Quest’anno più che mai, si conferma che i detti popolari, benché non di rado dicano la verità, certe volte sono bugiardi, anzi mentitori inveterati. Come personaggi letterari – Iago, Pinocchio – ma anche storici, come Hitler, Mussolini, Stalin.
Una sentenza proverbiale particolarmente ingannevole mi sembra quella che recita “Felice come una Pasqua”. Fra tanti altri possibili maestri dell’infingimento, (certi nostalgici mi perdoneranno, e sennò me ne farò una ragione) il baffuto “Piccolo padre” mi è venuto in mente, chissà perché, per un motivo che definirei geopolitico e che con questioni religiose ben poco aveva da spartire, e non c’entra il suo essere stato in seminario.
Invece un suo glabro e paffuto (cortisonico?) nipotino, grande amico di Kirill patriarca di Mosca e di tutte le Russie, il 17 aprile, con una settimana di ritardo dovuta all’osservanza del calendario giuliano e non gregoriano come in Occidente, ha festeggiato la domenica delle Palme.
Soprattutto a chi ha una visione laica del calendario, è probabile che sia venuta in mente una ballata di Fabrizio De André considerata fra i testi più densi ed emblematici del genere; s’intitola “La domenica delle salme”. A ragionarci un po’, in effetti, si capisce che Vladimir Putin tanto da festeggiare non deve avere.
Non certo per le migliaia di morti ucraini, soprattutto civili rubricabili come semplici “danni collaterali”, ma per i militari russi uccisi e feriti, che approssimandosi il secondo mese di guerra, sarebbero nell’ordine di qualche decina di migliaia. Tutte vittime, ucraini e russi, per i quali il potere salvifico e magico del salice – che nel mondo ortodosso sostituisce la palma allo stesso modo che da noi l’ulivo – non ha avuto effetti. Insomma, come se non bastassero un paio d’anni angosciosi per la pandemia, Mosca ha regalato all’Ucraina, a sé stessa e al mondo la terza Pasqua segnata dagli equivoci e dai lutti. Altro che “felice”.
Proseguiamo negli equivoci e facciamo finta di stare in un periodo pasquale “normale”, all’ombra pacifica di un olivo vegeto e centenario. Donde verrebbero tanta gaiezza e felicità? Tutti, almeno coloro che rispondessero calandosi nell’ottica della festività religiosa, risponderebbero che la gioia è dovuta alla resurrezione di Cristo, vittorioso sulla morte.
Ma forse non è proprio così. O perlomeno ci sono anche altri aspetti da considerare. Fino a un secolo fa, all’incirca agli inizi del Novecento, dalle Ceneri al Sabato santo i cattolici osservanti erano sottoposti a una serie di sacrifici e rinunce in uno spirito penitenziale così stretto e oblativo da sembrare una coercizione da anacoreti.
Tra gli interdetti alimentari c’era quello di consumare carne, pesce o dolci, nonché di bere alcolici; vietato avere rapporti sessuali con il coniuge, cantare o fare musica, eccetto quando fosse prescritta dalla liturgia, sulla base dei canti antifonari e dei responsori contenuti nel salterio; proibito recitare poesie e dipingere, con esclusione di soggetti sacri, previa la debita dispensa delle autorità ecclesiastiche.
Volendo richiamare leopardianamente lo stato d’animo che in periodi non quaresimali precede la domenica, neppure la breve illusione del “sabato del villaggio” era concessa. La paradigmatica felicità pasquale, allora, poteva essere anche la fine dell’incubo penitenziale, il ritorno alla normalità, alle piccole o grandi soddisfazioni dell’esistenza, alle legittime aspirazioni. Con l’arrivo della Pasqua, almeno, si poteva nuovamente sperare e sognare.
