui il problema non riguarda solo le leggi “tecniche”, ma gran parte delle leggi. E qui l’oscurità è meno comprensibile, soprattutto meno giustificabile.

Quando la commissione dei 75 della Costituente redasse il testo della nostra Costituzione fu affidato, su suggerimento di Togliatti, al grande latinista Concetto Marchesi, il compito di “ripulire” il testo, renderlo perspicuo e chiaro e agevole alla lettura.

E infatti provate a rileggere un articolo della Costituzione, a caso: sembra acqua di sorgente che scorre chiara e trasparente, lo capiscono tutti, anche i ragazzi della scuola elementare. Una chiarezza adamantina, quasi evangelica nel senso in cui si dice: sia il tuo parlare (in questo caso: il tuo scrivere le leggi) sì sì no no, il resto viene dal maligno.

Siamo arrivati al punto: dove la legge non è chiara si annida la tentazione dell’arbitrio, della interpretazione soggettiva, sia pure in buona fede, si creano le basi per svuotare la legge stessa (l’azzeccagarbugli aveva capito tutto).

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L’altro banco di prova che attende il governo, e si vedrà presto se si andrà in direzione di una vera discontinuità rispetto ai passati governi,  è il rispetto della centralità del Parlamento e come e quanto userà lo strumento del decreto-legge, del voto di fiducia, del ricorso ai maxi emendamenti.

Ogni governo all’atto della sua nascita ha promesso rispetto per il Parlamento, per la sua centralità.

Lo ha fatto anche l’on. Meloni, e non abbiamo motivo di dubitare delle sue intenzioni. Rispetto per la centralità del Parlamento, tradotto dal politichese, significa che il governo fa il governo e non cerca di invadere campi che non gli spettano: quindi niente abuso dei decreti legge, ma solo in casi di effettiva necessità e urgenza, e presentazione di disegni di legge ordinari che poi le Camere discutono, approvano modificano o respingono.

E niente abuso del voto di fiducia, con il quale passati governi hanno strozzato il confronto parlamentare (e non solo durante la pandemia, anche prima), l’esame degli emendamenti, e hanno messo il Parlamento davanti al dilemma: prendere o lasciare. E il Parlamento era costretto a prendere. Se no, cadeva il governo.

Oppure l’obbrobrio giuridico e legislativo dei maxi- emendamenti, verso i quali i presidenti della Repubblica di turno hanno manifestato non ufficialmente disagio e qualche insofferenza. Maxi-emendamenti che diventano un unico articolo della legge da approvare con centinaia di commi. Una giungla di norme, un provvedimento omnibus, affollato come gli antichi mezzi di trasporto con questo nome, e sul quale i governi passati mettevano la tagliola del voto di fiducia, pur disponendo di ampie maggioranze. Di cui, evidentemente i governi non si… fidavano!

Domanda: il nuovo governo, che aspira, legittimamente dal suo punto di vista, a operare una DISCONTINUITÀ rispetto a tante male pratiche governative passate, farà una strambata, come una nave che cambia rotta? oppure alla fine, sotto anche la spinta della burocrazia ministeriale, si adagerà nel vecchio andazzo?

La burocrazia ministeriale, rimasta pressoché intatta nonostante il cambio di governi e di fasi  politiche, sopravvissuta anche a tentativi di spoil system, nel corso della storia italiana si è rivelata, nel bene ma in questo caso soprattutto nel male, un fattore di continuità, un freno all’innovazione e al cambiamento, dominata com’è stata e com’è da un forte spirito di autoconservazione e di autoperpetuazione del proprio potere.

Un andazzo contro il quale l’opposizione di ieri, l’unica opposizione parlamentare negli ultimi anni, rappresentata dalla Destra, ha tuonato spesso denunciando l’esproprio delle prerogative parlamentari.

Se l’attuale governo continuasse nel vecchio andazzo una volta deprecato, quella che è l’opposizione, o le opposizioni, di oggi potrebbe ricordarglielo e rinfacciarglielo.

E giacché siamo a delineare un auspicabile quadro di novità che il nuovo governo potrebbe introdurre, vogliamo citare il fenomeno delle anticipazioni di provvedimenti e di leggi fatte da questo o quel ministro attraverso le interviste PRIMA e SENZA che il Parlamento ne sappia nulla.

