Storie dell’arte e donne istruite. Libri, film, maestre e maestri, opere d’arte per cittadine indipendenti

La storia dell’arte, insieme alla storia della lingua, dovrebbe guadagnare nei programmi scolastici e nella divulgazione mediatica lo spazio adeguato a rendere consapevoli del proprio patrimonio culturale tutti i cittadini, anche e soprattutto quelli poco istruiti. Soprattutto chi insegna la storia dell’arte può ancora arginare il degrado civile e sociale di cui oggi in Italia sono di nuovo prime vittime i giovani e le donne

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Robert de Niro tra le statue polimateriche ex voto nel santuario di Santa Maria delle Grazie a Curtatone, presso Mantova, in Novecento. Atto I, regia: Bernardo Bertolucci. Produzione: P.E.A. – Produzioni Europee Associate, Artemis Film, Berlin, Productions Artistes Associés, Paris (Italia, Germania ovest, Francia, 1976). Si tratta della sequenza in cui i ricchi proprietari agrari sospendono la caccia, si riuniscono in chiesa lasciando i fucili sul bordo dell’acquasantiera e firmano un patto contro i contadini socialisti, garantendo economicamente la nascita del fascismo.

 

Diventare storici dell’arte può ancora essere una buona opzione per esercitare un pensiero libero e indipendente, soprattutto oggi, soprattutto se si è donne. Si può diventare storici dell’arte percorrendo diverse strade. Naturalmente la fase iniziale, autonoma, spesso inconsapevole, ha inevitabili riflessi su come si insegna e si fa ricerca quando l’interesse e l’inclinazione diventano un lavoro.

Ogni storico dell’arte deve moltissimo alla lettura di libri, che non si può disgiungere dalla visione diretta delle opere, che è ovviamente un impegno quasi quotidiano quando la passione si incanala nel lavoro.

La mia storia di storica dell’arte comincia con i libri, ma non con i libri di storia dell’arte. Ho imparato a leggere a tre anni sui libri a portata di mano in casa, sostenuta dalla costante lettura ad alta voce di mia madre: tante fiabe e tante favole, racconti italiani, romanzi francesi e inglesi, poesie italiane, l’epica latina e greca tradotta in italiano cinquecentesco e ottocentesco in libri illustrati in bianco e nero; è stato naturale iscrivermi a un liceo classico, dove ho cominciato a studiare storia dell’arte per poche ore alla settimana.                                                                                          

Solo da adolescente ne ho dunque appreso lo statuto di disciplina, non di passatempo (così ancora oggi la intende il sistema scolastico italiano). Durante infanzia e adolescenza a frequenti e meravigliate visite a chiese e a musei soprattutto in Puglia e in Lombardia, le regioni dove sono cresciuta (ho iniziato a frequentare le mostre molto tardi), si univano la lettura di romanzi, di qualche saggio di storia, di ermeneutica letteraria, e la visione di moltissimi film. 

Nei libri che preferivo le immagini e gli oggetti d’arte esercitavano un ruolo nella vita emotiva e sociale, potevano prevalere sul degrado di persone e luoghi, potevano perfino assumere un ruolo soprannaturale, modificarsi imitando la natura come simulacri o addirittura vendicarsi dell’incuria degli uomini per sé stessi e per il prossimo: non avevo letto Kris e Kurz né Schlosser (vedi oltre), non sapevo niente di leggende degli artisti né delle funzioni dell’arte imitativa. 

La narrazione attorno alle immagini che ancora condiziona il mio modo di guardare stava in opere di narrativa come La cugina Bette e Il cugino Pons di Balzac, soprattutto in Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (particolarmente evocativa la bellissima lettura integrale di Tommaso Ragno nel 2009 per Ad alta voce di Radio 3: https://www.raiplaysound.it/audiolibri/ilritrattodidoriangray); la strategia di messa in scena e di rielaborazione statica o dinamica di immagini del passato e della contemporaneità stava in film come Rocco e i suoi fratelli e Gruppo di famiglia in un interno di Visconti, L’età dell’innocenza e Life Lessons di Martin Scorsese e Novecento di Bernardo Bertolucci.

Federico Zeri nel novembre 1997 nel laboratorio di restauro della COOBEC a Spoleto mentre si preparano le riprese del documentario Non solo Assisi; di fronte  a lui Nino Criscenti lo sta fotografando

 

Fino a vent’anni la mia curiosità sulla storia dell’arte e delle immagini ha ricevuto un certo incremento disordinato anche dalla televisione: tra gli anni Ottanta e Novanta da una parte c’era l’anziano Federico Zeri che faceva coincidere la conoscenza dell’arte con la tutela e la filologia in trasmissioni erogate dal servizio pubblico (la Fondazione Federico Zeri di Bologna ha dedicato una sezione del suo sito internet a Federico Zeri in televisione (1974-1997), di Nino Criscenti: https://fondazionezeri.unibo.it/it/biblioteca/videoteca-rai/federico-zeri-in-televisione).

