Quel giorno natale della nuova Italia, il racconto dello storico

Carmelo Pasimeni illustra quel giorno, il 2 Giugno del ’46, una grande festa della democrazia in cui votarono per la prima volta nella storia d’Italia anche le donne

In un clima di grande fiducia ma al tempo stesso teso e incerto, il popolo italiano il 2 giugno 1946 andò alle urne per scegliere tra Repubblica o Monarchia e per eleggere i suoi rappresentanti all’Assemblea Costituente.

 Vi fu una larga partecipazione popolare al voto. Andò a votare oltre l’89% degli aventi diritto. I risultati diedero la vittoria alla Repubblica; furono comunicati ufficialmente il 9 giugno dal presidente della Corte di Cassazione e ufficializzati il 18 dello stesso mese. Alla Repubblica andarono 12.718.641 voti, il 54,3% dei votanti; alla Monarchia andarono 10.718.502 voti, il 45,7%. Lo scarto di appena due milioni di voti diede adito a contestazioni, proteste e ricorsi. I voti non validi furono 1.509.735.

Il risultato del referendum consegnò agli italiani un paese diviso, repubblicano al centro-nord con il 64% dei voti; monarchico al sud e nelle isole (con la stessa percentuale).

I deputati eletti all’Assemblea Costituente furono 556. Per la prima volta i partiti politici poterono misurare il consenso dei cittadini e il loro reale peso politico nel paese. Gli italiani tornarono a votare dopo il ventennio di dittatura fascista. Intere generazioni votarono per la prima volta, così come per la prima volta votarono le donne. Il potere costituente si arricchì, dunque, di un nuovo soggetto sociale fino a quel momento tenuto lontano dalla vita politica. L’ingresso delle donne nella scena politica italiana, temuto fino a quando non ottennero il diritto di voto e la loro eleggibilità, ampliò il processo di democratizzazione della politica, della società, delle istituzioni.

I tre partiti di massa ottennero 426 seggi, il 74,8% dei voti. La DC con 207 seggi, pari al 35,2% dei voti, risultò il più forte partito italiano e da quel momento pose le premesse di un’egemonia sul governo del paese, che si sarebbe protratta per un lungo arco di tempo fino alla fine della prima repubblica salvo alcune interruzioni nel corso degli anni ‘80.

Le sinistre accusarono una certa sconfitta dal momento che il risultato, per quanto importante e indicativo, aveva deluso le aspettative. Il PCI ottenne 104 seggi, pari al 18,9%; al PSIUP, che risultò il secondo partito, andarono 115 seggi, pari al 20,7% dei voti. Seguirono poi tutti gli altri partiti. All’Unione Democratica Nazionale, che raccoglieva liberali, demolaburisti, indipendenti, con il 6,8% andarono 41 deputati; l’Uomo Qualunque, un partito che si era affermato nel Mezzogiorno continentale sulla base di una feroce critica alla convivenza antifascista, contro l’esarchia, ottenne il 5,3% dei voti e 30 deputati; al PRI il 4,4% dei voti e 23 deputati; il Blocco Nazionale della Libertà, che raccoglieva i monarchici, ottenne il 2,8% dei voti e 16 seggi; al Pd’A andò l’1,5% dei voti e 7 deputati; alle altre liste minori, infine, che comprendevano gli autonomisti, gli indipendentisti siciliani, il Partito Sardo d’Azione, la Concentrazione Democratica Repubblicana di La Malfa e dell’ex presidente del Consiglio Ferruccio Parri, il Partito dei contadini, i Federalisti mondiali, ecc., andò il 4,4% e 13 seggi.

Nel complesso, il voto del 2 giugno dimostrò che il sistema politico italiano era fondato sul pluripartitismo; che nella formazione dei governi si offriva al partito di maggioranza relativa la possibilità di aggregare forze politiche più omogenee e ideologicamente schierate; che l’esperienza della collaborazione tra i sei partiti antifascisti del CLN si stava definitivamente esaurendo.

Con la vittoria della Repubblica e la partenza di Umberto II (13 giugno), l’Assemblea Costituente avviò i suoi lavori. Il 25 giugno elesse presidente il socialista Giuseppe Saragat, che si dimise dopo la scissione di Palazzo Barberini, dove fondò il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (poi PSDI); fu sostituito dal comunista Umberto Terracini (febbraio 1947).

Il 28 giugno, l’Assemblea procedette all’elezione del Capo provvisorio dello Stato nella persona di Enrico De Nicola, uomo onesto e giurista di grande valore, monarchico e meridionale, che assicurava una transizione senza traumi al nuovo Stato repubblicano. De Nicola esercitò le funzioni di Capo dello Stato fino a quando non fu approvata la Costituzione ed eletto il primo Presidente della Repubblica nella persona del liberale Luigi Einaudi.

