L’ultimo miglio che La Russa non ha percorso. Significative omissioni e l’abbozzo di un suo personale Pantheon

Del discorso di Ignazio La Russa, quando si è insediato alla presidenza del Senato, sono tante le cose da annotare. A cominciare dall’espediente retorico che ha usato dicendo di non aver preparato un testo, ma solo alcuni appunti. Gli crediamo ma fino a un certo punto, a patto che si riconosca che di trovata si tratta. La sua designazione a presidente del Senato era nota da giorni e quindi è poco credibile immaginare che non avesse preparato almeno una scaletta.

Ma queste, come direbbe Totò, sono quisquilie, divertenti ma non importanti. Ci interessa invece cogliere alcuni aspetti delle cose che La Russa ha detto e non ha detto.

Per esempio, una frase rivelatrice che sembra quasi una excusatio non petita: sono stato sempre un uomo di parte, anzi di partito (non vediamo tutta questa differenza, NdR), ma quando ho assunto incarichi pubblici (vice presidente del Senato, della Camera, ministro della Difesa, NdR), sono stato capace di essere al disopra delle parti.

La Russa non ha giocato a travestirsi da agnello: ha rivendicato le idee politiche professate da suo padre e dai suoi figli: idee di destra. La parola “fascista”, neanche “postfascista”, non l’ha mai pronunciata. Per pudore? Perché ha cambiato idea? Per opportunità? Per non suscitare polemiche? Era invece l’occasione per rivendicare le sue idee e dire fino a che punto le conserva o le ha aggiornate. Invece niente.

Non ha sottaciuto che uno dei suoi fratelli, Vincenzo, ha abbandonato “l’idea professata in famiglia” e se n’è andato nella Democrazia Cristiana.

Ha citato Tatarella, ministro dell’Armonia, un personaggio mite e gentile, così lo ricordiamo noi, e sono le due qualità che Liliana Segre ha auspicato segni distintivi dei dibattiti e dei comportamenti dei politici.  Era un uomo anche spiritoso: quando in Europa ai ministri di destra del governo Berlusconi rifiutavano perfino il saluto, accadde questo episodio: il ministro socialista Di Rupo, belga di origine italiana, non volle stringere la mano a Tatarella. Il quale prontamente replicò: Bravo!  anche Mussolini ha abolito la stretta di mano.

La Russa, che non disdegna di fare il piacione e il galante con le signore, e anche durante la conduzione delle sedute parlamentari lascia trasparire tratti di cortesia se non di amabilità, anche nel mondo di confrontarsi ( qualche antifascista scolastico salterà sulla sedia, NdR), mai avrebbe schiaffeggiato, e tantomeno oggi schiaffeggerebbe, un giornalista per un resoconto sgradito su una riunione di partito. È quanto  fece in pieno Transatlantico a Montecitorio l’on. Alfredo Pazzaglia, capogruppo del Msi negli anni Ottanta. Ora quel giornalista, che di quello schiaffo potrebbe fregiarsi come una medaglia al valore professionale, sta per entrare al Governo.

La Russa per alcuni versi – solo alcuni – assimila in sé tratti caratteristici di  Giuseppe Tatarella e di Giorgio Almirante.  Con questa curiosa aggiunta: che Tatarella l’ha nominato, nel suo discorso inaugurale. Almirante no. Neanche quell’Almirante che chiamava i suoi oppositori avversari politici e non nemici, che non alzava mai la voce nei dibattiti televisivi, nemmeno quell’Almirante che andò a rendere omaggio alla salma di Berlinguer nel giugno dell’84 alle Botteghe Oscure, accolto cordialmente da Giancarlo Pajetta.

La Russa ha citato Luciano Violante per quel suo discorso sui ragazzi di Salò, durante l’ insediamento da presidente della Camera nel 1996, dove lanciò alle forze politiche la proposta di cercare valori comuni e condivisi su cui costruire una convivenza democratica.

Ma La Russa non ha citato Fini. In fondo, se per la prima volta è andato al governo, durante i governi Berlusconi, e se ora con Meloni la Destra ha avuto dagli elettori la guida del Paese, lo deve anche a chi traghettò Il Msi prima e Alleanza nazionale poi nell’ambito della cultura di governo e della riconoscibilità come forza di governo.

