Roma, maggio 2013.
Dadina, la direttrice del giornale per cui lavora a Roma Jep Gambardella, scrittore napoletano di un romanzo solo premiato col Bancarella, per la pausa pranzo in redazione ha riscaldato due porzioni di riso del giorno prima. I due amici mangiano gli avanzi con notevole gusto; con altrettanto gusto e con arguzia chiacchierano del passato, remoto e recente (in particolare, ridono del vuoto assoluto manifestato dalle risposte dell’artista performativa sussiegosa e imbecille che Gambardella ha dovuto intervistare per il giornale). “Il vecchio è meglio del nuovo”, chiosa Dadina a un certo punto.
Roma, tra Quattrocento e Cinquecento.
“Il vecchio è meglio del nuovo”, cominciano a pensare i ricchi amatori d’arte e gli artisti, romani e no, di fronte alle statue e ai reperti antichi che emergono, inarrestabili, dagli scavi. Tra Quattrocento e Cinquecento Roma è interessata da una fase di transizione che progressivamente si estende a tutta l’Europa e che porta a intendere il senso e la bellezza dei marmi e dei reperti antichi come qualcosa di prezioso, non di vecchio.
Prima, infatti, non esisteva alcun collezionismo e migliaia di statue antiche erano dimenticate tra le rovine di Roma. Quando si prestava qualche attenzione all’antico era allo scopo di prelevare dalle rovine elementi architettonici e pezzi come capitelli, fregi, sarcofagi da reimpiegare in architetture moderne, soprattutto nelle chiese o in tombe prestigiose.
Ma la pratica più diffusa era inconcepibile per lo sguardo che oggi da tempo noi riserviamo all’antichità: i marmi venivano bruciati nei forni per ricavarne calce, che serviva per la malta da costruzione. Tale transizione dall’incuria distruttiva alla tutela permessa dal collezionismo è favorita dalla consapevolezza dovuta alla lettura di libri greci e romani che tramandano la fama dell’arte antica, a volte anche dei suoi artefici: possedere oggetti che erano appartenuti a imperatori e a uomini illustri e che erano stati realizzati da grandi artisti dei loro tempi diventa un segno di distinzione, perché circondarsi del passato permette di affermarsi nel proprio tempo. Il collezionismo di statue antiche scavate a Roma tra Quattrocento e Cinquecento è stato il più diffuso in Europa e il più ricco di significati. Quando comincia il collezionismo privato di marmi antichi si gettano infatti anche le fondamenta delle successive collezioni di principi e re che a loro volta conducono ai musei pubblici nella forma in cui li intendiamo adesso.
Infatti il museo pubblico come istituzione ha quasi tre secoli di vita e nasce, appunto, direttamente dal collezionismo privato di sculture e statue antiche a Roma. Nel 1471 è un papa, Sisto IV, a donare, anzi a “restituire” al popolo romano i bronzi antichi del Laterano, cioè il nucleo degli attuali Musei Capitolini. Questi ultimi vennero inaugurati da un altro pontefice, Clemente XII, nel 1734: sul Campidoglio si inaugura il vero e proprio primo museo pubblico del mondo.
Per tutti questi motivi è stato un evento di estremo rilievo culturale l’approdo a una mostra itinerante di una selezione di 92 dai 620 marmi che compongono la leggendaria collezione Torlonia, la più straordinaria ed estesa collezione privata di sculture greco-romane al mondo, organizzata in un museo diventato purtroppo praticamente invisibile a partire dalla Seconda guerra mondiale: accatastati nelle cantine di un palazzo a Roma su via della Lungara (che era stato un opificio per la lavorazione della lana), i reperti erano diventati inaccessibili, con conseguenze non trascurabili sullo stato di conservazione.
La selezione dei pezzi, la mostra I marmi Torlonia. Collezionare capolavori e il relativo bel catalogo sono stati curati da Salvatore Settis (tra le altre cose, Accademico dei Lincei e professore emerito di Storia dell’Arte e dell’Archeologia classica alla Scuola Normale Superiore di Pisa di cui è stato Direttore dopo avere diretto anche il Getty Research Institute di Los Angeles) e Carlo Gasparri (Accademico dei Lincei e professore emerito di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana dell’Università di Napoli Federico II).