Questo, in estrema sintesi, il quadro generale che emerge dalle elezioni del 2 giugno 1946.

La campagna elettorale fu intensa e aspra. Registrò non pochi atti d’intolleranza politica alla vigilia e durante le elezioni, specie durante quelle amministrative, che, com’è noto, si svolsero in due tornate: nella primavera, prima del voto referendario e politico, e in autunno, quando il risultato elettorale aveva ormai sancito la volontà degli italiani per la Repubblica e i partiti avevano eletto i loro rappresentanti all’Assemblea Costituente.

Alle elezioni per l’Assemblea Costituente si votò con sistema proporzionale, lo stesso utilizzato nelle elezioni amministrative nei Comuni con popolazione superiore ai 30.000 abitanti e nei capoluoghi di provincia. Si votò con sistema maggioritario plurinominale in tutti gli altri Comuni.

Portare gli italiani al voto non fu un’impresa semplice.

Tra la fine del 1945 e i primi mesi del 1946, il Ministero dell’Interno emanò una serie di provvedimenti per garantire lo svolgimento regolare delle operazioni di voto e per tutelare l’ordine pubblico. Tema quanto mai importante, giacché la regolarità delle elezioni avrebbe garantito la “libertà di voto” di tutti i cittadini. Fu per questo che i prefetti convocarono i rappresentanti dei partiti e dei movimenti politici ottenendo un “impegno formale” affinché “l’azione di propaganda e di persuasione tra i loro iscritti” fosse condotta “nel migliore dei modi” e “nel massimo rispetto della libertà di voto”.

Furono inoltre allertati tutti i Comuni in modo che gli uffici elettorali procedessero alla compilazione delle liste elettorali. Si trattò di un’operazione non facile dal momento che, come si sa, i casellari politico-giudiziari erano stati distrutti o non esistevano più dopo l’esperienza del fascismo e dopo il caos amministrativo del periodo bellico.

L’appuntamento delle elezioni amministrative, sulle quali la ricerca storica sta dando risultati significativi per una lettura più profonda e omogena del risultato politico alla Costituente, segnò la prima prova della capacità costituente del popolo italiano. Il decreto n. 74 del 10 marzo 1946, proprio alla vigilia del primo appuntamento elettorale amministrativo, diede l’opportunità alle donne di 25 anni di età non solo di eleggere ma di essere elette, di diventare effettivamente cittadine italiane. Quelle elezioni permisero agli enti locali di ricostituire le proprie amministrazioni dopo il periodo dei podestà, dei commissari prefettizi e delle nomine degli amministratori da parte dei Comitati di liberazione comunali e provinciali.

Il voto libero, segreto e individuale, diventò lo strumento attraverso il quale il popolo italiano poté esprimere liberamente il proprio consenso ai partiti, che in tal modo legittimarono la loro funzione di libere organizzazioni dei cittadini e di mediazione tra la società e le istituzioni. Il voto libero, quindi, fu il termometro che permise ai partiti di differenziarsi, di misurare la loro reale consistenza, di acquisire un peso politico determinante nella vita del paese e dello Stato.

Giornali, comizi e propaganda furono gli strumenti del consenso. Nella circoscrizione salentina, ad esempio, dalla lettura degli organi ufficiali dei ricostituiti partiti emerge l’appassionato, articolato e complesso dibattito pre-elettorale, il cui confronto era incentrato sul significato della partecipazione al voto, sui programmi, sulle prospettive del paese e del governo degli enti locali.

Basti sfogliare le pagine de “L’Ordine” per la Dc; “Il Lavoratore del Salento” per il PCI; “La Democrazia del Lavoro” per l’omonimo partito; “Il Tribuno Salentino” per il PSIUP; “Libera Voce” per il Pd’A; “Epoca Liberale” per il PLI; alcuni numeri unici come “Salento Repubblicano” o altri giornali pubblicati in provincia (“La Voce di Galatina” di orientamento liberale) e lo stesso giornale “La Provincia di Lecce” molto diffuso in città. Non furono poche le sollecitazioni dei dirigenti dei partiti ad abbassare il tono dello scontro politico, “a mettere da parte -come si legge in un articolo de “L’Ordine”- odi e rancori personali, che tendono a snaturare la concezione della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica e a rendere la lotta politica mezzo indecoroso per dare sfogo a passioni e arrivismi”.

Grande impegno fu, inoltre, dedicato dai partiti alla scelta dei candidati per la formazione delle liste elettorali, che si chiedeva fossero improntate a “criteri di rigorosa selezione e valutazione dei requisiti di capacità e competenza”, come si legge nella stampa socialista “Il Tribuno Salentino” e in quella comunista “Il Lavoratore del Salento”.

