Un percorso professionale e intellettuale di 35 anni nel mondo del management, in una epoca di cambiamenti e turbolenze senza precedenti, anche a livello mondiale. Si parla poco di aspetti strettamente tecnici e manageriali o amministrativi (piani, strategie, tecnologie, competizioni, finanza) e molto di persone, di quelle con cui Mario Rosso ha lavorato, che ha incontrato, con le quali ha vissuto. E a coloro che egli cita e che forse non si riconosceranno in toto nei ritratti che ne ha fatto, Rosso rivolge questo pensiero, che sembra un aforisma ( ce ne sono altri, come vedremo in questa autobiografia): C’è un abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te.
(Manca un indice dei nomi, ed è un peccato, perché i nomi sono tanti. Un’altra pecca, ma questa può essere una nostra fisima personale, è l’indulgere un po’ troppo insistito a termini francesi, inglesi e tedeschi. Ma a Mario Rosso, può venire spontaneo, perché conosce, e quindi può essere indotto a pensare in varie lingue.
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Una “commedia umana”, ininterrotta che tende a virare molto più verso il dramma che verso la farsa
É ambientata in alcune principali realtà economiche del Paese. Con descrizioni di diverse atmosfere, figure di valore con pregi e difetti, piccole e grandi miserie umane. Alcuni significativi camei ( Craxi, Agnelli, Romiti, Soru, Biancheri, Bernabè).
Nel racconto delle sue multiformi esperienze da dirigente, si possono cogliere alcune “regole” e suggerimenti di comportamento manageriale, che, sommati, potrebbero insieme costituire un prezioso trattatello o manuale per futuri manager e imprenditori.
Un forte filo conduttore che ispira tutte le esperienze dell’autore di “Le cattedrali dell’industria”, pagine 224, Guerini Next Editore è una idea-forza: l’idea, cioè, inverata nella pratica quotidiana, con alterna fortuna, che le strategie industriali sono importanti, i piani di innovazione contano, i successi manageriali hanno il loro peso, ma in cima a tutto ci sono i valori umani. Non a caso come esergo di un capitolo c’è il famoso motto di Terenzio: Homo sum, nihil humani a me alienum puto.
Non ripercorreremo pedissequamente e cronologicamente le tappe del percorso manageriale di Mario Rosso, così come egli lo racconta con modalità narrative di un romanzo industriale e culturale insieme. Ci soffermeremo su alcune idee di fondo e su alcuni motivi ricorrenti in questa autobiografia , in questa “storia insolita” dell’industria italiana, così come la definisce lo stesso autore.
Per esempio, il nesso che egli cercava tra un’azienda e la sede dov’era ubicata. Un nesso che egli spiega essere pieno di significato e illuminante ( come quando parla della sede dell’Ansa , che andò in incognito a vedere alla vigilia della nomina ad amministratore delegato). Fu chiamato dall’allora presidente, l’ ambasciatore Boris Biancheri: un palazzo pontificio, ex sede del cardinal Datario; e infatti si trova in via della Dataria, la strada che porta su al Quirinale). Un palazzo refrattario a possibili modifiche interne, per gli intuibili vincoli architettonici, e che lasciava suggerire – nota maliziosamente e simbolicamente- Mario Rosso- una refrattarietà dell’Agenzia a fare, come propose da amministratore delegato, il salto decisivo nella modernità tecnologica d’avanguardia, secondo i tempi che incalzavano e richiedevano una risposta all’altezza.
Questa esperienza all’ANSA Rosso, che aveva lavorato in precedenza e poi in seguito lavorerà in aziende di tutt’altro tipo, la racconta con qualche delusione, che vede come bersaglio non solo i principali soci dell’Ansa, poco coraggiosi a investire e a innovare, a cominciare dai quotidiani del Gruppo Fiat e Gruppo Rizzoli, ma anche il corpo redazionale, che non seppe, non poté, non volle battersi.
Ciò accadde anche per una anomalia che Rosso mette in evidenza con qualche meraviglia: la distanza, quasi la separatezza esistente e voluta dai vertici aziendali tra corpo redazionale e amministrazione dell’Ansa; rivelatrice la frase di un suo collaboratore che, dopo una riunione dei dirigenti amministrativi, consigliava: non facciamo sapere nulla ai giornalisti ( dell’Agenzia!). Sui giornalisti in generale comunque Rosso ha un’idea forse troppo severa, e ogni qualvolta che ne parla, non sono mai rose e fiori.
