Perdurante la crisi sanitaria, gli italiani non vorrebbero assistere a una corrida nel confronto sull’elezione del capo dello Stato. Ruolo che corrisponde oggi al più alto valore simbolico riconosciuto tra le istituzioni. Ma ci vorrebbe un ritorno alla qualità della politica che nasce da una seria visione del futuro. Per ora Draghi rassicura gli italiani che c’è almeno qualità delle scelte politiche del governo.
Sarebbe bene poter rispondere alle domande semplici: “come va? cosa succederà?”
L’impennata pandemica, che sta coincidendo con il nuovo anno, richiede, più che mai, qualche certezza contestuale. Ma in questi giorni, non solo si rifugge da chiedere o rispondere alla parte più ardua della domanda (cosa succederà?).
Ma si rifugge volentieri anche dalla parte più elementare (come va?). Certo si potrebbe rispondere come gli inglesi rispondono al classico How are you?. Cioè con un’altra domanda. Infatti nei dialoghi e negli auguri di inizio d’anno pochi approfondiscono. Al massimo tirano un sospiro. Insomma pochi mettono la curiosità che c’è quando l’ipotesi migliore ha un volto rassicurante e dicibile.
Se si tratta di parlare di casa propria, si vede ansia generata da qualche contagio in famiglia o nella cerchia di amici. Comunque da preoccupazioni connesse.
Se si tratta di parlare della propria città, del proprio territorio, nemmeno il (modesto) commercio natalizio è stato liberatorio. E’ vero che le famiglie, nelle limitazioni, hanno risparmiato qualcosa, ma nessuno se la sente di fare veri progetti.
Se si tratta di pensare al Paese, per tanta gente pare quasi inutile tornare a insinuarsi nei perenni e forse peggiorati conflitti. Sembra che per molti sia meglio accettare ancora la soluzione emergenziale. In fondo la nave non è senza nocchiero. Sarà deresponsabilizzante, ma la maggioranza dei cittadini ha scoperto in questi mesi più fiducia nelle istituzioni e spenderebbe i propri pensieri anche volando basso.
Ciò non toglie che la pandemia stia insegnando più di quanto ammettiamo. Non è tutto contenuto nel “peggio”. E si va riconoscendo una certa positiva lezione sociale, a cominciare dalla continuata riconoscenza per la dedizione di molti addetti alle crisi[1].
Sono i media però a tenere aperte alcune valvole di indagine. Così che l’agenda del dibattito esiste, ma potrebbe essere più virtuale che sociale. Ed è per questo che l’argomento che tiene appesi emotivamente sia il Paese che il Palazzo non sconfina nelle indecifrabili evoluzioni della politica, non indaga nemmeno tanto negli esiti del PNRR (scritto per gli addetti ai lavori), non prende troppo in esame persino i confortanti dati di una certa ripresa (+ 6% nel 2021, contro il -9% del 2020).
Volendo cogliere in questi giorni un sentimento diffuso sembra che al sistema degli interessi e ai cittadini italiani prema ora sapere piuttosto come andrà a finire l’accartocciata vicenda del Quirinale. Chi sarà colui (o colei) che avrà il destino di conservare o far deperire uno dei pochi poteri simbolici di carattere laico e fuori dallo show-business che ancora oggi gli italiani percepiscono come un valore[2].
Il carattere circospetto, allusivo, reticente, poi improvvisamente assertivo, ovvero possibilista, ovvero pessimista, delle dichiarazioni – vere o attribuite – comincia a innervosire, confondere, allarmare.
Già bastano i conflitti tra virologi e novax, al riguardo. Anche sul Quirinale è troppo! Tornare a ragionare sul nostro destino. Non affogare nella pozzanghera delle piccole convenienze. Ci fu un tempo in cui il valore della politica era più popolare in Italia.
Nel 1930, esiliato in Francia, Pietro Nenni riprende il motto del nazionalista Charles Maurras “Politque d’abord” (contenuto dal 1914 nel testo “La politique religieuse”). Sostanzialmente quel motto (“la politica innanzi tutto”) voleva testimoniare che il partito (nel caso quello socialista, ma valeva per tutti) sapeva quel che voleva e sapeva orientare strategie, scelte, mezzi.
Nel 1944, anno cruciale per le sorti della guerra, Nenni in Italia riprende il motto per il quale “senza una politica generale nell’esercito, nella polizia, nell’amministrazione non si fa e non si vince la guerra”.
E qui il senso strategico viene coniugato con il principio del rovesciamento anche della monarchia e l’instaurazione della repubblica.