Dall’altra il giovane Vittorio Sgarbi che, in seconda serata dal palco di una seguitissima trasmissione della rete ammiraglia di Silvio Berlusconi, divulgava la storia dell’arte con toni che lo resero rapidamente un personaggio dell’immaginario pop. Questi contributi televisivi hanno avuto un ruolo innegabile per chi è della mia generazione, anche per capire progressivamente almeno che tipo di professionista si sarebbe voluti diventare.

Francis Haskell (1928-2000) e la copertina della traduzione italiana (Roma/Ivrea, 1982) di Riscoperte nell’arte

 

Solo durante gli ultimi due anni di università ho incanalato sistematicamente i miei interessi verso la storia dell’arte. Libri come Mecenati e pittori e Riscoperte nell’arte di Francis Haskell hanno poi ampliato i termini del meccanismo investigativo della ricerca che ricostruisce la storia delle opere d’arte in rapporto a chi le ha realizzate, volute, pagate e all’ambiente in cui sono nate, a quello per cui sono state commissionate, alle condizioni in cui sono giunte fino a noi. 

Riscoperte nell’arte. Aspetti del gusto, della moda e del collezionismo in Inghilterra e in Francia pubblicato nel 1976 da Francis Haskell, professore di Storia dell’arte all’Università di Oxford che è stato spesso ospite della Scuola Normale Superiore di Pisa invitato da una lungimirante Paola Barocchi (vedi oltre). Haskell si riteneva giustamente uno storico a tutto tondo; in Riscoperte egli spiega che guardando le opere d’arte e leggendo libri si vede risorgere la storia com’è stata veramente e si capisce meglio il presente.                                                                                                      

Riscoperte ha avuto grande rilievo nella formazione di molti storici dell’arte della mia generazione e di un paio di quelle precedenti; come altri libri di storici dell’arte non italiani da considerare ottimi viatici, è anche scritto in una lingua chiara e coinvolgente che non perde nulla nella traduzione: infatti i capitoli del libro rielaborano un ciclo di conferenze didattiche del 1973. Haskell ha spiegato meglio di chiunque altro che le immagini sono strumenti che contengono il messaggio di epoche passate che ci fa capire meglio il presente: perciò la storia dell’arte, insieme alla storia della lingua, dovrebbe guadagnare nei programmi scolastici e nella divulgazione mediatica lo spazio adeguato a rendere consapevoli del proprio patrimonio culturale tutti i cittadini, anche e soprattutto quelli poco istruiti.                               

Per esempio, Haskell dimostra quanto sia fruttuoso questo approccio anche per la vita quotidiana nel libro Le immagini della storia (1993), cercando di ricostruire alcuni aspetti del ruolo delle immagini sull’immaginazione storica. Le immagini spiegano come la realtà è condizionata dal gusto, dalle mode, dalle convinzioni religiose, dal denaro di alcuni uomini, dalla disponibilità effettiva di certi oggetti sul mercato in un determinato momento storico, dall’arte contemporanea che rappresenta sempre la chiave di accesso alle immagini del passato, dalle tecniche di riproduzione delle immagini, dalla lingua via via sempre più tecnica che serve per parlare di arte e di artisti.

Oltre ai libri di Haskell, tanti altri libri hanno orientato i miei interessi di studio e di ricerca fin dalla prima lettura. Ne indico due al lettore curioso.

1. Storia del ritratto in cera. Un saggio, pubblicato nel 1911 in volume da Julius von Schlosser, uno dei più celebri esponenti della Scuola di Vienna, orgogliosamente per metà italiano grazie alle origini di sua madre, fu prima direttore delle Collezioni di Scultura e Arti applicate del Kunsthistorisches Museum di Vienna, poi dal 1922 professore di Storia dell’arte all’università. 

2. Storia del ritratto in cera è un libro pieno di cose, che ricostruisce la storia dell’arte del ritratto a partire dalle maschere funebri romane ai riti bizantini, passando per gli elaborati funerali in effigie (riservati a personaggi pubblici e a sovrani), per i cosiddetti “boti” in cera (cioè statue o busti a grandezza naturale che ex voto ritraevano il miracolato in cera policroma) realizzati dagli artisti della Firenze medicea, fino agli iperrealistici musei delle cere settecenteschi e ottocenteschi.