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Una delle qualità di questo racconto autobiografico è la schiettezza. Critiche aperte ma anche autocritica
Mario Rosso non risparmia critiche neanche a se stesso, e quindi può permettersi descrizioni amare fino ad arrivare a giudizi talvolta impietosi su persone e cose. Ci sono descrizioni e critiche per esempio riguardanti certi ambienti e personaggi del Gruppo Fiat, certe atmosfere plumbee, e un po’ demodée, certi dirigenti irreggimentati come quello che richiamò senza tanti riguardi un quadro intermedio partecipante a una riunione: come mai oggi senza cravatta? Non si sente bene?
Da evidente lettore di Machiavelli, Rosso analizza alcune costanti, di comportamento, di situazioni e di stilemi, che trae dal mondo industriale e manageriale, e quasi le distilla in regole di condotta che possono valere in circostanze analoghe a quelle esaminate e vissute.
Sul potere, per esempio, fa questa riflessione:
“Il potere è come la malattia, non si capisce mai veramente finché non lo si prova in proprio, finché non lo si esercita”.
La prima volta che Mario Rosso ebbe consapevolezza di questa verità fu quando ebbe il primo incarico operativo all’IVI, industria vernici italiane, del Gruppo Fiat: un’azienda strategica che si occupava della “pelle” esterna delle auto nei suoi vari colori.
Rosso sa cos’è il potere, lo ha sperimentato su se stesso, ma confessa di aver sempre detestato la retorica del vincere, della competizione, specialmente quando nelle aziende ha cercato di stare accuratamente alla larga dallo spirito di fazione, dalle camarille, dai gruppi ristretti, dall’imbrancamento in piccoli o grandi clan. Ha sempre tenuto alla sua indipendenza intellettuale che coincide in lui con l’ indipendenza morale. La sua divisa a chi gli domandava “sei dei nostri?” si esprimeva in questa frase: ma se non sono nemmeno mio, come faccio a essere vostro? Oppure, altro aneddoto, quando dopo una importante riunione aziendale, in cui a sorpresa c’erano state defezioni, pentimenti e il risultato era stato diverso da quello previsto, a un dirigente che gli dice: che ci vuoi fare?! Siamo uomini di mondo. Rosso invece replica: Io non sono “di mondo”, sono soltanto un uomo.
Insomma Mario Rosso ha fatto per 35 anni il manager ma ha conservato l’anima del filosofo, nel senso della VII lettera di Platone che, dopo due deludenti viaggi a Siracusa, conclude così il suo ragionamento: o i reggitori di Stati diventano filosofi o i filosofi prendono il potere. Fuori da questa alternativa non c’è salvezza.
Non meraviglia quindi che Mario Rosso, legato ai suoi studi di filosofia teoretica, alla scuola di Luigi Pareyson, abbia cercato in tutte le esperienze di prestigio avute in grandi e famose aziende del Paese di dare un timbro umanistico al suo lavoro. Specialmente quando, come gli è spesso capitato, ha svolto le funzioni di Capo del personale. Arrivando anche a dare indicazioni metodologiche illuminanti sul miglior modo di gestire le persone.
Nel pellegrinaggio manageriale di Rosso – che si svolge non solo in Italia ma anche in Usa, Gran Bretagna, Olanda, Brasile, Francia e India, infatti più che il sentore di macchinari, di ingranaggi e di capannoni, si avverte una costante attenzione agli aspetti umani del lavoro, alla dimensione psicologica e sociale del lavoratore, sulla scia delle migliori acquisizioni teoriche e narrative su questi problemi, da Volponi a Olivetti.
Non mancano, si è detto, anche accenti autocritici, su scelte fatte e poi ripensate e riviste in una luce diversa. Al manager Rosso è capitato più di una volta di abbandonare la scena in un’azienda, sentendosi dalla parte della ragione e della modernità delle idee. Gli è capitato, per esempio, con la Fiat, con l’Ansa, con la Telecom.
Ma in fondo in fondo – lo ammette con lodevole onestà intellettuale – non si abbandona mai il campo da vincitore ma sempre da sconfitto.
Come dire, altrimenti, che abbandonare il campo è sempre una perdita, una sconfitta. E qui torna il fattore umano ad arricchire questo ragionamento. Nell’abbandonare il campo, anche armato delle proprie giuste ragioni – scrive Rosso – non si dovrebbe mai pensare solo a se stessi, al fatto di aver ragione, ma anche al pericolo in cui, andandosene, si gettano migliaia di lavoratori e il destino delle loro famiglie.
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Il libro è scritto con un linguaggio non da manager, quindi non tecnico, gergale
Ma in una lingua elegante, colta, tramata di idee attinte alla filosofia, alla sociologia, alla psicologia. E questo già basterebbe a marcare una differenza, un’alterità, non dichiarata ma oggettiva, con altri tipi di manager.