La prima edizione della mostra è stata allestita nel 2020 a Roma, proprio ai Musei Capitolini e a Villa Caffarelli; io ho visitato l’allestimento differente e successivamente accessibile a Milano in Piazza Scala, alle Gallerie d’Italia (uno dei quattro musei in Italia del gruppo Intesa San Paolo: https://www.gallerieditalia.com/it/homepage/milano/mostre-e-iniziative/mostre/2022/05/25/i-marmi-di-torlonia/) poco prima che la mostra chiudesse il 18 settembre.
Nel catalogo Settis e Gasparri hanno coinvolto esperti di archeologia e storia dell’arte antica e moderna, a conferma che non è possibile una conoscenza reale del patrimonio a compartimenti stagni e che se si studiano archeologia e storia dell’arte antica in rapporto al collezionismo moderno bisogna anche conoscere il lavoro degli scultori del Settecento, e viceversa: nel caso dei Torlonia, la diretta committenza del principe coinvolse anche l’innamorato interprete dell’antichità Antonio Canova (a questo tema è dedicato il saggio di Maria Vittoria Marini Clarelli, Soprintendente capitolina ai Beni culturali).
Inoltre, fare il punto sulle statue della collezione richiede la distinzione approfondita dello statuto di copia da quello di serialità durante l’antichità (a questo tema è dedicato il contributo di Anna Anguissola, che insegna all’Università di Pisa, alle pp. 112-121. Si tratta di un tema sul quale Anguissola e Settis avevano organizzato l’importante mostra Serial Classic alla Fondazione Prada a Milano dal 9 maggio al 24 agosto 2015: https://www.fondazioneprada.org/project/serial-classic/).
Generazioni di storici dell’arte, archeologi, artisti hanno aspirato a vedere e a studiare la collezione Torlonia. Quando la raccolta era diventata praticamente invisibile, pur se nota in tutto il mondo, le era toccata in sorte una travagliatissima vicenda, anche giudiziaria, combattuta tra nobili eredi per le solite poco nobili ragioni; le ha giovato il progressivo interessamento dello Stato, che per decenni ha tentato di accordarsi con la famiglia romana e di evitare anche tentativi di vendite illecite di una selezione della raccolta a musei d’oltreoceano (qui una rassegna stampa parziale sulla collezione fino all’edizione romana della mostra: https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/davanti-ai-marmi-torlonia/134495.html).
La collezione Torlonia si è costituita in Fondazione il 15 marzo 2016 come “eredità culturale della famiglia per l’umanità” per volontà del principe Alessandro (morto nel 2017) con un accordo stipulato con il Ministero per le attività culturali e per il turismo in vista dell’apertura di un nuovo museo Torlonia (si veda Settis a p. 29 del catalogo. Qui il sito della Fondazione: https://www.fondazionetorlonia.org/it/villa-albani-torlonia/).
Il predecessore omonimo del principe, Alessandro Torlonia (1800-1886), nel 1876 è stato l’artefice della costituzione della collezione in museo pubblico in via della Lungara dopo avere oculatamente incrementato la potenza economica e il patrimonio della famiglia attraverso appalti pubblici e un Banco (chiuso nel 1863) che presta cifre folli allo Stato pontificio ed è partner dei Rothschild. Un’ascesa sociale pazzesca per il terzogenito di un principe nato nipote di contadini di un piccolo centro dell’Alvernia, prima commerciante e poi banchiere (si veda in catalogo il saggio di Carlo Gasparri, pp. 32-33, 39). Il padre di Alessandro Torlonia è stato davvero un degno rappresentante in carne e ossa della ragion d’essere di personaggi da romanzo come il Ferdinand Du Tillet, figlio di una contadina suicida, prima commerciante e poi banchiere, protagonista tra il 1813 e il 1846 di vari episodi della Comédie humaine di Balzac.
La finalità della Fondazione Torlonia prevede di promuovere la collezione insieme a Villa Albani
Torlonia: quest’ultima è una splendida rappresentazione del neoclassicismo nel Settecento ed è la
più rilevante dimora cardinalizia del secolo. Dal 1978 di proprietà comunale è un altro complesso
denominato Villa Torlonia, che fu teatro della memoria storica delle vicende della dittatura italiana.
Se a Villa Albani Torlonia (sulla via Salaria) nel 1870 si firma la resa di Roma da parte dello Stato
pontificio dopo la breccia di Porta Pia, a Villa Torlonia (sulla Nomentana) si insedia la famiglia
Mussolini dal 22 luglio 1925 al 25 luglio 1943 su invito del principe Giovanni Torlonia Junior che
riceve un affitto simbolico di una lira annuale.
