Non è trascorso molto tempo da quando Mario Draghi, intervenendo all’Assemblea della Confindustria, condivise la proposta di Carlo Bonomi e rivolse un appello alle parti sociali per avviare un percorso comune nell’ambito della gestione del PNRR e delle riforme che ne costituiscono il volano.
Con il solito stile sobrio, volle persino sfrondare quell’impegno dalle solite definizioni solenni; anziché adornarsi della parola patto, Draghi disse che si sarebbe accontentato di “una prospettiva economica condivisa’’.
Il premier, oltre a valorizzare lo sforzo compiuto sulla via della ripresa, ricordò che era in corso un rimbalzo anche se atteso in proporzioni minori.
Era però indispensabile consolidare la crescita.
‘’Non sappiamo ancora – aggiunse il premier – se questa ripresa dell’inflazione sia transitoria o permanente. Se dovesse rivelarsi duratura, sarà particolarmente importante incrementare il tasso di crescita della produttività, per evitare il rischio di perdita di competitività internazionale’’.
Ed è qui che casca l’asino.
Perché – volle sottolineare il presidente del Consiglio – nel 2019, il nostro reddito pro capite era fermo al livello di 20 anni prima, mentre nello stesso periodo la produttività totale dei fattori era diminuita di più del 4%, mentre in Germania era aumentata di oltre il 10% e in Francia di quasi il 7%.
‘’Le buone relazioni industriali – secondo il premier – sono il pilastro di questa unità produttiva’’. Giunto a quel punto Draghi azzardò una riscrittura della storia ufficiale delle relazioni industriali italiane del secondo dopoguerra, dal cosiddetto miracolo economico fino agli anni ’70 quando, a suo avviso, si interruppe il ciclo delle relazioni sindacali ‘’buone’’, che in altri Paesi consentirono, invece, di superare con successo je straordinarie mutazioni del quadro internazionale.
Ricordiamo en passant le prese di distanza da questa ricostruzione da parte di tutti coloro che, allevati nella bambagia della cultura sessantottina, ritengono ancora quell’epoca, nelle sue varianti nazionali, come ‘’il migliore dei mondi possibili’’. Poche ore dopo che Draghi aveva rilanciato la proposta di Bonomi, si capì subito – dalle dichiarazione dei leader sindacali –che non vi sarebbe stata la spinta propulsiva.
Maurizio Landini disse subito che occorreva trovare un’intesa sui contenuti, dimenticando di aggiungere che quest’operazione non sarebbe stata possibile perché mancavano le premesse: per intendersi sui contenuti deve esserci, in via prioritaria, un ‘’pensiero’’ che nei sindacati non esiste ed è dubbio che sia presente in Confindustria.
In ogni caso sembra che a viale dell’Astronomia (sede di Confindustria, NdR) si siano resi conto che non tira aria di patti sociali (e neppure di ‘’prospettive economiche condivise’’) con organizzazioni sindacali che si occupano di green pass, di pensioni e di quattro o cinque fabbriche in crisi quando alla ripresa manca soprattutto l’offerta di manodopera adeguata.
Non vi è spazio per intese virtuose con sindacati che chiedono – alla stregua di un riflesso pavloviano – la proroga del blocco dei licenziamenti dopo che, avendolo ottenuto per cinquecento giorni, non si sono accorti di aver perduto un milione di posti di lavoro anche in conseguenza di mancate assunzioni (come nel caso del rinnovo dei contratti a termine).
Poi che cosa è un patto sociale? Se ne potrebbe elencare una collezione, tutti evaporati nel giro di qualche settimana, tranne uno: il patto per lo sviluppo e l’occupazione del 23 luglio 1993 (il giorno di San Tommaso) sottoscritto dal governo Ciampi (ministro del Lavoro Gino Giugni) e le parti sociali classiche.
Si tende a dimenticare che quell’intesa fu determinata dal protocollo dell’anno precedente, quando il premier Giuliano Amato riuscì a seppellire la cosiddetta scala mobile ponendo le basi per quel riordino dei livelli di contrattazione e della struttura della retribuzione che fu l’oggetto del patto dell’anno dopo con l’obiettivo condiviso di avviare una politica dei salari finalizzata al rientro dell’inflazione.
Questo era allora uno dei problemi cruciali del Paese anche in vista degli obblighi del Trattato di Maastricht. E’ comodo, come si è fatto tante volte, riunirsi intorno a un tavolo e concordare un pacchetto di richieste da presentare al governo.
Perché il patto sia una cosa seria, invece, il nocciolo duro non può che essere lo scambio di impegni reciproci tra sindacati e Confindustria. Dove dovrebbe battere oggi il cuore pulsante di un patto sociale? In una direzione, in particolare: il consolidamento della ripresa attraverso il recupero di quel gap di produttività che ha penalizzato il nostro sviluppo.
La possibilità di compiere quel salto necessario a cui abbiamo rinunciato da almeno due decenni è legata agli investimenti in nuove tecnologie, alla formazione del personale (a partire dalla scuola), alla riorganizzazione delle imprese, all’avvio di politiche attive del lavoro nell’ambito delle riforme indicate nel PNRR.
Ma sono necessari anche strumenti contrattuali e retributivi collegati all’incremento della produttività, incentivati da regimi fiscali di favore. In sostanza all’ampliamento della contrattazione di prossimità perché è nell’impresa che si possono individuare, promuovere gli obiettivi e remunerare i risultati.
*Economista, ex sindacalista