Raccontando l’arte nata per tenere in vita i morti, Schlosser spiega tanti orientamenti, anche novecenteschi della figuratività a partire dal ruolo del ritratto come privilegiato veicolo della memoria affettiva, politica, civile nella cultura mondiale (del libro esistono tre traduzioni italiane; consiglio quella annotata, commentata e riccamente illustrata da Andrea Daninos, traduzione di Davide Tortorella, Milano, Officina Libraria 2011: https://www.ibs.it/storia-del-ritratto-in-cera-libro-julius-von-schlosser/e/9788889854662?lgw_code=1122-B9788889854662&gclid=Cj0KCQjwxveXBhDDARIsAI0Q0x2xjeL6ZPyngIb7Ml_xjmRd8T8QuuRKdgvzhPb1U10VYmXntCHWgAcaAtqkEALw_wcB).

Julius von Schlosser (1866-1938) e la copertina della traduzione italiana di Storia del ritratto in cera (Milano, 2011)

 

3. La monumentale eppure chiarissima Storia moderna dell’arte in Italia (1990-2009) di Paola Barocchi, un modello di donna ricercatrice e insegnante che avrebbe ancora molto da dire ai giovani odierni. Una studiosa insuperabile e rigorosa che si è guadagnata presto un posto di primo piano in un contesto professionale dominato dagli uomini e ha dato giusto spazio alle donne capaci che sono state sue allieve. Paola Barocchi era fiorentina, non si sposò e non ebbe figli; quando era giovane e bella e il pregiudizio antimeridionale era fortissimo quasi come di nuovo oggi, andò a insegnare con determinata dedizione all’Università di Lecce, dove dai trentadue ai quarantuno anni (1959-1968) fu presente e molto attiva, ricoprendo incarichi, formando allievi e una biblioteca di fonti e studi. Pur pendolando tra Firenze e Lecce, in quel fecondo periodo la professoressa trovò il tempo di studiare accanitamente per progettare e pubblicare alcune tra le opere più rivoluzionarie della storia dell’arte non solo italiana. Dal 1968 Paola Barocchi si trasferì alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove fino al 2002 continuò a formare gli storici e le storiche dell’arte attivi anche oggi in numerose università italiane. La sua Storia moderna dell’arte in Italia insegna a non ritenere la “storia della critica d’arte” una disciplina diversa dalla storia dell’arte e a costruire una tipologia di libro difficilissima, il libro di storia dell’arte fatto di fonti letterarie e visive, completamente diverso da un’antologia e ancora oggi poco compreso nella sua articolazione da chi di Paola Barocchi non è stato allievo o ammiratore.

Paola Barocchi (1927-2016) e la copertina del vol. I di Storia moderna dell’arte in Italia (Torino, 1998)

 

L’artificiosa separazione, anche accademica, tra “storia della critica d’arte” e “storia dell’arte”, abbattuta, nei fatti, dai libri e dall’attività didattica di Paola Barocchi, si riscontra anche, per tutto il Novecento e oltre, nella tradizionale ed enfatica distinzione tra “stile” e “iconografia”. 

Soprattutto in Italia nel XX secolo e per l’autorevolezza di Roberto Longhi, pochissimo interessato all’iconografia, lo “stile” ha coinciso con il legame tra la qualità e l’unica forma di esercizio possibile per un conoscitore che è anche storico dell’arte: la sequenza di immagini di opere, legate da un nome e da una cronologia progressiva, raccontate con una lingua mimetica che fa a gara con le immagini.

Oggi chi imita Longhi senza essere un altrettanto ottimo conoscitore di immagini e della lingua da usare per scriverne rischia di considerare in modo puramente sequenziale le opere, senza che alla serie segua la storia. La storia dell’arte odierna produce ancora risultati importanti quando assorbe la lezione del Longhi del primo numero della rivista da lui fondata, “Paragone / Arte”, introdotta dalle Proposte per una critica d’arte, fino alle sue esperienze seguenti, anche di alta divulgazione. 

Come ha insegnato Longhi, la storia dell’arte può continuare a giovarsi del rapporto fecondo tra il riconoscimento della materialità delle immagini, la capacità di attribuirle, lo studio delle fonti e la fortuna delle une e delle altre raccontate con la padronanza della lingua e delle tecniche narrative. La narrativa, la fotografia di riproduzione e di invenzione e la riproposizione di immagini del passato in movimento nel cinema sono anche per il pubblico non specialista, del resto, i filtri rilevanti nella comprensione delle immagini dopo gli anni Cinquanta del Novecento. 