Anche questi casi sono in ballo il rispetto del Parlamento e la sua centralità, sostituita spesso dai talk show dove le iniziative legislative vengono annunciate, a volte perfino illustrate.

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Per finire, disboscare la giungla della burocrazia

 

Chi ha voglia di fare non sarà frenato, ha detto l’onorevole Meloni nel suo discorso in Parlamento. Parole incoraggianti, un invito e un omaggio all’iniziativa privata, a chi voglia intraprendere, soprattutto una esortazione ai giovani delle startup.

Propositi lodevoli, naturalmente. Ma occorrono gli strumenti. Che non sono soltanto, come è ovvio, risorse economiche, sostegni finanziari. Sono anche, e in Italia si dovrebbe dire soprattutto, regole semplici, procedure semplificate. Così al momento in questo Paese non è, tanto che si potrebbe improvvisare un gioco a quiz: quante pratiche, quante domande ci vogliono per aprire un bar? Un ristorante? Una piccola impresa? Una licenza edilizia? Quanti passaggi burocratici bisogna fare? Quanti mesi bisogna aspettare. Questo è il discorso che riguarda la burocrazia, lo Stato che contraddice i suoi stessi propositi.

Purtroppo razionalizzare la burocrazia, oltre che un drammatico ossimoro, può sembrare anche una missione impossibile. Ma non bisogna rassegnarsi.

Il governo Meloni vorrà seriamente provarci, dove altri governi hanno fallito, pur avendo promesso ogni volta la riforma della burocrazia? Nel 2001 Berlusconi promise qualcosa del genere con l’annuncio di una “rivoluzione liberale”. Qualcosa, per carità è stata fatta, qualche procedura è stata semplificata. Ma la burocrazia mantiene la sua forza inerziale, e l’impresa richiede anni e sforzi continui. Non basta legiferare, emanare circolari, disposizioni, per questo ce ne sono fin troppe. Si tratta di compiere una rivoluzione culturale, un salto di mentalità.

 

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Un Montesuieu redivivo. Nenni e la “stanza dei bottoni”

Ma c’è soprattutto una difficoltà derivante dal fatto che oggi un Montesquieu redivivo e allarmato delineerebbe non più tre poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – ma ne aggiungerebbe… un quarto: quello burocratico, che da una parte asseconda il potere politico se lo ritiene affine,  viceversa cerca di frenarlo, depotenziarlo, di fatto sabotarlo.

All’avvio del centrosinistra Pietro Nenni sperò di entrare nella cosiddetta ‘’stanza dei bottoni’’, che simbolicamente e figurativamente simboleggia il potere: premi un bottone e chiami il prefetto, ne premi un altro e chiami il questore e così via.

È ormai un dato storico acquisito che la spinta innovativa e riformatrice del centrosinistra così tenacemente voluto da Moro si affievolì, insieme con le attese che aveva suscitato, non solo per l’azione di freno che esercitarono le forze politiche meno convinte di quella svolta politica, esistenti soprattutto all’interno della Dc, ma si depotenziò anche perché una burocrazia ministeriale che aveva servito i precedenti governi, e in molti casi veniva dal fascismo nonostante i modesti tentativi di epurazione fatti nel Dopoguerra, non fu certo un fattore di spinta, e stiamo usando un eufemismo.

 

Oggi la persistenza di una macchina burocratica lenta e complicata – capace di frenare l’attuazione anche delle riforme più incisive (è una sottolineatura che dedichiamo volentieri all’on. Meloni, così fortemente intenzionata a innovare, a cambiare — risulta sempre meno plausibile e sempre più assurda, nei tempi della necessaria snellezza delle procedure e della rapidità delle decisioni: non ci sono più alibi. A spazzare gli alibi sono i progressi della cosiddetta rivoluzione digitale che dovrebbe informare tutta la burocrazia di Stato.

Da questo punto di vista, forse sarà la tecnologia, supportata dalla volontà politica dei governi, a dire al cittadino stremato: io ti salverò. Facendolo passare dal medioevo burocratico alla effettiva modernità.

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

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