Nella fascistizzata Villa Torlonia la mitografia di parte colloca un episodio, non confermato da fonti storiche attendibili, secondo il quale Mussolini avrebbe ricevuto lì Gandhi con una capretta al guinzaglio (lo avrebbe ricevuto, invece, in ufficio e per pochi minuti): cito l’episodio per ricordare che la storia è sempre un ausilio ineludibile per spiegare certi altrimenti inspiegabili ricorsi da parte del neofascismo nostrano a frasi attribuite al Mahatma alla fine della recentissima campagna elettorale.
La mostra I marmi Torlonia. Collezionare capolavori è stato il primo approdo concreto dell’accordo tra Torlonia e Stato italiano per restituire alla collettività un patrimonio inestimabile per consistenza numerica e unicità qualitativa.
Settis e Gasparri hanno selezionato i 92 capolavori sulla base della caratteristica più specifica e degna di nota della collezione Torlonia, che è una collezione di collezioni: quella secentesca del banchiere intellettuale Vincenzio Giustiniani (interessato anche all’arte contemporanea tanto da possedere anche undici quadri di Caravaggio), formata da 267 opere cedute a Giovanni Torlonia nel 1809 con un atto poi stipulato nel 1816; quella settecentesca di Bartolomeo Cavaceppi, artista ma soprattutto il più importante restauratore romano del suo secolo, acquisita da Giovanni Torlonia nel 1801 dopo un’asta dei marmi e dei gessi rimasti nello studio Cavaceppi di via del Babuino durante la quale il principe è unico acquirente; la collezione di Villa Albani.
Le sale della mostra erano dunque organizzate per evidenziare il più possibile tali nuclei collezionistici originari, acquisiti dai Torlonia per la qualità dei pezzi e per il prestigio di chi li aveva collezionati prima della famiglia. Le 92 opere sono state restaurate con il contributo della società Bulgari e sotto l’alta sorveglianza del Ministero. Le operazioni di restauro hanno avuto risultati non solo conservativi ed estetici: il salone di ingresso delle milanesi Gallerie d’Italia era reso spettacolare da “una serie di busti e di ritratti, la quale, segnatamente nella romana iconografia imperiale, sorpassa e di numero e di bellezza le raccolte notissime del Vaticano e del Campidoglio” (così si espresse Carlo Ludovico Visconti a proposito di questa particolare preziosa sezione della collezione, che copriva sei secoli di biografie maschili e femminili effigiate nel marmo).
I busti apparivano in alcuni casi sbiancati da una spatinatura forse un poco aggressiva.
In ogni caso, la rimozione dei depositi superficiali ha restituito alle opere selezionate le patinature alterate col tempo; sono riemersi anche i restauri precedenti che, in casi particolari, sono a loro volta capolavori che gareggiano con quelli antichi sui quali si innestano.
È il caso di una delle statue di punta della prestigiosa collezione Giustiniani, un caprone a riposo a grandezza naturale: il restauro ha permesso agli studi di confermare che la testa del magnifico caprone è attribuibile con certezza a Gianlorenzo Bernini (ne ripercorre la storia Tomaso Montanari alle pp. 92-97 del catalogo I marmi Torlonia. Collezionare capolavori, a cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri, Electa 2020: https://www.electa.it/prodotto/i-marmi-torlonia/). Era una consuetudine impegnare gli scultori in interventi di restauro e di reintegro sulle statue antiche. Perciò vari pezzi della collezione Torlonia recano interventi di altri grandi colleghi contemporanei di Bernini, Alessandro Algardi e François Duquesnoy.
Il caprone aveva un posto di rilievo nel percorso espositivo dell’originale museo Torlonia, dove nella sala degli animali era esposto insieme al gruppo con Ulisse sotto il montone, che nella villa del cardinale Albani era collocato nell’antro artificioso di Polifemo per rievocare l’episodio dell’Odissea in cui Ulisse riesce a sfuggire al ciclope (si veda l’introduzione di Stefania Tuccinardi alle schede del catalogo, p. 136).