Questo vento soffierà fino alla promulgazione della Costituzione. E quel motto resterà un po’ per tutti come il paradigma di un primato dei princìpi, dei valori, dell’originalità strategica.
Nel tempo verrà ripreso – con maggiore prudenza – fino a che la politica interpretata dai partiti poteva contare su un indice reputazionale accettabile. Con la seconda Repubblica si sono perse molte tracce storiche di questa “categoria” intesa come valore.
Finché la trasformazione leaderistica dei partiti, poi persino il riferimento nominale trasferito in prevalenza alla botanica o allo sport, ma non alla finalizzazione stessa della politica, hanno operato una modifica genetica dell’espressione. Che oggi pare declinarsi piuttosto nell’espressione “i politici prima di tutto”.
Se la politica in quanto tale illo tempore era una bandiera, poi è diventata quasi una impresentabilità. Additata dal lamento degli sfiduciati (guidati spesso dal pessimismo) ma anche da una crescente anti-politica manovrata dall’opportunismo. Insomma, per farla breve, il motto storico sembra sepolto. E le azioni che si conducono anteponendo gli interessi della politica al resto – anzi, a tutto il resto – avvengono alla chetichella. L’importante è intestarsi come vittorie acquisite e come interesse del popolo il risultato (qualsiasi risultato) di ogni tenzone.
Le manovre che si sono svolte (ancora oscuramente) attorno alle decisioni del governo del 5 gennaio sul contrasto all’impennata della pandemia sono collocate in quella parabola.
Le finte dei toreador delle quirinalizie – per cui si dice una cosa pensando al contrario, si propone una scelta allo scopo di toglierla di mezzo, si evocano irrevocabilità già derubricate dal buon senso – sono collocate in quella parabola.
Torna di moda dire: per il Quirinale non conta tanto avere voti, conta avere meno veti. Anche qui una spinta a scendere di livello.
La commistione tra i due scenari – il negoziato sulla salute pubblica e quello sulla salute repubblicana – provocano ovviamente le preoccupazioni di chi non vede in campo la regia necessaria (quasi sempre in atto nelle precedenti elezioni del Presidente) per rimettere in fila la grammatica dell’emergenza cercando di salvare le regole della democrazia.
Traspare ora una frattura – generata proprio da un sussulto della politica – tra i partiti e il premier che lega di più la vicenda di governo con il negoziato per il Quirinale. Perché ha a che fare con l’autonomia politica “relativa” dell’attuale composita maggioranza. Ed è una frattura dalle incerte ricomposizioni.
Ricomposizioni necessarie tuttavia se – in una fase ancora di quasi-unità nazionale – si intendesse ripristinare una lotta a fondo tra i due prevalenti schieramenti (diciamo centrosinistra e centrodestra).
Nella conferenza stampa di ieri Draghi ha ricondotto le frizioni a normali confronti “di peso inferiore a quelli che c’erano stati sulla giustizia” e comunque “di forze politiche diverse che comunque vogliono ancora arrivare a decisioni condivise”. E’ una rassicurazione sull’oggi. Mentre la partita del Quirinale (su cui Draghi scarta per principio – ma anche irritualmente – domande, pur mostrando che sulla navigazione del Paese lui mantiene la calma meglio di altri) deve tener conto di un medio-termine che condurrà alla fine del decennio.
E’ legittimo immaginare che il filo del ragionamento stia in questo momento attraversando il canale invisibile di alcune alte componenti del nostro sistema istituzionale (a cui non mancano anche adeguate sponde di analisi) per rimettere insieme in tempo giusto alcuni elementi di metodo.
In realtà senza ritrovare la bussola circa la visione del destino dell’Italia e dell’Europa non si può nemmeno avere parametri per giudicare la fine (ipotetica) del ciclo emergenziale e il recupero di una condizione di pieno e libero confronto delle parzialità del nostro sistema politico.
E allora: come va e cosa succederà? Difficile pensare che ci siano risposte comprensibili senza prima chiarire che un anno di gestione emergenziale abbia anche restituito un certo diritto al motto “politique d’abord” o lo abbia lasciato nella sua confusa clandestinità utile a coprire solo convenienze immediate.
* docente di Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM di Milano
[1] Nella rilevazione Demos (dicembre 2021) il Quirinale ottiene il 63% di reputazione favorevole. [2] S. Rolando – Il virus Covid-19 come fonte di apprendimento sociale – sul giornale online L’Indro (3.1.2022) –
https://lindro.it/il-virus-covid-19-come-fonte-di-apprendimento-sociale/