Mentre per quanto riguarda il Natale non c’è, né potrebbe esserci, alcuna attinenza con festività ebraiche, Gesù che nasce è il Cristo, ovvero il Messia, l’Unto dal Signore, che per gli ebrei deve ancora arrivare e manifestarsi agli uomini; oppure musulmane, Gesù per l’Islam è uno tra i profeti, ma non il Messia, è evidente la derivazione della Pasqua cristiana dalla Pesach ebraica.
Ma è una evidenza squisitamente etimologica o, per dire così, formale; sul piano sostanziale, sono proprio quelle similitudini che hanno sempre ingenerato tra ebrei e cristiani le accuse di empietà degli uni e di deicidio degli altri. Il termine Pesach significa passaggio, lo stesso la Pasqua. In entrambe le religioni, la parola ha un doppio significato.
Per gli ebrei, il passaggio è quello dell’Angelo sterminatore che avrebbe risparmiato i primogeniti della stirpe di Davide se gli stipiti delle loro porte fossero stati segnati con sangue di un agnello sacrificato per l’occasione; l’altro passaggio è l’attraversamento del Mar Rosso da parte degli israeliti, che in tal modo acquistano la libertà lasciando l’Egitto verso la terra promessa. Il passaggio dei cristiani, a sua volta, si riferisce a quello dalla morte e passione di Gesù verso la vita, che avviene appunto nel giorno di Pasqua attraverso la Resurrezione; nonché alla transustanziazione eucaristica, ossia il cambiamento di stato da pane e vino a corpo e sangue di Cristo.
In tale caratterizzazione semantico- teologica, però, alcuni vedono una prevalenza del senso di morte, nonostante che, consumatasi la passione sulla Croce, l’esperienza terrena del Figlio dell’Uomo si concluda con il vittorioso ricongiungimento col Padre.
Salvo forse che tra i cristiani ortodossi, i quali sembrano attribuire una valenza superiore all’epilogo della Resurrezione del Cristo trionfante, in larga parte del mondo cristiano, e soprattutto cattolico, ci si sofferma assai di più sull’aspetto della morte, della macerazione nel dolore (anche della Vergine Maria per il supplizio del Figlio) e della sofferenza.
Basti pensare alle cerimonie penitenziali del Venerdì santo: in Italia mi vengono in mente, tra innumerevoli altre, quelle di Taranto, con il Troccolante che sembra Belfagor, le processioni dei Misteri e dell’Addolorata, o i riti della Settimana santa in Andalusia. Lì, come in altre regioni della Spagna e in modo più sobrio del Portogallo, si assiste a una miriade di processioni del Cristo morto, di pianti della Madonna, di penitenti incappucciati, di flagellanti.
A punteggiare questi riti ci sono lamentazioni, le famose “saetas”, i canti devozionali dedicati alla Croce, con una quantità di marce funebri; dalle grandi composizioni di Chopin e Mozart, a ingenue ma non meno ispirate marce per banda, con gran clangore di piatti e fragore di gran cassa, a sottolineare ogni passaggio di qualche clarino e pochi ottoni.
Non c’è paese anche piccolo, talvolta poco più che un villaggio, che non ostenti con motivato orgoglio la sua banda. Fosse anche di una dozzina di sparuti elementi, ciascuno fiero della propria uniforme.
Nelle raffigurazioni della Croce e della morte di Gesù, che tanto scandalizzano ebrei e musulmani che, fra tante differenze, hanno in comune (a parte il profeta Abramo) il rifiuto di rappresentare l’uomo in ogni sua possibile versione, spiccano i volti di certi Cristi lignei soprattutto spagnoli, la cui drammaticità ricorda il celebre dipinto del Cristo morto di Andrea Mantegna.
Questi cenni iconografici della Passione raggiungono un livello forse ineguagliabile in un artista del primo cinquecento tedesco, contemporaneo di Albrecht Dürer, Matthias Grünewald. Questo pittore, passato alla storia dell’arte con un nome certamente fittizio ma ormai con quello identificato, fra altre opere emblematiche, secondo l’illustre critico fiorentino Roberto Salvini, è autore della “più straziante Crocifissione che la storia della pittura ricordi”.