Sono stato un manager, anzi ho fatto il manager. In questa distinzione c’è anche la filosofia morale e operativa di Mario Rosso, di un “filosofo” prestato all’industria, dove egli -come scrive con orgoglio – ha mantenuto un giusto riequilibrio personale, un distacco critico e una indipendenza intellettuale. Queste disposizioni – dice lui stesso – “mi hanno molto aiutato, ma di cui ho pagato anche il prezzo. Per fortuna, aggiunge con qualche umorismo, il conto non mi è stato presentato tutto in una volta ma a rate, e mi sono potuto permettere di pagarle puntualmente”.
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Alcuni camei: Craxi, Gianni Agnelli ( ma ce ne sono altri: Colaninno, Soru, Bernabè )
Craxi .
“Ci eravamo sistemati – racconta Rosso, dei tempi in cui stava all’Industria vernici, zona Bovisa, a Milano – in un attico di via Solari, dall’altra parte della piazza abitava Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio e nel momento della sua quasi apoteosi. Potevamo godere ogni mattina dello spettacolo della sua uscita, gestita come un’apparizione teatrale di scena e segnalata dallo svolazzare dell’ampio impermeabile che Craxi si appoggiava sulle spalle, facendolo roteare come un torero nella sua migliore veronica. A grandi passi raggiungeva l’auto blindata, attorniato da consiglieri, guardie del corpo, qualche indomito giornalista. Tutto nella sua postura e movimento intendeva esprimere potenza, determinazione, sicurezza. E ci riusciva. Una ouverture scenografica della giornata, di grande effetto, anticipo di successive e più ragguardevoli performance”
Presenza di Gianni Agnelli alle riunioni, tra soggezione e timore di dire una parola sbagliata
“La presenza di Agnelli alle riunioni, erratica e mai annunciata in precedenza, diffondeva un’atmosfera di tensione e di ansia sul consesso, non perché comportasse maggiore rigore o severità, ma per l’imprevedibilità dello svolgimento che ne derivava, e delle sue possibili conseguenze. In ciascuno di noi in fondo, assieme alla reverenza del suddito e al timore che una parola o un gesto sbagliato potessero da soli decidere del nostro futuro, allignava la speranza che nell’occasione una qualche brillante risposta, un arguto intervento, avrebbe potuto farci improvvisamente esistere all’attenzione del sovrano, e magari chissà, acquisire la faveur du roi. Era nota la limitata capacità di concentrazione dell’Avvocato, la sua tendenza a distarsi e ad annoiarsi, sia pure limitandone i segni esteriori, mentre l’attenzione talvolta si risvegliava su curiosità minimali e imprevedibili…..Tuttavia, incredibilmente, non solo rimaneva sempre fino alla fine delle riunioni, pesanti, burocratiche, noiose, ma trovava sempre la forza di esprimere o fingere un interesse”
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Un manager dal volto umano che spiega che cos’è l’amore
Mario Rosso, nel suo ricco e prestigioso percorso, ha lavorato nelle più importanti aziende del Paese. Un topos di questa narrazione autobiografica è il momento del cambiamento dell’uscita da una realtà industriale per passare ad un’altra. Cambiare si sa non è mai facile, c’è sempre il timore di sbagliare, ma Mario Rosso è stato fortunato in questo perché ogni volta consultava la moglie Gavina, il suo “infallibile oracolo”. Così’ la ascoltò anche quando si trattò di trasferirsi definitivamente in America. Doveva staccarsi dai familiari. Mario Rosso ci rifletté molto, rinunciò all’America, e riflettendo si soffermò su questa domanda: che cos’è l’amore.
Il ragionamento di Rosso è questo: “non c’è prezzo o soddisfazione che ripaghi il costo di un sacrificio degli affetti. … Non so cos’è l’amore, ma so come si riconosce: quando la felicità dell’altra persona non solo è sempre più importante della tua, ma ti rende più felice della tua stessa felicità, allora è lui”. Chapeau.
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Momenti di ironia e di sarcasmo
Quando Mario Rosso passò alla Rinascente ( allora Gruppo Fiat) a fare il capo del personale ( il predecessore era comunista: fare il capo del personale ed essere comunisti veniva percepito – osserva -non solo come un ossimoro ma come una provocazione blasfema”).
Un giorno il predecessore vede Mario Rosso con in mano Gita al faro. “Lei legge Virginia Woolf”, gli domanda stupito. Commento sarcastico di Rosso: forse pensava che si leggessero solo circolari e contratti di lavoro.
Ma poi viene il trasferimento a Catania di alcuni centri della Rinascente, l’infiltrazione della mafia , l’incendio di alcuni capannoni.