All’appuntamento amministrativo di marzo-aprile, non tutti i partiti si presentarono con i loro contrassegni, impegnati ancora nella ricomposizione dei propri apparati politici. Tranne la DC e l’Uomo Qualunque, che presentarono liste autonome, negli altri comuni invece furono presentate liste unitarie tra forze che si riconoscevano negli stessi indirizzi politici e programmatici, i cui simboli spesso erano accompagnati da un motto per indicare la presenza di candidati indipendenti che in quelle consultazioni furono veramente tanti.

Furono allestite, infatti, molte liste civiche che accanto ai dirigenti locali riportavano la presenza di professionisti, di uomini di cultura, donne e in alcuni casi anche di sacerdoti, purché -si legge in un comunicato- “godessero della pubblica stima”.

Nelle liste dei partiti di sinistra, in particolare nelle cosiddette liste del blocco popolare, si raccoglievano assieme agli indipendenti i candidati socialisti, comunisti, azionisti e, a volte, anche i repubblicani, cioè “l’unione di tutte le forze vive e operanti del paese che tendano alla felicità e a quella dei propri simili”.

I simboli furono i più vari: dall’elmetto alla stretta di mano, dai tre anelli incrociati alla chiave, dalle tre case al ramoscello d’ulivo, dal sole nascente alla scala, dalle spighe di grano alle campane, dall’albero alla bilancia, dall’anfora alla zappa. Quei simboli sembrarono imprimere alla campagna elettorale un indirizzo tollerante e meno ideologico. In essi non compariva il nome o lo pseudonimo del leader politico, né di qualche capolista, né di altri candidati.

La personalizzazione della politica era qualcosa d’inimmaginabile.

Essi racchiudevano significati diversi. La stretta di mano, la bilancia, il ramoscello d’ulivo, simboleggiava l’unità, la concordia, la giustizia, la solidarietà fra i cittadini che riprendevano a votare dopo la parentesi di un ventennio; il sole rappresentava il simbolo della nuova era dopo l’oscurantismo del periodo fascista; la spiga di grano, la zappa, l’albero, lasciavano intravvedere un periodo di ripresa economica, di lavoro, la fine delle ristrettezze belliche, la soluzione dei problemi materiali più immediati per le popolazioni italiane.

Nel complesso, si trattò di simboli di speranza, di avvio di una nuova fase della Storia d’Italia, di una nuova era in cui il popolo riconquistava il diritto di cittadinanza e, al tempo stesso, gli impegni di carattere sociale riportati in quasi tutti i programmi elettorali. Si insisteva molto, ad esempio, su una politica del lavoro, di perequazione e di giustizia sociale, sulla necessità di avviare interventi di edilizia popolare che favorisse le classi più umili, di estendere la rete idrica nei comuni privi di qualsiasi servizio igienico-sanitario.

Forte fu l’insistenza per la creazione di scuole elementari e popolari per debellare il fenomeno dell’analfabetismo, accentuato nelle campagne, che colpiva in particolar modo le classi rurali; nei comuni più popolosi si chiedeva l’attivazione di istituti tecnici in modo da garantire una professionalità ai giovani. Un tema molto discusso fu la municipalizzazione dei servizi pubblici. In alcuni programmi s’insisteva molto sulla gestione degli istituti di beneficenza nel delicato settore dell’assistenza pubblica e sull’istruzione religiosa.

Tutti i partiti di massa però furono d’accordo sul fatto che la massima libertà e autonomia degli enti locali dovesse essere difesa e garantita nell’ambito dell’unità e dell’indivisibilità dello Stato nazionale. In sostanza, furono i partiti a farsi interpreti delle esigenze della società, mostrando in quel momento “una straordinaria capacità di provocare energie e iniziative periferiche e di base, e di tutela e sviluppo materiale e di formazione culturale e morale”, diventando strumenti di selezione della classe dirigente e “di stabile organizzazione e mobilitazione della società, di permanente rappresentanza dei bisogni di quella società nelle istituzioni e nel governo del paese” (V. Foa).

 Fu questa la vera novità di quel momento.

I partiti politici si erano ormai proposti come i protagonisti della costruzione dello Stato costituzionale, democratico e sociale. Essi segnarono, di fatto, la rottura non solo con lo Stato fascista, imperialista e razzista, che aveva esaltato l’autoritarismo, che aveva imposto un sistema politico a partito unico, che aveva soppresso qualsiasi forma di libertà politica e sindacale, che aveva trascinato il paese in guerra; ma segnarono anche la rottura con il vecchio sistema liberale, che aveva nello Stato borghese il soggetto di diritto, nella cui autorità era racchiusa la politica e la società e stentava a riconoscere ai partiti politici qualsiasi forma di rappresentanza della società.

