“Made in Italy” più tutelato dopo la recente sentenza della Cassazione

La recentissima sentenza della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione del 3 maggio 2022, depositata il 21 giugno u.s. ha il pregio di mettere a fuoco ancora una volta l’importanza della rilevanza penale del concetto di “made in Italy” sui prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine.

Prima di entrare nel cuore delle argomentazioni della Suprema Corte, corre l’obbligo ripercorrere, seppur sinteticamente, l’importanza della Legge Finanziaria del 2004 all’art. 4 comma 49 L. 24 Dicembre 2003 n. 350, relativa all’importazione e l’esportazione ai fini di commercializzazione, ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine che costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 517 cod. pen..

Questa breve, ma doverosa, premessa introduce il discorso sulla lotta alla contraffazione e la tutela del made in Italy.

Le condotte illecite lesive del c.d. “made in Italy” hanno ad oggetto la falsificazione dei dati relativi all’origine e/o alla provenienza dei beni da intendersi, secondo i più recenti orientamenti della lavorazione riferibili rispettivamente al “luogo geografico di produzione” e al “luogo di lavorazione del prodotto”.

L’origine e la provenienza dei beni, naturalmente, sono strettamente legati alla qualità dei prodotti, nel senso che, da un punto di vista patologico, risulta senz’altro appetibile abbinare indebitamente l’etichetta “italiana” a merci di origine/provenienza diversa, stante l’insito valore riconosciuto alle filiere produttive nazionali.

Giova precisare che la delicata materia della tutela delle indicazioni di origine o qualità delle merci ha assunto un crescente rilievo a livello nazionale ed europeo, anche in ragione della massiccia diffusione di forme di delocalizzazione imprenditoriale che hanno comportato il trasferimento di parte o talvolta, di interi cicli produttivi in paesi terzi.

L’usurpazione delle indicazioni di origine o provenienza può interessare qualunque genere di prodotto, ma risulta particolarmente significata con riguardo ai generi del comparto agro-alimentare.

Proprio sul punto dell’indicazione di origine si concentra la motivazione della pronuncia della Suprema Corte partendo correttamente per fini di chiarezza espositiva dalle condotte che ora assumono rilievo penale proprio ai sensi della norma inizialmente citata ovvero dell’art. 4 comma 49, “distinguendo quelle integranti un mero illecito amministrativo, ribadita la natura di norma generale dell’art. 4 comma 49 che sanziona l’importazione, l’esportazione e la commercializzazione dei prodotti recanti false e fallaci indicazioni di provenienza o di genere, nonché l’abuso dei marchi d’impresa al fine di indurre il consumatore o ritenere che la merce sia di origine italiana, è pervenuta a delineare i confini delle rispettive fattispecie“.

La sentenza fa buon governo dei richiamati principi di precedenti pronunce che hanno integrato le condotte punibili sulla base di:

–   stampigliatura “made in Italy

–   utilizzo di etichetta del tipo “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano” o “full made in Italy”

–   oppure mediante l’uso ingannevole del marchio aziendale da parte dell’imprenditore titolare o licenziatario.

Tutti questi principi hanno correttamente indotto prima il Tribunale di prime cure che la Suprema Corte in ultima istanza, ha ritenuto che la stampigliatura sulla merce con scritta “Italy” configuri la fattispecie personalmente rilevante, stante l’ingannevole richiamo alla sua prodizione in Italia senza che a tal fine possa ritenersi essenziale la mancanza della precedente dicitura “made in”, tenuto conto che la scritta in questione non avrebbe avuto altra ragione di esserci se non quella di trarre in inganno i consumatori.

 

Antonio BanaAvvocato

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