Negli ultimi tempi della sua permanenza in Fiat, a Rosso viene affidato un incarico apparentemente prestigioso: la Direzione dell’Ufficio di Roma, a metà strada tra sede di rappresentanza diplomatica del Gruppo torinese presso il potere romano e l’attività di lobby, sia pure di lobby istituzionale. Ma erano tempi di tangentopoli e di lobby non era proprio aria. Per cui Rosso vede un giorno un dirigente venuto da Torino e gli domanda: mi spieghi in cosa consiste il mio lavoro? E quegli: di che ti preoccupi? Non devi fare niente.
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La gaffe della Fiat sull’auto del Papa
Poi l’illuminazione. Un pomeriggio Rosso vede in tv un servizio sul Papa e sente risuonare la frase ripetuta del telecronista: la Mercedes del Papa si ferma, la Mercedes del Papa riparte. Idea: ma perché non la FIAT del Papa? Rosso chiama Torino, lancia l’idea di un’auto da costruire per il Papa.
L’idea piace, Rosso pensava a una cerimonia per valorizzare l’evento della consegna e il marchio Fiat. Ma come andò a finire? “La cerimonia di consegna accuratamente programmata per il massimo effetto promozionale viene disastrosamente rovinata da una gaffe del vertice Fiat. Il giorno prima della presentazione, invece che come ‘’reverente omaggio dell’umile lavoro delle maestranze”, come concordato con la gerarchia vaticana, viene annunciato alla stampa come un regalo della Fiat al Papa “del valore di tre miliardi di lire”. “Tanto basta perché la cerimonia si trasformi in un imbarazzato incidente da passare sotto silenzio, mentre l’auto viene malignamente nascosta nel buio dell’angolo più remoto della rimessa del Vaticano”.
Ma quando ci fu la cerimonia Rosso era già passato a Telecom.
Prima di andarsene e passare all’azienda telefonica guidata da Franco Bernabè, di cui dà un giudizio di valore non disgiunto da critiche, Rosso scrive un articolo sulla Fiat, sulla gestione, sui programmi, sui risultati: è un articolo impietoso, molto duro. Marchionne dirà: non lo giudico male, ma era proprio necessario scriverlo?
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Fiat un amore deludente
Alla Fiat Rosso dedica molte pagine e molte descrizioni d’ambiente. “Sopraffatto dalla competenza di Francesco Mattioli – scrive – e dalla presenza del Potere al massimo livello (era sempre presente anche Romiti, e spesso l’avvocato Agnelli, pareva di assistere a una rappresentazione di gran classe e fantasticavo immaginando chissà quali tremendi giudizi e decisioni sarebbero scaturiti dal confronto tra quei giganti. Invece , poi si saprà, purtroppo succedeva poco, e quasi niente di quello che sarebbe dovuto accadere”.
Dal libro si ricava la netta impressione che la Fiat – su cui aveva puntato con impegno e grandi speranze – è stata quella che gli ha dato maggiori delusioni, un amore tradito o comunque mal ripagato. E quando parla di Fiat, la penna di Rosso si tinge spesso di colore nero e racconta episodi esilaranti e surreali, come quello dell’ad Cantarella, che un giorno gli disse:” Quando uno dei miei manager si taglia, ed esce del sangue, in ogni globulo rosso del sangue io devo poter leggere le quattro lettere F I A T , meglio se ci sono anche i quattro quadratini, mi spiego?”
Rosso gli rispose: “Sì spiega. Ma sul momento non ho una risposta documentata, non avendo emorragie in corso, né in programma analisi del sangue”.
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Eccentricità? Cose comunque curiose. Come un altro “topos” della vita aziendale messo in luce da Rosso, sia in Telecom sia all’Ansa : quando parlavo con un dipendente, un quadro, egli si non spiegando il lavoro che faceva ma il grado: sono un capo servizio, un vice caporedattore , un sesto livello ecc.
Pagine intense sono dedicate al lavoro svolto in Telecom, al momento drammatico della scalata da parte dei cosiddetti capitani coraggiosi ( Colaninno), mentre Il “gran flemmatico” Bernabè lasciava cadere tutte le strategie elaborate dai consulenti, peraltro pagati lautamente. Netto il giudizio di Rosso: il vero crimine non fu solo il vandalismo finanziario, il debito, ma la distruzione per sempre di una idea: l’idea della Grande Telecom Italia.
Il nuovo padrone Colaninno lo mandò a chiamare: “Lei è un ottimo manager, e quindi resta. Ma se vuole andarsene, lo dica, ma fa un errore”. Rosso restò, ma per poco, fino a quando non si rese conto che Colaninno gli riservava un ruolo del tutto ininfluente, quasi da ufficio paghe del personale. Troppo poco per un manager che aveva dei valori, delle idee e soprattutto il coraggio di esprimerle.
Mario Nanni – Direttore editoriale