Il corpo di Gesù è ritratto in modo iperrealista, fino a provocare sgomento in chi guarda. La terra sul Golgota non ha ancora tremato e il cielo si deve ancora oscurare, ma Cristo sembra già morto. Il volto è terreo, livido, lo sguardo spento. Sul corpo e sulle membra del Nazareno pare di vedere già formate le prime macchie ipostatiche.
Chi sa l’epilogo sulla Croce forse si meraviglia che non abbia ancora rivolto al padre l’ultima fatidica domanda, che suona come un rimprovero: “Eli, Eli, lamma sabactani”, (“Padre, Padre, perché mi hai abbandonato”). Ma Cristo, seppure per poco, è ancora vivo; ne fanno fede le mani, che si stagliano come poveri artigli brancolanti, benché trafitte dai chiodi.
Queste e molte altre ancora sono le tessere che compongono l’immenso mosaico pasquale dedicato alla morte e alla sofferenza. Un mosaico che sa di sangue umano, forse divino e anche di incolpevoli agnelli, grazie a quella iconologia divenuti simbolo di purezza e di sacrificio.
Altri animali ugualmente innocenti, se potessero comprendere, non avrebbero neanche la consolazione di essere diventati dei simboli. Ve lo immaginate un porcellino che toglie i peccati del mondo? O un povero cane in qualche plaga (che mi piace di definire “purulenta”, come una piaga) dell’Estremo Oriente cinofago? Ma maiali e cani non sono creature adatte alle Scritture e con la Pasqua non hanno che fare; per loro ci vorranno, tempo dopo, Sant’Antonio Abate e San Rocco.
Tornando alla Pasqua, troviamo un coacervo di immagini e situazioni atroci che trasudano dai testi neo testamentari legati a questa festività. Una corona di spine, prostitute più o meno redente, un orecchio di scherano mozzato da Pietro (e da Gesù risanato) per difendere il Maestro e, forse, farsi perdonare di averlo rinnegato tre volte; l’Iscariota impiccato che penzola dal siliquastro, detto l’albero di Giuda; e ladri, amici traditori, fiele e aceto sorbiti da una lurida spugna; e per un Cireneo buono che porta la Croce campioni avidi di una soldataglia che si gioca ai dadi persino gli stracci rubati ai suppliziati.
Lo spaccamento delle ginocchia come atto di clemenza per abbreviare l’agonia, un favore che al Re dei Giudei non viene praticato. Dalle scritture ci sarebbero spunti a sufficienza per un sequel del capolavoro di Martin Scorsese L’ultima tentazione di Cristo e forse anche dell’ignobile La passione di Cristo di Mel Gibson.
La Pasqua, però, benché povera di suggestioni e descrizioni del salvifico riscatto finale, non finisce con queste terribili immagini tanatologiche. Soprattutto il Venerdì santo gli spiriti più sensibili si sono turbati, mentre altri, quelli più rozzi, la maggioranza, anche parecchio annoiati dalle prediche quaresimali giunte appunto di venerdì, quel venerdì, al parossismo.
Ormai la tragedia si è consumata, anche il sabato è trascorso, ma le omelie non sono finite e sembrano non finire mai. Siamo otto secoli dopo i fatti narrati e il popolo, preso così all’ingrosso, non gode di ottima salute. Tra guerre, pestilenze e carestie, ancora un centinaio d’anni e qualcuno comincerà anche a parlare di fine del mondo.
I preti che hanno studiato il greco lo chiameranno chiliasmo, la distruzione finale annunciata per l’anno Mille. Certuni, specie nei rigori della fredda Germania, pare che usino la casa del Signore anche per ripararsi; solo che gli occhi, intorpiditi dal freddo, cominciano a chiudersi, favoriti dalla monocorde loquela degli oratóri. Fino a che, proprio nelle austere terre tedesche, a qualche predicatore viene l’idea brillante: che almeno nel giorno di Pasqua si cambi il mortifero registro.
Ma non per esaltare la gloria del Dio risorto o raccontare l’episodio del sepolcro vuoto. Per intrattenere gli spiriti semplici, i villani e le donnette analfabete nel modo più corrivo, più scontato, più volgare che immaginare si possa. Nasce il Risus Paschalis. Nella domenica di Pasqua, in qualche luogo della Baviera, a sottolineare l’uscita dal clima penitenziale e di morte, si decide di intrattenere (e tenere desto) l’uditorio con racconti e scenette mimate che si stenterebbe a credere possibili.
Certi preti e predicatori, vedendo il successo che l’iniziativa riscuote e la sua espansione a parrocchie e diocesi limitrofe, calcano sempre più la mano. E forse non solo quella. Alcuni arrivano anche a denudarsi dalla cintola in giù, al turpiloquio più scurrile, alla bestemmia, con l’aggiunta di flatulenze e borborigmi. Il costume si diffonde ben presto anche in altre aree dell’Europa, soprattutto ovest e sud.
Le sguaiataggini di Pasqua sono apprezzate da pressoché tutto il popolino, ma criticate dalle persone colte. Non però da tutti i vescovi, parecchi dei quali seguitano a tollerarle e in non pochi casi incoraggiarle, pur di non vedere le chiese vuote, almeno sotto Pasqua.
A poco meno di quattro secoli dalla prima documentazione dell’incredibile fenomeno, Dante Alighieri, nel canto XXIX della Commedia, farà fare una delle sue invettive a Beatrice, che gli fa da guida, prendendosela proprio con quei predicatori che per accattivarsi il favore dei fedeli e ottenerne nulla più che ilari consensi non esitano a dire oscene sciocchezze, tronfi del successo ottenuto.
Un secolo e mezzo più tardi anche Erasmo da Rotterdam, solitamente tollerante, esprimerà la sua disgustata riprovazione nei confronti della scurrilità pasquale. Le prediche salaci e sboccate, secondo quanto ha scritto fra gli altri l’antropologa e teologa romana Maria Caterina Jacobelli, sono state storicamente documentate dall’852 a Reims, in Francia, sino a oltre mille anni dopo, e precisamente nel 1911, in alcune chiese della Stiria, fra Austria e Slovenia.
La oggi novantaquattrenne Jacobelli, già ordinaria di Storia delle religioni presso la Pontificia Università Lateranense e l’Università Roma Tre, ha lavorato con l’antropologo e storico delle religioni napoletano Alfonso Di Nola ed è considerata tra i massimi studiosi del risus paschalis.
L’opera di maggior diffusione della professoressa si intitola proprio Il risus paschalis, un argomento che per decenni, ad eccezione di alcuni illustri studiosi, tra i quali i russi Michail Bachtin e Vladimir Propp, è stato tagliato fuori dai circuiti accademici e dai programmi di insegnamento. Forse perché l’idea-forza del saggio della Jacobelli, che ne costituisce il sottotitolo, “il fondamento teologico del piacere sessuale”, è proprio che partendo da un autentico sostrato popolare e malgrado l’apparente indifferenza, quando non aperta resistenza, della Chiesa depositaria della dottrina e della gerarchia, la scurrilità rituale a Pasqua cela, forse non del tutto inconsapevolmente, un elemento tipico dell’ebraismo, particolarmente askenazita; una gioiosa sessualità coniugale come forma di onorare il Signore.
Ma si sa come il mondo cattolico detentore del potere, specie dalla fine dell’epoca barocca fino all’ultima fase pre-conciliare, consideri il sesso come una sorta di “male necessario” ad accrescere il gregge dei fedeli. Non sia mai provarne piacere.
Carlo Giacobbe – Giornalista, scrittore, già corrispondente da Capitali europee ed extraeuropee