Oltre al caprone a riposo, dal nucleo della collezione Giustiniani per la mostra erano stati selezionati: la straordinaria statua colossale di divinità con peplo detta Hestia Giustiniani che è l’unica replica integra giunta fino a noi di un tipo statuario greco datato al 470-460 a. C. (si veda la scheda di Laura Buccino pp. 243-245 del catalogo); un rilievo con scena di bottega di carni, che potrebbe avere avuto una destinazione funeraria o essere stato l’insegna di una bottega la cui proprietaria è rappresentata seduta a un tavolo a tre piedi mentre stringe il collo di un’oca appesa per le zampe;
il cratere con simposio bacchico detto Tazza Cesi, che rappresenta una sorta di feticcio per gli artisti tra Quattrocento e Settecento: lo studioso di arte antica e moderna e collezionista a sua volta Giuliano da Sangallo la disegna vedendola in Santa Cecilia in Trastevere alla fine del Quattrocento (dei capolavori visitabili in tale basilica romana “Bee magazine” ha parlato il 15 luglio: https://beemagazine.it/tra-i-capolavori-darte-nella-roma-del-600-con-una-guida-deccezione/); nel Cinquecento Martin van Heemskerck ne testimonia graficamente la collocazione nel giardino Cesi in Borgo dove era trasformato in bacino per una fontana; Winckelmann ne segnala la presenza a Villa Albani nel 1760 (si veda la scheda di Eloisa Dodero alle pp. 278-281 del catalogo).
La selezione di Settis e Gasparri per il tour di presentazione della collezione ha opportunamente prediletto queste e altre opere ben leggibili, uniche e importantissime per la storia dell’arte. A Milano nella prima sala in cui i busti, antichi e moderni, di uomini (Caracalla, Adriano, Antinoo) e donne imperiali illustri circondavano i visitatori, era esposta anche una rara statua nuda di Germanico che è anche l’unico bronzo della collezione, rinvenuto in Sabina.
Una saletta vicina racchiudeva tre teste ritratto, due maschili e una femminile, dando loro giusto risalto: il cosiddetto Eutidemo di Battriana, il ritratto di un re ellenistico frainteso nel Seicento come quello di un uomo di umili condizioni per via dell’età e del copricapo, un pileo; il cosiddetto Vecchio da Otricoli, vertice del virtuosismo ritrattistico romano; la Fanciulla di Vulci, di tale nitore formale che la sua datazione è stata spesso dibattuta e spostata in avanti nel tempo fino a ritenerla un pezzo moderno (un particolare della testa è in copertina del catalogo).
La sala con tre statue di atleti aveva come star dell’ambiente la coppia di sculture di satiro e ninfa detta “Invito alla danza” (così nel 1909 lo definì l’archeologo transilvano professore a Praga Wilhelm Klein), una eccezionale replica romana da un originale greco: eccezionale anche perché si tratta dell’unico esemplare completo giunto fino a noi grazie alla tutela permessa dalla proprietà Torlonia.
C’era spazio anche per una sezione conclusiva che illustrava metodi e scopi del restauro di statue come quelle esposte in mostra: i centododici frammenti antichi e moderni di marmi diversi lasciati visibili nella creazione della statua di un Ercole che non è il risultato di un vero e proprio restauro, ma una creazione d’artista sulla base del torso antico, dipendente da modelli policletei, e della testa, anch’essa antica.
Nella stessa sala, insieme a un video didattico suddiviso tra i due studiosi curatori, era esposto anche I monumenti del Museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con la fototipia di Carlo Ludovico Visconti del 1884: una sorta di libro-feticcio perché illustra magnificamente la collezione Torlonia ma soprattutto perché è il primo catalogo illustrato di un museo. I volumi del catalogo vennero pubblicati in varie lingue, la prima edizione fu ovviamente nella lingua internazionale, il francese, e gli esemplari vennero donati, non venduti: segno esplicito che la catalogazione di un patrimonio privato era già inteso come pubblico e pertanto era necessario che la collezione fosse conosciuta e studiata in ambito erudito e accademico internazionale.