Longhi stesso capì meglio la pittura di Caravaggio grazie ai nuovi meccanismi narrativi cinematografici. Si tratta di filtri visivi che permettono di accedere a diverse forme di sapere, non solo alla storia dell’arte e delle immagini. Sia nella narrazione di fantasia, sia nello studio della storia e nella creazione artistica è ormai comune un certo modo di creare e presentare le immagini. Poi c’è il rapporto delle immagini con le parole: la lingua garantisce il tentativo di riprodurre l’illusione del movimento e il rapporto con lo spazio. Le parole, la sintassi, in generale la lingua dell’ecfrasi sono fondamentali nel meccanismo storiografico: la ricerca espressiva deve essere diversa se si scrive sulla statuaria del Quattrocento a Firenze o sui quadri degli anni Sessanta del Novecento a Roma.

Roberto Longhi (1890-1970)

 

In definitiva, avvicinarsi fin da piccoli alla storia e al significato delle immagini aiuta a conoscere il passato per capire meglio il presente. Quando un percorso di formazione come quello personale che ho descritto, praticabile da chiunque e in qualunque tipo di famiglia, approda al mestiere di professore (a scuola o all’università), allora insegnare a decifrare le immagini da cui siamo quotidianamente bombardati e permettere ai giovani di imparare a metterle in serie in una sequenza plurisecolare è anche il modo più democratico per formare giovani cittadini consapevoli.

All’arte e alla storia dell’arte oggi si chiede di intrattenere, non di rappresentare un elemento aggregante, identitario in senso profondo e non razzista, che abbatte le barriere sociali e di genere e migliora la realtà. Come durante gli anni Venti del secolo scorso, in Italia oggi sembra di nuovo normale discutere se negare o no l’istruzione obbligatoria, soprattutto alle donne, che dovrebbero stare a casa a ramazzare e ad accudire figli senza i quali sarebbero inutili pesi per la società.                               

Si parla di nuovo senza vergogna anche di lavoro minorile, spesso mascherato sotto la formula dell’alternanza scuola/lavoro e proposto come una precoce fonte di indipendenza dalla famiglia, non come inaudito sfruttamento. In paesi come l’Ungheria le donne istruite grazie alla laurea e a studi ulteriori che consentono di guadagnare autonomia economica vengono considerate un pericolo, perché fanno meno figli, o non ne fanno affatto, e possono fare a meno della dipendenza dagli uomini.

Eppure un paese sovranista autoritario che nega i diritti fondamentali non solo alle donne sembra un modello al quale ammicca una parte di un paese civile come il nostro. L’istruzione pubblica deve quindi ancora assumersi il compito di offrire ai cittadini i mezzi per riconoscere la matrice di certi fiammeggianti messaggi verbali e visivi propinati dai media. 

Soprattutto chi insegna la storia dell’arte può ancora arginare il degrado civile e sociale di cui oggi in Italia sono di nuovo prime vittime i giovani e le donne. Il ruolo di divulgatori mediatici assunto da Roberto Longhi e, in maniera massiccia, da Federico Zeri mirò a reintegrare la storia dell’arte nel discorso pubblico per la crescita culturale democratica garantita dalla Costituzione.                                                

Nei loro interventi c’era sempre il proposito di fondo di non consentire che la politica trasformasse il patrimonio pubblico in un parco giochi come progressivamente è accaduto. Dopo l’impegno dei due grandi intellettuali, il degrado civile e sociale è andato di pari passo con quello del patrimonio culturale, storico e artistico: difendere il diritto di leggere libri, andare a scuola, frequentare l’università pubblica come passaggi ineludibili per formare cittadini consapevoli e soprattutto autonomi dovrebbe tornare a essere il nostro primo compito, nelle scuole, nelle università e quando ci dedichiamo alla divulgazione.

E se siamo donne che insegnano ad altre donne, saremo di esempio per il solo fatto di avere scelto il mestiere di insegnanti e studiose: se svolgiamo il nostro lavoro con passione e dedizione, in altre giovani donne, da qualunque contesto socio-familiare provengano, scatterà un meccanismo emulativo e anche loro vorranno leggere libri, visitare chiese e musei, vedere film anziché crescere uniformandosi alle pressioni di uomini e, purtroppo, donne di potere che le vorrebbero nuovamente solo madri, mogli, eterosessuali, semianalfabete e sempre un passo indietro. Invece a nessuna di noi deve più toccare neanche una sola giornata particolare simile a quella ripetuta all’infinito nella vita di Antonietta Tiberi prima e dopo il 6 maggio 1938.

 

Sophia Loren intepreta Antonietta Tiberi in Una giornata particolare, regia: Ettore Scola. Produzione: Compagnia Cinematografica Champion (Italia, Canada, 1977)

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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