Questa sgangherata “chiamata alle armi” avviene in un quadro di relazioni cui partecipano nazioni che avevano dichiarato, e confermato per lungo tempo, eterno amore per la pace, ripudio della guerra, astinenza dalla violenza: tutti pacifisti! Lo sappiamo bene in Italia, dove il ripudio della guerra è una colonna della Costituzione, in Germania il cui riarmo è stato considerato per più di ottanta anni un tabù, e pour cause. (parliamo di riarmare la Germania mentre abbiamo appena finito di commemorare i loro tragici disumani delitti nella seconda guerra mondiale ormai avviati all’oblio, commemorato l’eccidio delle Fosse Ardeatine.. chi dimentica la Storia…) .
Non ricordo nella Storia una fase nella quale il riarmo, la corsa agli armamenti, il rilancio di grandi investimenti nelle armi, abbiano portato alla pace. Anzi parrebbe vero il contrario, e ne sono convinto. Non è vero che “si vis pacem para bellum”, ma piuttosto si vis bellum para bellum. Ora mi spiego. Un massiccio investimento su nuove dotazioni militari ha inevitabilmente l’effetto di generare un rilancio, una rigenerazione della cultura del militarismo. E dei valori e principi collegati: ideali di ordine , disciplina (quindi obbedienza), il culto della nazione e della Patria, attribuzione di maggior potere e credibilità alla classe militare , che inevitabilmente , “per ruolo”, tende a orientare comportamenti e orientamenti dello Stato, nel rapporto con altri Stati, in termini di aggressività e di scontro. (Lo stato di guerra porta, assieme alla economia di guerra, anche la sospensione di gran parte dei diritti civili…) Non a caso tra i grandi sostenitori di questa decisione ci sono Gran Bretagna e Francia, dove il ceto militare ha avuto da sempre una posizione di primo piano. The British Empire, La Grandeur!

La tendenza alla vittoria come sopraffazione
Come in tutte le nazioni la cui storia, i cui trionfi e ricchezze sono intrecciati con una successione di guerre, aggressioni colonialismi, e imperialismo, i valori del dominio, della violenza , della prepotenza, caratterizzano, o intaccano per sempre e rimangono all’interno del sistema culturale. Che quindi, più o meno sottotraccia, continua a trasudare valori guerreschi. La tendenza alla vittoria come sopraffazione, il valore del dell’azione prima e invece dell’approfondimento, conduce a cercare lo scontro, come primario e più efficace metodo di soluzione delle dispute, invece o in opposizione al confronto, al dialogo, a quel logos, che per i greci era la sintesi di parola e ragione. che da allora ha costituito il fondamento della civiltà occidentale.
E poi ovviamente la “cultura” del nemico. I militari si esercitano contro un nemico possibile cercano un nemico possibile sperimentano le armi contro un nemico possibile vivono la presenza del nemico, ne hanno bisogno. Sembra il contrario, ma in realtà così accade: non è il nemico che implica la necessità di avere una “adeguata” forza militare, ma è la disponibilità di una rilevante forza militar, che “implica “il nemico.
Ma questo non vale solo per la classe dei militari. La costruzione e la demonizzazione di un nemico esterno è un è un metodo ricorrente nella Storia, da sempre utilizzato dai regimi o in difficoltà o alla ricerca di una giustificazione per loro strategie aggressive, o per deflettere l’interesse dei governati dai problemi interni scaricandone la frustrazione sul nemico esterno. Non a caso il Nemico è sempre stato una risorsa straordinaria di sostegno al potere dominante. Sia che questo fosse in crisi e avesse problema di ricompattare i governati, o meglio i dominati , sotto una bandiera, nutrita dalla paura( da sempre strumento to principe del dominio) la paura di un nemico comune; oppure che avessero bisogno di rinfrescare la propria leadership declinante o fallimentare costruendo una credibilità fittizia, basata su uno scenario, un mondo fittizio, ma efficacemente manipolante. Basta guardarsi intorno… Difficile negare che molte delle leadership nei paesi europei in questo momento abbiano un disperato bisogno di trovare un tema che al tempo stesso ricompatti l’interno del paese, i governati, e dia loro opportunità di protagonismo di riflesso, autorevolezza credibilità
Il riarmo non è una strategia politica
Ma I comportamenti collettivi e le convinzioni generali vengono efficacemente orientate anche da azioni ed eventi vistosi, e a forte valenza simbolica. E gli ottocento miliardi di spesa aggiuntiva per riarmare l’Europa di certo lo sono. Perché? In realtà nessuno ha esposto le prove di una minaccia realistica, né risulta che ci sia una diffusa percezione emotiva , o di razionale dimostrazione di un pericolo di guerra. Ma è proprio la decisione degli ottocento mld (immotivata , o falsata , proprio come le famigerate armi di distruzione di massa…) a inventare , dare corpo, propagare quella sensazione / convinzione di pericolo incombente , della quale i nostri governanti hanno tanto bisogno per proseguire… in cosa?