Quel Fini che fece gesti anche coraggiosi, della serie “troppa grazia Sant’Antonio”: definì il fascismo il male assoluto, si recò in Israele per rendere omaggio alle vittime dell’Olocausto, mise nel Pantheon ideologico della nuova Alleanza nazionale nata a Fiuggi perfino personaggi come Gramsci.

Su tutto questo La Russa ha taciuto. Non ha nascosto le sue idee e quelle della sua famiglia, idee chiaramente fasciste, ma ha steso un velo sui suoi debiti politici e ideologici, praticando una specie di damnatio memoriae.

La Russa ha citato Violante, ma poteva, 25 anni dopo, giocare quella carta sviluppando in modo compiuto il tema della pacificazione nazionale, dei valori condivisi, del patrimonio ideale comune che deve stare alla base di un popolo, di una comunità. Invece si è limitato ad abbozzare un suo personale Pantheon, con citazioni fatte naturalmente non a caso: Violante, di cui abbiamo già detto; Sandro Pertini, antifascista irriducibile che arrivò a mettersi perfino contro la madre che a sua insaputa aveva chiesto a Mussolini la grazia per quel figlio ribelle;

Di Tatarella, abbiamo già detto.

Il Papa, ormai lo citano tutti.

E poi la trovata di citare Sergio Ramelli, il ragazzo fascista ucciso a sprangate e due ragazzi di sinistra, Fausto e Iaio, sulla cui morte non si è mai saputa la verità. Una sorta di equiparazione di tragici destini quasi a dire: ognuno ha avuto i suoi morti. Una equiparazione, come quella tra i ragazzi di Salò e i partigiani, che pure è stata tentata negli anni passati, ma che la Storia ha dichiarato impraticabile.

Ed è proprio l’ombra di questa equiparazione di destini a rendere l’ecumenismo di La Russa più un discorso ad effetto, perfino una mossa tattica piuttosto che una reale convinzione. Anche La Russa è d’accordo sulla necessità di avere una memoria condivisa. Ma per averla, presidente La Russa e radicarla nel sentimento e nel cuore di tutti gli Italiani, bisogna costruirla e soprattutto riconoscerla.  E si può cominciare a costruirla abbandonando vecchie impostazioni “ugualitarie”. Già è importante che abbia accolto l’idea della senatrice Segre sulle tre date simbolo, ma ha voluto aggiungere la data di nascita dell’Unità d’Italia: 17 marzo.

La Storia ha dato i suoi verdetti: chi stava dalla parte della libertà e combatteva per una nuova Italia non può essere equiparato a chi persisteva a combattere con Mussolini insieme al tedesco invasore.

Su questo è illuminante un episodio accaduto in Senato e annotato da Norberto Bobbio in una pagina di diario.

La scena è questa. Il senatore Giorgio Pisanò, del Msi, con un passato nella Repubblica di Salò, personaggio estroverso, giornalista battagliero e a tratti anche simpatico, si avvicina a Vittorio Foa, partigiano, che aveva subito le leggi razziali (come Liliana Segre) ed era stato nelle carceri fasciste. Pisanò gli si rivolge con queste parole: Caro Foa, abbiamo combattuto su fronti diversi, ma ora siamo tutti e due in Senato, credo che ci possiamo anche stringere la mano e non guardarci in cagnesco.

La risposta di Foa è da manuale storiografico: va bene stringerci la mano, ma tieni a mente questo fatto: noi abbiamo vinto e tu hai potuto fare il senatore; ma se aveste vinto voi, io starei in galera. Rifletti, Pisanò, su questo, rifletti!

Queste parole non hanno bisogno di commento. Ci sono ragioni e valori che la Storia ha riconosciuto come giusti, e alla fine hanno vinto.

Questa precisazione non solo è necessaria ma doverosa, specialmente in questi giorni in cui ricorre il centenario della marcia su Roma e dell’avvento del fascismo.

Ma concludiamo tornando a La Russa. Ha detto, come del resto il neo presidente della Camera Lorenzo Fontana, che vorrà essere il presidente di tutti. Lodevole proposito, se non fosse per il fatto che anche il sindaco del più piccolo Comune d’Italia appena eletto dice come prima cosa: sarò il sindaco di tutti.

Alla fine, che lo dica un sindaco o il presidente di un’Assemblea parlamentare, resta una grande ovvietà. E ci mancherebbe pure che fossero di parte!

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

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