In quel contesto, lo Statuto Albertino, una costituzione concessa, era stato di fatto superato. Esso non era più adatto a essere la carta costituzionale dello Stato italiano, di una nazione che si stava ricostituendo sulla base di una società di massa, che chiedeva principi e regole di partecipazione,  che fosse unificata nei valori democratici e antifascisti, che si riconoscesse nei principi fondamentali di una nuova e inedita carta costituzionale. Il tema della costituente chiamava in causa il ruolo dei partiti, il concetto di sovranità popolare e quello della rappresentanza, oggi messa in discussione o addirittura annebbiata dalla cosiddetta democrazia diretta del popolo della rete.

L’obiettivo dei partiti fu quello di ricostruire una patria democratica e liberale, antifascista e radicata nelle masse popolari, solidale e occidentale. La nuova Italia, infatti, rinacque su un progetto comune e condiviso, molto più forte delle divisioni che attraversavano i partiti politici e gli schieramenti internazionali. Il lavoro della Costituente, infatti, fu un segnale forte d’impegno e di slancio comune, che animò i costituenti.

Basti pensare al clima di guerra fredda che caratterizzò il 1947. Lo scontro ideologico e politico, l’estromissione dei socialisti e dei comunisti dal secondo governo De Gasperi, i condizionamenti sul piano internazionale con gli aiuti americani del Piano Marshall, la forte interferenza della Chiesa sulle scelte politiche dei partiti di governo, le polemiche sul trattato di pace con le Nazioni Unite, ecc., lasciavano intravvedere un cammino estremamente difficile della Costituente e del testo costituzionale che si andava predisponendo. Eppure, nonostante ciò, la Costituzione fu approvata su solide basi condivise.

Durante i 18 mesi di lavoro ininterrotto i costituenti furono in grado di trovare un terreno comune al di là degli interessi specifici di ogni singolo partito e degli accordi politici contingenti per la formazione delle maggioranze parlamentari. Essi riuscirono a saldare i valori presenti nella tradizione culturale e ideologica dei tre grandi filoni di pensiero, quello cattolico, che affondava le radici nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo e nei principi del cattolicesimo sociale; quello socialista, azionista e repubblicano, radicato nella tradizione riformista e liberale delle libertà civili e politiche; quello comunista del pensiero gramsciano e togliattiano della democrazia progressiva, della solidarietà sociale e della difesa dei diritti del mondo del lavoro.

Vi fu allora “una mente costituente, una capacità di guardare insieme agli interessi particolari (individuali, di classe o di partito) e agli interessi generali; di guardare all’oggi e insieme al domani. I contrasti politici tra partiti erano molto forti ma pur nella evidenza di questi contrasti la Costituzione riusciva a toccare un livello altro, e questo altro livello era quello della ricerca comune. Era una democrazia plurale, in cui le differenze erano legittime, si trattava di vivere civilmente nella diversità” (V. Foa).

Solo in quel contesto, nella prospettiva unitaria di dare all’Italia una Costituzione valida per tutti, al di là delle differenze ideologiche, delle contingenze politiche e delle maggioranze parlamentari, fu possibile affermare i principi fondamentali dei diritti politici, civili e sociali dei cittadini, anticipando la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancita dall’ONU nel 1948.

Carmelo Pasimeni

 

La Costituzione italiana sanciva, sulla base dell’esperienza antifascista e della Resistenza, il principio dell’unità e dell’indivisibilità del popolo italiano e, dunque, della Repubblica italiana; il principio dell’uguaglianza, della tolleranza e del rispetto della persona umana, della pari dignità sociale e dell’uguaglianza davanti alla legge; il principio delle libertà civili e politiche dei cittadini (di parola, di associazione, di pensiero, di confessione religiosa, di partecipazione alla formazione del potere politico); il principio delle libertà sociali, come il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione. Sancì pure “il principio non solo della separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche il principio della diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti e dei reciproci contrappesi”. La Repubblica italiana poté dirsi costituita su base parlamentare e liberale, democratica e antifascista, ma soprattutto fondata sui partiti. Un processo complesso, quindi, quello della formazione della Costituzione repubblicana, le cui vicende storiche, credo, dovrebbero farci riflettere molto di più prima di avventurarsi in nuove forme costituzionali e in inedite sfide, come quelle sull’autonomia differenziata e sul premierato oggi in fase di approvazione.

 

Carmelo PasimeniUniversità del Salento

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