La proposizione del riarmo non è, nella sua essenza, un atto di strategia politica , o economica , bensì una mossa, un tentativo di radicale cambiamento culturale. Esso non è solo un investimento in tecnologie di difesa di guerra, ma viene riproposto, anzi imposto , un modello di relazione tra le nazioni e gli stati basato sullo scontro , sul potere fisico della violenza e della distruzione, su un equilibrio della minaccia e del terrore , mai raggiunti per definizione ( ci sarà sempre qualcuno che tenterà di modificarlo a suo favore, un passettino oggi, uno domani…), della capacità di offendere. Quando, dopo la terza guerra mondiale, i sopravvissuti post apocalisse avranno un bel da fare , quando proveranno a scrivere e capire e trovare una logica nella la storia di questi anni.
Ma ho un altro sospetto su tutta la vicenda. Che per qualche strano percorso di dinamiche sociologiche o psicanalitiche ,dietro questo questa decisione così inconcepibile da un punto di vista di razio nalità strategica, di governo del mondo, ci sia qualcosa in più. In realtà tra le tante guerre che si stanno combattendo e in modo più o meno guerreggiato una di quelle fondamentali, il cui esito potrebbe realmente cambiare la configurazione del modo in cui è gestita la nostra civiltà è quella tra gli uomini e le donne. Si tratta di un trend di dimensioni gigantesche e di potenzialità di influsso sul governo del mondo finora inesplorato, incredibile. molto più della temuta intelligenza artificiale. Perché questa è in fondo solo uno strumento; qui invece si tratta di una cambiamento di sostanza nella logica ,nella visione del senso stesso dell’essere persone umane alla guida di un mondo.
La politica del testosterone
Dunque se questa è una guerra, ci sarà uno che attacca l’altro che cerca di difendersi. E chi ora attacca sono le donne, con una forza, determinazione e lucidità che certamente manca ai loro avversari. E allora, quale migliore occasione per arginare questo ansiogeno attacco che non quella di tornare al modello tradizionale, al passato, “com’era una volta”, a quella società nella quale agli uomini è riservato tutto ciò che genera il potere reale, la forza, il dominio, il comando. E la guerra guerreggiata, il mestiere delle armi, come si sa, è un dominio maschile, e porta in sé la legittimazione della necessità di una cultura androcentrica : il suo rilancio certifica la ripresa di potere, di priorità nel mondo, del “maschio vero”, il guerriero e cacciatore.
Altro che palestre , videogiochi assassini, rti marziali, rifugi e surrogati per il bellicismo mascolo. Sterili nutrimenti del declinante testosterone… Si trova un modo, gentilmente offerto e finanziato, per arginare rallentare, marginalizzare il pericolo incombente del Rinascimento femminile, del pieno riscatto, restringendolo in un ruolo di nuovo ancillare ,comunque subordinato, fuori dalle stanze del grande Potere. Sotteso a tutto ciò, l’antico conflitto o meglio l’alternativa profonda ancestrale tra la cultura della vita, rappresentata dalla donna, e la cultura della morte, che purtroppo è così profondamente impiantata nella mentalità dell’uomo, con la minuscola.
Mario Rosso Manager filosofo. Ha lavorato in Olivettti, Fiat, Tiscali, Ansa