Nella bibliografia, per dire così, manualistica sulla storia dei musei la collezione Torlonia è degna di occupare un posto di primo livello. Anche per questo il catalogo derivato dalla mostra è ora un ottimo strumento grazie a saggi e schede bene documentati e scorrevoli. Mostra e catalogo confermano una volta di più che si possono allestire mostre di arte antica attrattive anche per un pubblico non colto o mediamente colto senza che le opere antiche debbano essere forzatamente accostate a oggetti a noi contemporanei che nulla hanno a che fare con la loro fortuna storica. Questa però è la metodologia espositiva imperante per fare digerire al grande pubblico le mostre di arte antica (di questo uso e anche della mostra Torlonia, oltre che del lavoro di curatore di mostre di arte antica per la Fondazione Prada, Settis ha parlato nella conferenza Dalla collezione al riuso: una mostra a Milano e un percorso a ritroso per i Dialoghi d’arte e cultura. Dietro le quinte alle Gallerie degli Uffizi lo scorso 21 settembre 2022, che si può rivedere sul profilo FB degli Uffizi: https://www.uffizi.it/video/salvatore-settis-dalla-collezione-al-riuso).
Ma non c’è bisogno di attualizzare sempre il passato in forme superficiali. Possedere il passato permette di affermarsi nel proprio tempo. Allestire in un museo il passato di cui si va orgogliosi permette agli altri di trovare qualcosa di diverso e di meraviglioso che non sta nella vita di tutti i giorni. Il museo è certamente la dimora del passato, ma di un passato migliore del presente; non è un luogo in cui trovare cose vecchie (sul ruolo del museo nella vita quotidiana è sempre un viatico importante il libro di Adalgisa Lugli, Museologia, che esiste in numerose ristampe e che ho inserito tra le letture del corso di Museologia che la mia università ha inaugurato da poche settimane: http://www2.unifg.it/doc/extra.asp).
Per questo i libri hanno ricoperto un ruolo decisivo per orientare gli uomini del Quattrocento e del Cinquecento verso il culto vivo di un passato che piano piano consideravano migliore del presente: la conoscenza del passato migliorava la loro vita, il loro spirito, le loro case e la loro posizione sociale. Del resto, se chi entra in un museo lo fa sostanzialmente perché vuole andare da un’altra parte e in altri tempi per qualche ora, anche “chi legge vuole andare da un’altra parte” (così Maurizio De Giovanni ha spiegato con veridica sintesi perché si leggono ancora libri nell’era del digitale e delle immagini durante un vivacissimo incontro con Gaetano Cappelli moderato da Lorenzo Tomasin all’Università Suor Orsola Benincasa lo scorso 24 settembre).
La conoscenza diffusa della letteratura e della storia rende coscienti delle esigenze di tutela del patrimonio pubblico, che appartiene a tutti (lo spiega Kathleen W. Christian nel saggio in catalogo, pp. 53, 55). Se si ricominciasse a fare intendere, fin dalla famiglia e dalle scuole primarie, che il patrimonio pubblico non è ‘vecchio’ ma ‘antico’, che il tempo senza storia (secondo la definizione di Adriano Prosperi in un libro da tenere sulla scrivania di questi tempi: Un tempo senza storia, Einaudi 2021) ci priva della nostra identità, sarebbe naturale non inseguire solo modelli contemporanei occasionali e magari imbecilli, perché a volte penseremmo che “il vecchio è meglio del nuovo”.
In relazione alla costituzione della collezione Torlonia in museo pubblico, Settis fa notare al lettore (a p. 24 del catalogo):
“mentre si andava prima sognando e poi costituendo un’Italia unita, presero rilievo capitale i temi della gestione del patrimonio artistico (in particolare quello delle famiglie di alta aristocrazia, con accese discussioni nel Parlamento del Regno sulle norme fidecommissarie), del rapporto fra raccolte private e musei pubblici, della necessità di adeguare la normativa di tutela a un mercato sempre più aggressivo sull’onda del collezionismo straniero pubblico e privato. A fronte di quell’inarrestabile dispersione, acquisire nuove antichità e collocarle non nei palazzi di famiglia ma in Museo ordinato per sale e per classi monumentali ebbe per il principe Alessandro il doppio significato di una auto-rappresentazione e di un gesto che implicava forti intenzioni e ambizioni civiche”.
Auto-rappresentazione e ambizioni civiche attraverso un museo pubblico della propria collezione di antichità classiche in cui chiunque avrebbe potuto trovare la propria identità culturale: due intenti che un ricco collezionista aristocratico non vedeva disgiunti in un’Italia che sembra, adesso, davvero molto più moderna, nonostante i due secoli la separano da quella in cui si vorrebbero vedere numerosi lungimiranti privati impegnati a tutelare sistematicamente il passato per migliorare il presente.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia